giovedì 23 marzo 2017

BIODANZA, LA POETICA DELL'INCONTRO UMANO

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RELAZIONE DI EMMA DI CESARE

Operatore olistico - Insegnante di Biodanza

La Biodanza è la poetica dell'incontro umano. Così la definisce Rolando Toro Araneda, psicologo e antropologo cileno, che ne è l'ideatore. "E' un incontro con se stessi, con gli altri, con tutto ciò che è vivo nell'universo, è un incontro con la vita. 

La biodanza non propone modelli rigidi di movimenti, ma imposta gli esercizi su un insieme di movimenti spontanei (camminare, saltare), di gesti connessi ai riti associativi ( dare la mano, accarezzare); sono esercizi collettivi, a coppie, individuali, con un’ampia scelta musicale, dal jazz, ai ritmi afro e latini, dalla musica classica a quella etnica, fusion e pop. 

La biodanza è un sistema che favorisce lo sviluppo armonioso e integrato delle potenzialità umane ( vitalità, sessualità, creatività, affettività, trascendenza), che a volte restano latenti, attraverso esercizi generati dall’insieme musica-emozione-movimento. La musica è un linguaggio universale e in Biodanza serve ad evocare emozioni, da “ e-mozioni”, entrare in azione, muoversi.

Rolando Toro ha creato il sistema Biodanza ( “vivienza”), negli anni ‘60, come alternativa alle disumane tragedie del secondo conflitto mondiale e come denuncia dell’attitudine della società contemporanea verso un progresso tecnologico impazzito, portatore di una visione materialistica e razionale della vita, con conseguente aridità affettiva ed emozionale degli individui.
Un materialismo che provoca disagio esistenziale, perché indebolisce il legame con la profondità del nostro essere, laddove la vita è istinto, empatia, intuizione.
 
Quali i benefici di chi fa la Biodanza?



Facilita un percorso di crescita personale piacevole e gratificante, migliora la qualità della vita, insegna a conoscere se stessi e ad esprimere le proprie emozioni, facilita la comunicazione con gli altri, migliora il benessere psico-fisico, accresce l’autostima e l’equilibrio interiore.
La relazione è stata arricchita da un video in cui Rolando Toro danza con gli allievi.
La biodanza si è diffusa nel mondo; la scuola pugliese che prepara gli insegnanti è a Bari.

 


L’Università propone l’organizzazione di un corso di Biodanza.
Chi è interessato può rivolgersi all’Insegnante Emma             De Cesare.






E’ seguito un bouffet, offerto dalle presidenti Silvia e Mariangela, che hanno festeggiato il loro compleanno. Bouffet arricchito dalla generosità di alcuni Amici dell’Università.










  A  U  G  U  R  I !!!

mercoledì 15 marzo 2017

Tramonto o eclissi del “valore” famiglia?

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Dotta relazione 

del prof. Giovanni Pergolese





 
Introduzione
È abbastanza agevole concordare sul fatto che la famiglia appartenga al patrimonio originario dell’umanità.
Infatti, il primo ambiente vitale che, in generale, l’uomo incontra venendo al mondo è la famiglia. Pertanto, la sua minaccia di estinzione riguarda l’uomo stesso.
Oggi, influenze culturali, sociali ed economiche contrastano con la famiglia al punto da ostacolarne la formazione. È possibile restituirle il valore che le è proprio?
Alla luce di questa situazione si pone la questione circa il tramonto o l’eclissi del “valore” famiglia. Una domanda su tutte: nella società attuale è ancora essenziale il servizio reso dalla famiglia? Ne vengono riconosciuti dallo Stato i diritti originari e connaturali: dalla procreazione responsabile all’educazione della prole?

Ritratto di Pietro Stanislao Parisi con la famiglia (Giuseppe Tominz - 1849)
Ripensare l’intera area della sessualità, del rapporto di coppia, del dono della vita, del rapporto famiglia-società, facendo fino in fondo i conti con le acquisizioni della modernità; come pure il superare la crisi, spirituale e morale avviata dalla seconda guerra mondiale, drammatica smentita dei miti del progresso e dell’autosufficienza dell’uomo, portò i padri costituenti a rivedere l’istituto della famiglia nell’ordinamento giuridico italiano. Ne scaturì una questione antropologica: la famiglia ritornava ad essere considerata importante per il futuro dell’umanità, passaggio obbligato sulla via di un’autentica umanizzazione del mondo.
Un nuovo umanesimo, dunque, in cui recuperare le radici profonde del rapporto uomo-donna e dell’esperienza della paternità-maternità: la famiglia come luogo della produzione e della trasmissione dell’umano.
Fonti della presente ricerca: il diritto romano, la legislazione scaturita dalla rivoluzione francese e la Costituzione Italiana.

  1. Premessa storico-giuridica
Nel mondo romano la parola famiglia deriva dal latino familia. Indica un complesso di persone legate tra loro da un rapporto di matrimonio, di parentela, di affinità. Quella semplice (detta talvolta elementare o biologica) costituita da un padre, da una madre e dai loro figli, è l’unità base di ogni gruppo sociale, sia essa patrilinea o matrilinea1.
La natura e la storia della familia romana si possono comprendere distinguendo gli istituti familiari che si riferiscono alla familia, o familia iure proprio, che è la famiglia schiettamente romana, da quelli che riguardano invece i rapporti di sangue e cioè la famiglia domestica (per la quale il linguaggio giuridico romano non ha un termine preciso).


