venerdì 18 dicembre 2015

DON ROMANO CARRIERI ∆ 04/12/1931 Ω 17/12/2013 TRA DUE DATE, UN CUORE.

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Due anni fa veniva a mancare  il prete di San Simone, che amava il suo paese



Anna Sorn 

 
Alle ore 08.20 di Martedì 17 Dicembre 2013 è morto don Romano Carrieri.
Un sacerdote che i parrocchiani della Sacra Famiglia di Taranto, di S. Domenico di Martina, di S. Michele di San Simone (Crispiano), di Crispiano stessa, sua terra natale, non hanno mai dimenticato e del quale hanno continuato a cercare il conforto sempre e che lui, nonostante le tante prove fisiche che in alcune occasioni lo hanno costretto ad allontanarsi fisicamente dai suoi figli spirituali, ha avuto presenti in ogni istante della sua vita.
Era amato e amava come un padre amorevole, ma giustamente severo.
A me, che gli chiedevo cosa avesse rappresentato per lui il sacerdozio e se mai avesse avuto qualche minimo dubbio sulla sua vocazione, col solito sorriso che gli illuminava lo sguardo, non esitava a dirmi:
Mai! Nemmeno per un attimo! Sento di vivere gioiosamente l’affermazione di San Massimiliano Kolbe, poeta polacco ucciso, nel 1941, dai Tedeschi nel campo di Auschwitz: “Se potessi nascere cento volte ancora, cento volte ancora mi farei prete”.
Più arduo era l’incarico, più lo appassionava.
Particolarmente tale fu quello che lo vide, in prima linea, alla Salinella, dove per circa 30 anni perseguì con entusiasmo e generosità l’intento certamente di svolgere il suo ufficio sacerdotale, ma dove cercò anche di trasformare la Parrocchia in una grande famiglia, come affermava Mons. Motolese ogni volta che capitava da lui, per una ragione o per un’altra: “Don Romano mio, la tua non è una parrocchia, ma una grande famiglia”.Chiamava la sua esperienza sacerdotale “un lavoro stupendo”.
E infatti diceva: “Come famiglia ho trattato sempre quella gente che sentivo mia, in maniera cara, al mio spirito sempre, nella prosperità di alcune famiglie e nelle ristrettezze di molte altre, correndo dov’era la gioia per moltiplicarla e, con la stessa sollecitudine, la dov’era una sofferenza da lenire, per alleggerirla condividendola”.
Egli “viveva insieme” con i suoi parrocchiani, nel rispetto, nella comprensione, nell’amore reciproco.
Fin dagli anni del Seminario, aveva sperimentato lo studio serio e sistematico della Musica e, fino all’ultimo giorno della sua vita, aveva continuato a studiarla e ad incantarsene.
La musica – diceva – ha in sé una formidabile capacità formativa e rappresenta una grande scuola di umiltà perché, più studi la musica, più ti accorgi che quella che resta ancora da studiare è la parte maggiore”.
Don Romano, nel 1960, aveva conseguito un “diplomino” al Conservatorio musicale di Bari col Maestro Nino Rota e, durante gli anni al Pontificio Seminario Regionale di Molfetta, aveva seguito i programmi del Conservatorio “Niccolò Piccinni” di Bari, sotto la guida del Maestro Giuseppe Binetti.
Durante la sua permanenza a Massa, era stato organista del Duomo e della Corale Comunale, diretta dal Maestro Bertilorenzi.
Il Coro “Alleluia”, che riuscì a riunire 42 elementi tutti della Salinella e che raggiunse livelli veramente lusinghieri, sia nelle animazioni liturgiche che nell’attività concertistica, è solo un esempio di quale efficace strumento educativo considerasse don Romano la musica, “ancella” del ministero sacerdotale.
Amava il suo paese come pochi. E amava la storia dei padri.
E’ la nostra storia – era solito dire a me che gli chiedevo quanto fosse importante per lui conservarne la memoria, preservarla dall’oblio -  Non ci sarebbe la storia attuale se non come continuazione e sviluppo della passata. E se sogni di costruire qualcosa in avvenire o che lo facciano altri, devi fare i conti col presente, che poggia sul passato, altrimenti i tuoi sogni resteranno tali”.
Altrettanto aveva a cuore il destino dei giovani.
Fu pensando a loro e al suo paese che, durante una forzata convalescenza, nel 1978, “stese un lavoretto di storia locale…senza pretese” intitolato: “Ragazzi, ecco Crispiano”. “Scrivere di storia locale – diceva – non è altro, da parte mia, che un continuo atto di amore alle nostre radici”.
da allora, al primo, si sono aggiunti altri 9 titoli, ricchi di ricordi, di modi di dire, di soprannomi, di tradizioni, di piccole-grandi storie della gente della sua terra, e su un’altra storia stava lavorando durante il suo riposo da “pensionato”…senza smettere però di celebrare Messa ogni giorno e recarsi ogni mercoledì al Seminario Interdiocesano di Poggio