L’evoluzione storica si compie per grandi linee, nel senso di un lento progressivo dissolversi dei primi istituti giuridici in favore dei secondi: ma non è possibile segnarne con esattezza le tappe, come è estremamente difficile risalire alle origini. La struttura primitiva della familia ha costituito per storici e giuristi un problema: fu concepita come società patriarcale, sull’esempio della famiglia dell’antichità biblica (H.I.Summer Maine, Th.Mommsen); si diede il massimo risalto al suo carattere sacro, considerandola come una comunanza di culto e di sacra (N.D. Fustel de Coulanges); fu veduta come organismo sociale formatosi dalla scissione di gruppi maggiori (E. Meyer), e prevalentemente come organismo economico ( V. Arangio – Ruiz). Ma la maggior luce su queste origini è venuta dalla teoria di P. Bonfante, che ha visto nella familia romana un gruppo preesistente alla civitas, nato per ragioni di ordine e difesa come vero e proprio organismo politico che ha i caratteri essenziali dello stato e ne adempie le funzioni. Questa ipotesi spiega i poteri del paterfamilias, in tutto simili a quelli del capo di un gruppo politico. L’evoluzione si compie nel senso di un rafforzamento dei poteri della civitas, mentre la familia sopravvive come società domestica intesa a mantenere l’ordine etico nelle relazioni tra i due sessi, e aventi per scopo la procreazione e l’educazione dei figli. La familia è sottoposta al paterfamilias che statuisce sopra di essa.
Il quadro della famiglia naturale vivente all’interno della familia romana è il seguente. I rapporti giuridici non dipendenti dalla patria potestas fra genitori e figli sono regolati dai vincoli di sangue: i figli non possono agire in giudizio contro i genitori senza l’autorizzazione del magistrato, né possono intentare azioni infamanti contro di loro; i genitori godono di fronte ai figli del beneficium competentiae, e gli uni e gli altri sono esenti dall’obbligo della testimonianza. I genitori sono obbligati ad educare la prole e hanno diritto a tenerla presso di sé. Sotto l’impero sorge il diritto reciproco agli alimenti. Ma il capolavoro di questo ordinamento domestico è il matrimonio, basato sulla volontà continua ed effettiva di essere marito e moglie, e sulla convivenza, intesa non soltanto in senso materiale, ma come esistenza di quel complesso di relazioni che i Romani designano col nome di honor matrimonii.
Con l’avvento del cristianesimo, e soprattutto a partire dall’altomedioevo, l’istituto della famiglia fu profondamente influenzato dalla legislazione ecclesiastica, che ne affermò la sacramentalità e, contro talune tesi, codificò l’indissolubilità del matrimonio, nonché il principio monogamico. Si cominciò a considerare il “consenso” nel momento in cui veniva dichiarato, con coscienza e volontà, e non più come consenso continuato, suscettibile di venir meno per volontà delle parti. Dove invece l’opera della Chiesa non riuscì, fu nell’eliminazione della differenza tra maschi e femmine, portata dal diritto feudale. La disparità di trattamento tra i figli nella successione sarà superata solo dalla Rivoluzione francese, che segnò anche l’avvento della concezione laica della famiglia col prevalere del movimento filosofico razionalista. Questa affermazione della laicità della famiglia, pur toccando l’idea sacramentale del matrimonio, non incise sul contenuto sociale dell’istituto familiare nelle linee fondamentali che il Cristianesimo aveva elaborato, e anzi con l’avocarne allo stato l’integrale disciplina, ne assunse il concetto informatore. Il codice napoleonico ne fu la tipica espressione, dettando al mondo le linee maestre di un’organizzazione familiare intesa come nucleo elementare ed essenziale dell’organizzazione dello stato, tutt’oggi pressoché intatte2.
L’ordinamento giuridico italiano considera la famiglia sotto due diversi profili: da un lato come istituzione sociale, dall’altro come vincolo reciproco che corre tra due o più persone anche indipendentemente dalla convivenza, e che è produttivo di determinati doveri giuridici.
La nostra Costituzione dedica alla famiglia (istituzione sociale) una serie di disposizioni3, dalle quali si evincono la sua natura e la sua rilevanza giuridica, nonché altre forme di convivenza4.
Va evidenziata la scelta compiuta dai nostri costituenti di inserire la famiglia nella Costituzione. Non si trattava di una scelta scontata, anzi essa andava contro tutta la nostra tradizione costituzionale e legislativa.
Lo Statuto Albertino (1848), che per oltre un secolo aveva rappresentato la Costituzione del Regno d’Italia, aveva sempre ignorato la famiglia.
Lo Stato liberale, pur tutelando la famiglia l’aveva relegata nel codice civile (1865), ossia tra gli istituti e i rapporti di diritto privato, valorizzando di essa soprattutto gli aspetti patrimoniali derivanti dal matrimonio, che caratterizzarono la famiglia borghese individuata dal Codice napoleonico del 1804, al quale si ispirarono le successive codificazioni europee dell’Ottocento.
Il regime fascista aveva invece considerato la famiglia a servizio dello Stato col prevedere il dovere dei genitori di educare e istruire la prole, oltre che in base ai “principi della morale”, in conformità al “sentimento nazionale fascista” (art. 147 cod. civile del 1942 nel testo originario).
I nostri costituenti vollero superare queste posizioni e riconoscere la famiglia come realtà originaria e primigenia rispetto allo Stato, ma al tempo stesso, trattandone nell’ambito dei “Rapporti etico-sociali” (Titolo II, Prima parte) insieme alla scuola5, ne riconobbero le funzioni tipiche per la promozione e lo sviluppo della persona umana. Il problema venne sollevato all’inizio del dibattito in Assemblea quando V.E. Orlando presentò nella seduta del 23 aprile 1947 un ordine del giorno in cui proponeva la cancellazione degli articoli dedicati alla famiglia e il loro eventuale inserimento in un Preambolo della Carta. I costituenti cattolici e le sinistre respinsero l’o.d.g. di V. E. Orlando. Cosi facendo l’Assemblea manifestò chiaramente la sua volontà di inserire la famiglia tra le istituzioni cardine del nuovo assetto costituzionale anche nella prospettiva della difficile ricostruzione del tessuto economico e sociale del paese, sottolineandone la specifica rilevanza sociale e valoriale. Nella Costituzione, quindi, la famiglia rileva non come fondamento dei rapporti economici della società, bensì come comunità naturale costituita dall’unione tra un uomo e una donna, con assunzione di reciproci diritti e doveri mediante il matrimonio, ove si sviluppa la persona umana in un contesto di reciproca solidarietà tra più generazioni.
2. La nozione di famiglia
Il nucleo centrale della definizione della famiglia è dato dall’art. 29 della Costituzione, che recita: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. L’uso del verbo “riconoscere” rimanda alla visione dell’anteriorità sociale della famiglia rispetto allo Stato. Si tratta di un’espressione che ricorre anche nell’art. 2, ove si afferma che la Repubblica “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, e nell’art. 5, ove si dice che essa “riconosce e promuove le autonomie locali”.
In questi casi la Costituzione ha inteso rimarcare l’esistenza di situazioni che precedono la Repubblica e che favoriscono la crescita della persona nella famiglia, luogo di affetti e di relazioni solidali, e in comunità locali per maturare la sua partecipazione alla vita politica e sociale del paese.
La definizione della famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio”, richiamando il concetto di natura, rifletteva un’idea religiosa e razionale di famiglia (l’unione tra un uomo e una donna per la procreazione dei figli). Affermava inoltre il principio di eguaglianza tra i coniugi: “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.
Il codice civile (1942) assegnava nel matrimonio un indiscutibile primato al marito sia nei rapporti coniugali sia nella potestà sui figli. Solo con la riforma del diritto di famiglia (1975) il principio dell’uguaglianza tra i coniugi fu introdotto nella disciplina civilistica e fu attuato anche sul piano dei rapporti patrimoniali, con l’introduzione del regime di comunione legale dei beni. Nel suo complesso, quindi, l’art. 29 Cost. individua la famiglia come una comunità “naturale”, ossia dotata di una propria fisionomia e di una propria autonomia che vanno oltre il diritto. Nel contempo il richiamo all’istituto matrimoniale e al principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi apriva uno spazio legislativo per la tutela dei diritti individuali con riferimento all’evoluzione sociale e culturale del paese.



3. Il tema della filiazione
Alla filiazione è dedicato l’art. 30 della Costituzione, secondo il quale “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”. La disposizione, nella sua apparente semplicità, afferma una serie di principi.
In primo luogo, tenuto conto della anteriorità della famiglia rispetto allo Stato, riconosce il diritto, non più solo il dovere (come nel testo originario del codice civile del 1942), dei genitori di svolgere la loro funzione educativa nei confronti dei figli. Si individua nella cura della prole la ragione fondamentale, anche se non esclusiva, di quel favor familiae cui è ispirato il testo costituzionale. Pertanto, nel successivo art. 31 Cost. le forme di aiuto e sostegno alla famiglia sono specificamente finalizzate alla sua “formazione” e all’“adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”.
In secondo luogo la disposizione afferma tale diritto e dovere dei genitori anche nei confronti dei figli “nati fuori dal matrimonio”, prevedendo altresì che la legge assicuri ad essi “ogni tutela giuridica e sociale, compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia legittima”. Si tratta del principio dell’equiparazione della tutela giuridica dei figli naturali a quelli legittimi. Viene così recepito un criterio di civiltà giuridica, consistente nel non far ricadere sui figli le colpe dei genitori. Questa tendenziale equiparazione incontra ancora una serie di limiti nell’ordinamento italiano vigente, primo fra tutti quello del mancato riconoscimento del figlio naturale da parte di parenti del padre e/o della madre, in quanto il riconoscimento del figlio naturale produce effetti solo nei confronti del singolo genitore che l’ha effettuato. Questa minore tutela rispetto ai figli legittimi comporta che al figlio naturale riconosciuto sia precluso non solo di succedere a fratelli, zii, nonni, etc., ma anche che venga adottato da parte di altri parenti, per esempio i nonni.
Infine, anche i genitori dei figli nati fuori del matrimonio hanno il diritto, non solo il dovere, nei confronti dello Stato, di mantenerli istruirli ed educarli.


4. Altre forme di convivenza
Un tema sensibile è quello della rilevanza giuridica di altre forme di convivenza diverse dal matrimonio. In realtà, da molti anni anche nel nostro paese l’argomento forma oggetto di approfondimento. Si è arrivati ad estendere taluni benefici previsti per il coniuge anche al convivente more uxorio.
L’aspetto nuovo è ricomprendere nel concetto di coppie di fatto anche forme di convivenza tra persone dello stesso sesso, ponendo questioni che vanno ben oltre il dato del matrimonio, e che si ricollegano piuttosto alle posizioni più radicali della c.d. ideologia di genere (gender), nel cui ambito l’esclusione delle coppie dello stesso sesso (omosessuali) dal matrimonio o da altre forme di riconoscimento pubblico viene presentata come un atto di discriminazione dell’individuo derivante dal proprio orientamento sessuale.
Da qui la tendenza recente da parte del legislatore di affrontare il tema delle convivenze sulla base dell’indifferenza del sesso dei conviventi, assegnando alla legge il compito non più soltanto di contrastare ogni forma di discriminazione dell’individuo per il suo orientamento sessuale ma anche di promuovere l’omosessualità sul piano etico e sociale, mediante il riconoscimento alle convivenze tra due persone dello stesso sesso di sussidi e benefici pubblici. Occorre porre attenzione al fatto che, paradossalmente, non finiscano per essere discriminate le famiglie delle coppie eterosessuali, che non vengono difese da quei gruppi di potere, la cui influenza nei mezzi di comunicazione sociale (cinema, televisione e stampa) è ormai un dato palese.
Posta in questi termini, la questione della rilevanza giuridica di forme di convivenza diverse dal matrimonio introduce elementi di forte discontinuità rispetto alle convivenze more uxorio. È infatti evidente la differente rilevanza che assumono sul piano costituzionale le convivenze eterosessuali rispetto a quelle omosessuali, e ciò non per una valutazione di ordine morale quanto per l’oggettiva diversità delle due situazioni.
Per le convivenze eterosessuali vale, in presenza di figli, la rilevanza giuridica che deriva dagli artt. 30 e 31 Cost. a tutela dell’interesse dei minori, anche quelli nati al di fuori del matrimonio. Il che consente di ribadire che il primato riconosciuto alla famiglia fondata sul matrimonio non è da intendersi come una sorta di privilegio, ma deriva da dati e valutazioni etico-giuridiche, che tendono a “premiare” una ben precisa formazione sociale per i benefici che essa arreca alla collettività (bene comune).
Per le coppie dello stesso sesso manca invece il riferimento alle disposizioni costituzionali in materia di matrimonio e famiglia (artt. 29-31), mentre per esse è ricorrente il richiamo all’art. 2 Cost., nel quale si afferma che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (…)”. Sulla base di questa norma costituzionale diventa possibile riconoscere alle coppie dello stesso sesso gli stessi diritti delle coppie eterosessuali, che convivono more uxorio. Ogni formazione sociale che pretenda determinati benefici o forme di sostegno da parte della comunità non può sottrarsi ad una previa verifica di congruità con il bene comune, che si concretizza nell’utilità sociale.
Alla luce di queste considerazioni, possiamo affermare che la famiglia, in tutte le sue forme, valutate con riferimento al bene comune, è un valore dell’umanità a prescindere dalle diverse tendenze ideologiche.
Il suo tramonto, nonostante i più svariati tentativi posti in essere da modelli culturali che negano la persona, è ancora molto lontano dal verificarsi.

Appendice
Al termine della relazione si sono avuti degli interventi meritevoli di considerazione circa le coppie di fatto, il ruolo della copia etero-sessuale nell’equilibrio psicologico e nell’educazione dei figli, l’età nell’adozione e la deriva della famiglia nell’attuale società.
Senza dubbio le coppie di fatto eterosessuali sono presenti nella Costituzione sin dall’inizio. Il loro ruolo risulta equiparato a quello della famiglia fondata sul matrimonio con gli stessi diritti e doveri in relazione all’educazione dei figli. Spesso dalle coppie di fatto si ricava una esemplarità notevole in relazione alla fedeltà che porta la loro unione a durare tutta la vita. Il rispetto della libertà di scelta è senza dubbio un valore.
Circa il ruolo dei genitori nell’equilibrio psicologico dello sviluppo, della formazione e dell’educazione dei figli non ci sono dubbi sul privilegio accordato dai padri costituenti al modello della famiglia di coppia eterosessuale fondata sul matrimonio. Gli studi psicologici nella loro totalità, salvo rare eccezioni, per lo sviluppo psichico dei minori ritengono fondamentale il ruolo del papà e della mamma.
Per quanto concerne il fattore età nell’adozione occorre sottolineare il fatto che la legge attualmente vigente considera l’età come un termine perentorio. A mio avviso, la tutela dell’interesse del minore sancita nel nostro ordinamento potrebbe dare una soluzione al problema soprattutto in presenza dei nonni.
Circa la deriva della famiglia oggi, che sarebbe sotto gli occhi di tutti, bisognerebbe avere il coraggio di continuare a dare fiducia ai giovani, tenuto conto che il valore originario e primigenio della famiglia si trasmette di generazione in generazione al di là della legge e in ragione dell’amore reciproco dei coniugi e della cura prestata nell’educazione dei figli.




Bibliografia

Busnelli F.D., «La famiglia e l'arcipelago familiare», in Riv. dir. civ. 2002, p. 509-ss.
Cavana P., Lezioni di diritto Costituzionale sul ruolo della famiglia https://www.docsity.com/it/lezione-cavana/601906/ (10.03.2017)
D’Agostino F., «Le coppie omosessuali, problema per i giuristi», in Iustitia, 1994, p. 77-ss.;
Ferrando G., «Le unioni di fatto tra disciplina per legge e autonomia privata», in Quad. dir. pol. eccl. 2002/1, p. 197-ss.;
Frezza G. (a cura di), «Trenta anni dalla riforma del diritto di famiglia», Milano 2005;
Grossi P. F., «Lineamenti di una disciplina della famiglia nella giurisprudenza costituzionale italiana», in Dir. fam. pers. 2015, II, p. 587-ss.;
Marano V., Le unioni di fatto. Esperienza giuridica secolare e insegnamento della Chiesa, Milano 2015;


1 Cfr. G. Treccani, Dizionario Enciclopedico Italiano, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1970.
2 Cfr. G. Treccani, op.cit., v. IV, voce famiglia.
3 Cfr. Costituzione Italiana, artt. 29-31, 37.
4 Ibidem, art. 2.
5 Ibidem, artt. 33-34.

giovedì 9 marzo 2017

LA DONNA NELLA MITOLOGIA, NELLA LETTERATURA, NELLA SOCIETA’

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                             Intervento di

Silvia Laddomada




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La creazione del mondo



La donna ha avuto fin dalla creazione del mondo un ruolo importante e determinante per i futuri destini dell’umanità. Sottomessa all’uomo fin dalla preistoria e relegata nei millenni successivi a custode del focolare domestico e a generatrice di figli, sappiamo che solo negli ultimi secoli ha raggiunto faticosamente il riconoscimento delle sue capacità, del proprio ruolo anche al di fuori dell’ambito famigliare, conquistando a fatica quella parità di diritti finora negati. Ricordiamo che una maggiore consapevolezza delle capacità femminili emersero nel corso della prima guerra mondiale, quando le donne sostituivano gli uomini mandati al fronte. Eppure, nonostante conquiste e battaglie, la vita della donna era segnata da discriminazioni e ingiustizie: lavoravano nelle fabbriche, ma venivano pagate di meno; nei periodi di crisi erano le prime a perdere il posto di lavoro; in caso di gravidanza erano costrette a scegliere tra maternità e lavoro, e spesso rimanevano sole, a far fronte a tutto. Oggi che la scolarizzazione femminile è più elevata, che le donne occupano posti di rilievo anche in politica, assistiamo purtroppo a tragedie che hanno come vittime le donne, segno che ancora molte di esse devono lottare per cambiare la mentalità maschilista, che ancora domina nella società. Sono innegabili la forza e il coraggio della donna, che riesce, pur nel ritmo frenetico che segna la nostra società, a tenere insieme una varietà di mondi, che chiedono attenzione, competenza, parole, silenzi, mediazioni.
Papa Giovanni Paolo II
Significative le parole del papa Giovanni Paolo II, che nella sua “Lettera alle donne” scriveva: “Non posso non manifestare la mia ammirazione per le donne di buona volontà che si sono dedicate a difendere la dignità della condizione femminile attraverso la conquista di fondamentali diritti sociali, economici e politici, e ne hanno presa coraggiosa iniziativa in tempi in cui questo loro impegno veniva considerato un atto di trasgressione, un segno di mancanza di femminilità, una manifestazione di esibizionismo, e magari un peccato”. E papa Francesco aggiunge: “ Dove le donne sono emarginate c’è un mondo sterile, perché le donne non solo portano la vita, ma ci trasmettono la capacità di vedere oltre loro, ci trasmettono la capacità di capire il mondo con occhi diversi, di sentire le cose con cuore più creativo, più paziente, più tenero”.

Ma perché “chi dice donna dice danno?”
La donna è stata sempre considerata responsabile dei mali dell’umanità. Ogni cultura e ogni religione deve fare i conti con la creazione della prima donna.
Se andiamo indietro nel tempo e ci soffermiamo sul mito, racconto che risponde alla richiesta delle origini di ogni cosa, incontriamo in Grecia, culla della nostra civiltà e cultura, la figura di Pandora.
Ermes
Pandora è la prima donna della mitologia greca, bellissima e virtuosa, ma portatrice, suo malgrado, di sciagure per gli uomini. Prima gli uomini, creati da Prometeo, vivevano felici, erano dotati di memoria e di intelligenza, frequentavano gli dei dell’Olimpo e sedevano a mensa con loro. Ma un giorno Prometeo rubò il fuoco divino e scatenò l’ira di Zeus. Il padre degli dei lo punì, incatenandolo per sempre a una roccia e condannandolo a vedersi mangiato il fegato da un’aquila. Siccome gli uomini non erano tollerati dalle schiere divine, Zeus cercò di portare la devastazione tra loro, ma non attraverso un dio, che sarebbe apparso un dio crudele, ma attraverso un esemplare femminile dell’uomo, una donna. Quindi Zeus chiese a Efesto, dio del fuoco e della tecnica, di creare una femmina che avesse bellezza, grazia e tante doti straordinarie. Le altre dee collaborarono con Efesto e ognuna dette qualcosa di sé. Questa fanciulla fu chiamata Pandora (“ colei che ha tutti i doni “). Zeus ordinò a Ermes di portare la fanciulla tra gli uomini. Il Titano Epimeteo ( “ colui che si accorge in ritardo ” ), fratello di Prometeo, si innamorò di lei. La ragazza portava come dono nuziale uno scrigno dal contenuto misterioso, che per ordine di Zeus, mai nessuno avrebbe dovuto aprire. Epimeteo nascose lo scrigno, non vigilò su di esso e festeggiò le nozze in compagnia degli altri uomini. Pandora aveva anche una particolare virtù: la curiosità, che doveva sempre soddisfare. Cercò di qua e di là e finalmente trovò il vaso.
Pandora

Naturalmente, lo aprì. Nel vaso c’erano la fatica, la malattia, l’odio, l’invidia, la passione, la violenza, la pazzia, la vecchiaia, la morte. Questi spiriti si diffusero tra gli uomini, cambiando la loro esistenza. Zeus aveva vinto. Il mondo diventò poco ospitale, desolato, gli uomini divennero esseri terreni.

Pandora aveva chiuso subito il vaso. Quando lo riaprì uscì l’ultimo spirito: la speranza, e con questa le cose migliorarono.

L’uomo riprese a vivere e a credere nel presente e nel futuro, senza però liberarsi più dai mali.




Se andiamo al mito biblico, troviamo nella storia degli Ebrei due figure che somigliano a Pandora: Lilith ed Eva.
Zeus

Lilith, già presso i Sumeri, nasce furiosa e demoniaca, tanto che l’uomo la ripudia e lei scompare nei boschi più inaccessibili.
A Lilith somiglia la prima donna creata da Dio, secondo una versione ebraica antica non condivisa dalla tradizione cristiana. Secondo questo racconto Eva fu plasmata come Adamo dal fango, ma non pulito; Dio prese dal suolo sedimenti sporchi e impuri, venne fuori un essere imperfetto, ribelle, indisciplinato, indipendente, che rivendicava pari diritti con l’uomo, perché entrambi plasmati da Dio in forma autonoma.
Lilith
Non potendo convivere con Adamo, questa Eva si allontana dall’Eden e si nasconde nei boschi, dove partorisce diavoli, con lo scopo di sconvolgere la vita degli uomini, generati da Adamo e dalla nuova Eva.

Eva cristiana, quella donna che, come si legge nel Libro della Genesi, Dio donò all’uomo, che si sentiva solo. Mentre Adamo dormiva, Dio gli tolse una costola e plasmò con essa una donna, gradita da Adamo, a cui lei si sentiva legata perché era costola di Adamo. Questa Eva però non si rivelò migliore di Lilith, visto che appena creata, infranse l’unico divieto imposto da Dio: non mangiare il frutto dell’albero al centro dell’Eden, frutto che lei mangiò, tentata dal serpente, e dette ad Adamo.

Quindi Eva, madre dei viventi, come Pandora, è responsabile della vita travagliata a cui Dio condannò la coppia, e con loro tutta l’umanità fu condannata.

Per questo, tutte le civiltà hanno sempre considerato la donna come un essere inferiore, a cui non concedere mai diritti e spesso nemmeno la libertà di parola e di pensiero.

Però se sfogliamo le pagine della Bibbia, non mancano le figure femminili, protagoniste di atti coraggiosi ed eroici. Una delle più conosciute è Giuditta, ricca, bella, giovane, di indiscussa virtù.
Giuditta

In un momento drammatico per la vita del suo popolo, il popolo ebreo, assediato dagli Assiri, questa donna va avanti con coraggio.Ella parla con la forza di un profeta e indica agli uomini di Betulia, la città in pericolo, il cammino della fiducia in Dio. Con la sua bellezza conquista il generale assiro Oloferne, che la invita a un banchetto. Ma a fine pranzo Giuditta, simbolo della potenza divina taglia la testa al Generale con la sua stessa spada e corre coraggiosa nella città, che fu liberata.

Un esempio di coraggio al femminile, ha detto il papa Francesco.


Se dal Vecchio Testamento passiamo al Nuovo, ai Vangeli di s. Luca e di s. Giovanni, le figure di donne coraggiose, premurose, si moltiplicano. Gli studiosi ne individuano alcune in modo particolare, la Samaritana, la donna peccatrice, Marta e Maria, Maria Maddalena ( o Maria di Magdala). Tutte hanno in comune il dinamismo della fede e dell’amore che cerca la Verità, che la trova, che la dona. La Samaritana che dà da bere a Gesù, gli crede, si libera da pregiudizi e da paure, lascia la brocca sul pozzo e dona Gesù agli altri, portando alla fede tutta la Samarìa.

Silvia Laddomada
La donna peccatrice, col suo vasetto di olio profumato, piange sui piedi di Cristo, li asciuga con i capelli, li cosparge di olio profumato. “Ti sono perdonati i peccati”, dice Gesù. L’unica donna che non ha malattie, che ha peccato tanto, l’unica donna che riceve il perdono senza chiedere. Per tutto il tempo, mentre intorno si scandalizzano, Gesù è silenzioso, un silenzio che è accettazione, riconoscimento del pentimento, è restituzione della dignità, è misericordia. Nessuno può disperare dell’amore di Dio.

Maria Maddalena, ha un posto di riguardo nella vita di Gesù, unica donna che assiste alla Crocifissione, la prima testimone oculare e la prima annunciatrice della Resurrezione. Lei si reca, nel giorno dopo il sabato, al Sepolcro e trova la pietra ribaltata, porta la notizia disperata ai discepoli, ritorna di corsa con loro al Sepolcro, piange rimanendo sulla porta, vede due angeli, vede un uomo, lo scambia per il giardiniere, poi sente “Maria” e lei scatta gioiosa “Rabbi-maestro”.

La terza icona è quella di Marta, Maria e Lazzaro.
Marta e Maria

Gesù a Betania entra nella casa dei suoi amici. Maria si pone ai suoi piedi in ascolto; Marta si lascia assorbire dalle cose da preparare. E' così occupata che si rivolge a Gesù, chiedendogli di ricordare a Maria che c'è bisogno di aiutare.
Gesù la rimprovera dolcemente: c'è più bisogno di ascoltare la parola di Dio.
Maria ha scelto liberamente, ha risposto alla chiamata subito. Marta sembra più dispersiva, ma la sua fede sarà dinamica, evolutiva, fino all'adesione totale alla Verità.
Alla morte di Lazzaro, Marta si dispera: se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto; ma so che qualunque cosa chiederai a Dio te la concederà, perchè tu sei il Cristo, il figlio di Dio.



Sono seguiti gli interventi di:

Nadia Bumbi, che s'è soffermata sulle figure delle sorelle Marta e Maria, simbolo rispettivamente, della Chiesa attiva e della Chiesa contemplativa.
Giacomo Salvemini, che ha letto alcune liriche di Saffo.
Cosimo Calabretti, che ha citato diversi proverbi sulla donna e ha letto "Davanti a S. Guido" di Carducci, dove viene ricordata la donna-nonna, e "A Silvia" di Leopardi, dove la donna è simbolo di speranza e illusioni giovanili.
Anna Presciutti, che ha letto una lirica di Rimbaud.
Enza Basile, che ha letto alcune poesie sulla donna della poetessa Alda Merini.
Pietro Speziale, che ha portato all'attenzione il ruolo negativo e la responsabilità morale di alcune trasmissioni televisive, che alimentano la violenza sulla donna.

 Vogliamo concludere con, la letteratura, con le poetesse.

Le donne, oltre a dedicarsi alla casa e alla procreazione, coltivavano arti nobili, la danza, il canto, la poesia, soprattutto se appartenevano a elevate classi sociali. Attività da svolgere nel chiuso della propria casa, ovviamente, perché la donna non doveva mai esibirsi in pubblico, solo a Sparta era consentito loro di partecipare alla vita sociale, politica e di dedicarsi alle attività sportive. Nei secoli la donna ha sempre represso in pubblico i moti, i tormenti, le passioni del proprio animo. Se qualcuna lo ha fatto è ricorsa ad uno pseudonimo maschile. La Grecia arcaica, come sempre, ci ha lasciato un grande tesoro, la poesia. Ed è proprio in un’isola a Nord della Grecia, l’isola di Lesbo, che è nata la più grande poetessa di tutti i tempi: Saffo.

Nella sua produzione, conosciuta e tradotta dai più grandi poeti, Ella offre un’immagine semplice ma appassionata dei sentimenti dell’io lirico, dove l’amore ha un ruolo da protagonista, esso non è solo un sentimento, ma è l’essenza della vita.

Saffo
Saffo dirigeva un tìaso, un collegio di giovanette nobili; nei loro incontri si danzava, si cantava, si ballava. Tra loro e l’insegnante nasceva un rapporto di grande familiarità, anche sessuale. Tutto questo rientrava nel costume dell’epoca, era una forma di iniziazione alla vita matrimoniale, era un normale percorso educativo delle adolescenti.

Il ruolo di Saffo in questo collegio ha dato origine al termine lesbico o saffico, per indicare l’omosessualità femminile.

Saffo, che si è sposata ed è stata madre di figli, ha scritto versi d’amore struggenti, un amore fatto di turbamenti, di paure, di gelosie, di insicurezza. Un amore malato, lo hanno definito molti.
"Giornata della donna"

C’è un componimento, definito il capolavoro della poesia erotica, in cui predomina il sentimento della gelosia che turba e sconvolge il suo animo.


Mi appare simile agli dei / quel signore che siede innanzi a te / e ti ascolta, tu parli da vicino / con dolcezza, / e ridi, col tuo fascino, e così / il cuore nel mio petto ha sussultato / ti ho gettato uno sguardo e tutt’a un tratto / non ho più voce / no, la mia lingua è come spezzata / all’improvviso un fuoco lieve è corso / sotto la pelle, i miei occhi non vedono / le orecchie mi risuonano / scorre un sudore e un tremito mi prende / tutta, e sono più pallida dell’erba / è come se mancasse tanto poco / ad esser morta; / pure debbo farmi molta forza “.

Immagine correlata
 
A tutte le donne presenti è stato offerto un decorativo rametto di mimosa, simbolo di forza e femminilità, come ritengono gli indiani d'America.

mercoledì 1 marzo 2017

IL CARNEVALE E LE SUE MASCHERE

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Relazione di Silvia Laddomada



Oggi è l’ultimo giorno di carnevale, martedì grasso. Domani le Ceneri, giornata di purificazione, di astinenza e digiuno per la Chiesa Cattolica: ci si prepara alla Quaresima, i quaranta giorni che precedono la Pasqua (escluse le domeniche).
Carnevale è cominciato il 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate e, secondo la tradizione, si dice: “a sant’Antun, masc’chr e sun” (a Sant’Antonio maschere e suoni).
Perchè a febbraio festeggiamo il Carnevale? E perché l’ultimo giorno è chiamato grasso?
Questi festeggiamenti popolari affondano le radici nella notte dei tempi. Già gli Egiziani, al tempo dei Faraoni (2000 anni a.C.) svolgevano dei riti sacrificali al dio Nilo (fiume). Si mascheravano, facevano sfilare i buoi e li accompagnavano cantando. Oppure celebravano dei riti per la dea Iside, si cantava, si ballava, si beveva, per festeggiare il ritorno della primavera, e quindi la ripresa della navigazione.

Auguri di compleanno a Maria Pia Santoro e a Giacomo Salvemini
Notevole è, però, l’eredità delle tradizioni greche e romane arcaiche. Il nome Febbraio deriva dal verbo latino februere, che significa purificare. In questo mese gli antichi romani celebravano il rito di passaggio, di purificazione, dalla morte alla vita, della natura; festeggiavano il ritorno alla fertilità della terra dopo il torpore invernale. Una settimana di festa, i Saturnalia, dicevano i romani. Si rievocava l’età dell’oro del dio Saturno (Cronos per i greci), capo degli dei, che aveva garantito agli uomini il benessere, e si auspicava un raccolto abbondante per l’anno che cominciava. In questi giorni la gente si abbandonava ad una vita sregolata, il re dei Saturnali, un popolano che metteva in caricatura i nobili, assumeva i poteri e organizzava la festa, sfilando per le vie seguito dai carri festosi tirati da animali bardati in modo bizzarro. Le persone si vestivano in modo buffo, si coprivano il volto con maschere orribili, si rincorrevano, si colpivano. Facevano questo per allontanare gli spiriti maligni e fare baldoria con le divinità infernali che, si pensava, vagassero sulla terra in inverno. I riti, i sacrifici, servivano a farli ritornare nell’aldilà, e favorire il raccolto. I travestimenti rendevano tutti uguali, padroni e servi, ricchi e poveri, i ruoli si invertivano. E nell’ultimo giorno organizzavano grandi tavolate, dove tutti si abbuffavano, tra balli, canti, battute oscene, comportamenti dissoluti.
Il giorno dopo, le gerarchie sociali si ricomponevano, ma almeno, in quell’ultimo giorno, tutti si erano divertiti, tutto era stato permesso, in nome del Caos, del Disordine. Si era vissuta la festa dei pazzi. Era finito il Carnevale, che forse all’origine significava: “carrum navalis”, cioè carro navale, con riferimento al carro allegorico, a forma di barca, con cui i Romani inauguravano i Saturnali.
Questi Saturnali romani si rifacevano, a loro volta, alle Dionisie, feste pagane greche, organizzate in onore di Dionisio, dio del vino (Bacco per i romani, che organizzavano anche le Baccanali, in onore di Bacco), durante le quali era consentito abbandonarsi ad ogni forma di ebrezza.

Un’altra festa romana, antenata del Carnevale, era quella dei Lupercali: a metà febbraio, un gruppo di celebranti (Luperci- lupacchiotti) si recavano in un bosco, e presso una grotta ai piedi del Palatino, dove si riteneva fossero stati allattati da una lupa i gemelli Romolo e Remo, uccidevano delle capre e ungevano col sangue la fronte di due bellissimi e giovani nobili. Questi ridevano e cominciava la festa. I lupacchiotti si mascheravano indossando pelli di lupo, tagliavano a strisce le pelli delle capre, le arrotolavano e poi correndo le srotolavano.
Nel Medio Evo (476 d.C. - 1492) la Chiesa pose un freno a questi giochi goliardici, i riti persero il carattere magico, divenendo forme di divertimento popolare, ma nonostante i veti, le censure, il Carnevale continuò a sopravvivere. A volte proprio in chiesa, si assisteva agli “scherzi da prete”: dall’altare si lanciavano dolci fritti e salsicce, per rallegrare i fedeli prima della Quaresima e predisporli all’ascolto degli insegnamenti religiosi.

Il divertimento durava due settimane; ripetendo i Saturnali, il popolo si mascherava, uomini e donne si travestivano, sovvertivano le regole sociali e morali, correvano, si battevano con bastoni e pietre. I nobili duellavano elegantemente nelle sale dei castelli. “Semel in anno licet insanire”, si ripeteva, “ almeno una volta all’anno è lecito essere folli”. A conclusione si organizzava un abbondante banchetto, all’insegna del gioco libertino e del travestimento, il nostro martedì grasso: bisognava consumare tutte le prelibatezze presenti in casa: carne, pesce, uova, latticini. Il significato del carnevale cambiava: “carnem levare”, eliminare la carne, come penitenza dopo queste scorpacciate. Il culmine della festa si raggiungeva con il rogo del fantoccio, sempre l’ultimo giorno. La burlesca figura del re del Carnevale, che faceva rivivere la figura del re dei Saturnali, veniva sacrificata. Purtroppo inizialmente era impersonato da un uomo, che veniva ucciso per il bene della collettività, poi venne sostituito da un fantoccio di paglia, che la sera del martedì era la vittima designata. Morendo, esso purificava la comunità, era il capo espiatorio dei mali dell’anno precedente.
Il rito era giocoso: c’era il processo, la condanna, la lettura del testamento, la morte, il funerale, il corteo seguito da gente in gramaglie.
Il giorno dopo, le Ceneri, la Chiesa richiamava i Cristiani all’astinenza e digiuno, li richiama ancora oggi alla riflessione e alla riconciliazione con Dio. Il giorno delle Ceneri è un giorno in cui l’uomo deve riflettere che è polvere, deve ritornare a mettere al centro della propria vita Dio, non Bacco.

Nel 1500, età del Rinascimento, i festeggiamenti in occasione del Carnevale assunsero forme più raffinate, legate al teatro, alla musica e alla danza. La gente, a qualsiasi classe sociale appartenesse, partecipava a sfarzosi spettacoli, organizzati per tutti dai Signori delle città. Famose erano le mascherate con carri riccamente addobbati: i Trionfi, circondati da gente in costume che intonava canti scritti per l’occasione: i canti carnascialeschi, a volte un po’ irriverenti. Molto noto è “il Trionfo di Bacco e Arianna”, canto scritto per il carnevale del 1490 da Lorenzo dei Medici
(Lorenzo il Magnifico), signore di Firenze, in cui è ripetuto, come ritornello, l’invito a cogliere l’attimo presente, dimenticando ogni tristezza:“Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol essere lieto sia: di doman non c’è certezza”.
Per rendere più festoso il percorso dei carri si lanciavano i semi del coriandolo glassati con lo zucchero (Il coriandolo è detto anche prezzemolo cinese, appartiene infatti alla famiglia del prezzemolo). Poi si introdusse il lancio di piccole palline di gesso. In modo artigianale si preparavano dolci fritti, che variavano, nel nome, da città a città. Fritti perché era più veloce la cottura, e poi perché le famiglie disponevano di abbondanti quantità di grasso animale, di strutto, derivante dal fatto che a gennaio o febbraio era prevista la macellazione dei suini.

Si delinea così il Carnevale italiano, con le pubbliche parate, le sfilate, la gente mascherata, l’uso di carri allegorici con l’aggiunta di fantocci di cartapesta, sapientemente e tecnologicamente in movimento, ognuno dei quali sviluppa un tema, che spazia dalla satira politica, dalla storia alla religione, dalla denuncia sociale all’attualità.
I simboli ci sono tutti: i coriandoli, che oggi sono piccoli dischetti multicolori di carta leggera, che danno colore e allegria alla festa. Le stelle filanti, che ricordano le strisce srotolate di pelle di capra dei lupercali. I manganelli di plastica, a volte riempiti con sassolini, che ricordano i bastoni e le pietre con cui la gente del Medio Evo colpiva i passanti, per scherzo. Il satirico funerale di Carnevale, responsabile delle inadempienze degli amministratori
A Carnevale ogni scherzo vale, diciamo oggi, quasi a giustificare quella moderata follia che anche a noi è concessa, almeno una volta all’anno. E poi abbiamo ereditato e trasmettiamo alle giovani generazioni, la tradizione dei dolci fritti, ciambelle, frittelle, castagnole, chiacchiere, che abbiamo imparato a fare anche al forno.
Ma l’aspetto più caratteristico del Carnevale è il mascheramento, il travestimento. Oggi ogni regione ha le sue maschere, e ogni maschera ha un costume e un carattere che la distingue.
L’uso della maschera è antichissimo. Nella preistoria essa veniva usata nei riti magico-religiosi, per nascondere le fattezze umane e allontanare gli spiriti maligni, poi nelle feste popolari, nel Carnevale, abbiamo detto. Ci si maschera per uscire dal quotidiano, per disfarsi del proprio ruolo sociale, per sentirsi un altro.
La parola deriva dall’arabo mascharat, che significa burla, buffonata. Nel teatro greco e latino le maschere venivano usate dagli attori per sottolineare la personalità o il carattere del personaggio messo in scena, visto che spesso un solo attore interpretava più ruoli.
Le maschere per eccellenza sono nate con la Commedia dell’Arte, nel 1600. Si tratta di spettacoli teatrali improvvisati, destinati a un pubblico che si divertiva in modo sguaiato, per i contenuti sconci e il linguaggio scurrile degli attori.
La Chiesa non condivideva questa forma di spettacolo, le autorità ecclesiastiche e, a volte, anche quelle civili, censuravano gli spettacoli e, idealmente, ogni attore aveva sulla fronte una bolla d’infamia; alcuni erano più concilianti, San Carlo Borromeo, ad esempio, ammirava la commedia,

ma esigeva dagli attori molta moderazione. Il motto latino che la satira “castiga ridendo mores”, non sempre era appropriata alla scurrilità dei contenuti.
Erano spettacoli che si tenevano all’aperto, con una scenografia essenziale, le compagnie erano formate da 10 attori, 8 uomini e 2 donne; la presenza delle donne sul palcoscenico era un elemento dirompente, rivoluzionario. Gli attori non imparavano a memoria il copione, ma improvvisavano i dialoghi, basandosi su un canovaccio. L’autore indicava i punti essenziali, la successione delle scene, gli imbrogli, gli intrecci della vicenda, i colpi di scena, la sequenza delle entrate e uscite dei personaggi e l’obbligatorio lieto fine.

Ogni attore possedeva un repertorio di scene comiche (lazzi), di battute ad effetto (frizzi), per suscitare l’ilarità del pubblico. Egli rappresentava sempre lo stesso personaggio, così nel tempo questo personaggio diventava sempre più preciso, più fisso, più persona, fino al punto che il nome dell’attore finiva per confondersi con quello della maschera, del tipo “fisso”, che egli portava sul palcoscenico. Personaggi tipici erano il servo sciocco o imbroglione, la cameriera pettegola, il soldato fanfarone, il dottore e l’avvocato inconcludente, il mercante avaro e brontolone, gli innamorati di buona famiglia.

Il carattere del personaggio era perfettamente riconoscibile già dalla sua entrata in scena.


Gli attori comici erano buffoni, ma erano artisti, erano teatranti di mestiere, tenevano conto del pubblico che avevano di fronte e sapevano farlo divertire, calibrando il loro linguaggio, la mimica, la battuta. Si addestravano anche in contorsioni, piroette, salto mortale; si specializzavano nel canto e nella danza, nel canto onomatopeico, per imitare gli strumenti musicali, rifare i versi degli animali. Per rendersi irriconoscibili si impiastricciavano il viso col mosto, poi furono introdotte le maschere di cuoio, che a volte gli attori toglievano, soprattutto se la parte da interpretare richiedeva una forte mimica facciale o quando era necessario facilitare la respirazione o la dizione, nell’interpretare azioni violente.

Con la Commedia dell’arte, i personaggi ereditavano dal Carnevale antico il gusto dello scherzo, la battuta, il travestimento e, a loro volta, offrivano al Carnevale i loro costumi tipici.

Nascevano così figure come Arlecchino e Pulcinella, per citare le più popolari.

Risultati immagini per maschera pulcinellaRisultati immagini per maschera arlecchinoArlecchino servo furbo, a volte sciocco e bugiardo, in perenne litigio col suo padrone.

Pulcinella, con la gobba e il naso adunco, misteriosa maschera napoletana, servo buffo e chiacchierone, amante del dolce far niente, spesso oggetto di bastonate spassose.



Poi il repertorio delle maschere si è ampliato, ogni regione ha le sue, nelle quali si rispecchia l’indole degli abitanti. Ne ricordiamo alcune:


Risultati immagini per maschera pantalonePantalone, vecchio mercante veneziano, avaro e lussurioso, che insidia cortigiane e servette.

                                                                       


Risultati immagini per pierrotPierrot, servo intelligente, che esegue gli ordini volutamente al contrario, eternamente innamorato, dolce e malinconico.






Risultati immagini per meneghinoMeneghino, servo spiritoso e impegnato, ma dignitoso e saggio, amante della libertà, emblema del popolo milanese.








Gianduia, allegro galantuomo torinese, amante del buon vino e della buona tavola.










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Brighella, amico di Arlecchino, protagonista di tanti intrighi, furbo e bugiardo, agile nell’escogitare trappole in cui far cadere gli altri.





 
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Colombina, famosa servetta veneziana, eterna fidanzata di Arlecchino, vanitosa, civettuola, arguta e maliziosa.














Risultati immagini per rosauraRosaura, raffinata figlia di Pantalone, che si affida alla cameriera Colombina per comunicare col suo amico Florindo.












Rugantino, maschera romanesca, litigioso e inconcludente gendarme, che affina col tempo il cipiglio militaresco per incarnare la bonarietà e sensibilità della Roma popolare.





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Balanzone, dotto e sapiente bolognese, ma dottore e giurista brontolone e inconcludente.










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Sandrone, contadino modenese, grossolano e ignorante, che cerca di apparire più istruito di quanto non lo sia, i sforzandosi di parlare in italiano pasticciato e senza senso.













Poi ci sono i vari capitani (Fracassa, Spaventa, Zerbino) che modificano il costume variando il tempo e il luogo, ma conservano atteggiamenti fanfaroni e militareschi.

Sono diventate 50 le maschere italiane ufficiali sparse nelle regioni. Incarnano vizi e virtù del popolo, impersonano aspetti eterni e immutabili dell’animo umano.

Oggi la tradizione continua,con gruppi mascherati, con cari allegorici e grotteschi che sfilano per le vie delle città e dei paesi (famosi Viareggio, Venezia, Acireale, Cento, Ivrea, Putignano..)

E noi , come dice Pirandello, non ricorriamo spesso alle maschere? Quante volte incontriamo o siamo, nella vita quotidiana, un Pulcinella, un Arlecchino, una Colombina, un Pantalone? La vita è una recitazione, è un eterno Carnevale! Senza irriverenza per i veri valori!



La maschera          

Vent'anni fa m'ammascherai pur'io!                          Letta da Nadia BUMBI
E ancora tengo er grugno de cartone
che servì p'annisconne quello mio.
Sta da vent'anni sopra un credenzone
quela Maschera buffa, ch'è restata
sempre co' la medesima espressione,

sempre co' la medesima risata.
Una vorta je chiesi: - E come fai
a conservà lo stesso bon umore
puro ne li momenti der dolore,
puro quanno me trovo fra li guai?
Felice te, che nun te cambi mai!
Felice te, che vivi senza core! -
La Maschera rispose: - E tu che piagni
che ce guadagni? Gennte! Ce guadagni
che la genti dirà: Povero diavolo,
te compatisco... me dispiace assai...
Ma, in fonno, credi, nun j'importa un cavolo!
Fa' invece come me, ch'ho sempre riso:
e se te pija la malinconia
coprete er viso co' la faccia mia
così la gente nun se scoccerà... -
D'allora in poi nascónno li dolori
de dietro a un'allegia de cartapista
e passo per un celebre egoista
che se ne frega de l'umanità!

                    (Trilussa)
    tratta da "Tavole Moderne"


                                                                      

CLAIR DE LUNE da Fetes galantes - 1 ( 1869 )

Paul Verlaine - Poeta simbolista ( 1844 - 1896 )

                                                                                          
Votre âme est un paysage choisi
Que vont charmant masques et bergamasques,
Jouant du luth et dansant et quasi
Tristes sous leurs déguisements fantasques.

Tout en chantant sur le mode mineur
L’amour vainqueur et la vie opportune,
Ils n’ont pas l’air de croire à leur bonheur
Et leur chanson se mêle au clair de lune,

Au calme clair de lune triste et beau,                                  LETTA DA:
Qui fait rêver les oiseaux dans les arbres
Et sangloter d’extase les jets d’eau,
Les grands jets d’eau sveltes parmi les marbres.  Anna PRESCIUTTI

---------------------------------------------------------------------------------    e


Chiaro di Luna                                                             Pietro SPEZIALE

L'anima vostra è uno squisito paesaggio
che maschere e bergamaschi incantano
suonando il liuto e danzando, quasi
tristi nei fantastici travestimenti!
Cantando in tono minore
l'amore vittorioso e la fortuna
non han l'aria di credere alla felicità
e il loro canto si fonde col chiaro di luna,
col calmo chiaro di luna triste e bello
che fa sognare tra i rami gli uccelli
e singhiozzare estasiati gli zampilli,
gli alti zampilli, slanciati fra i marmi.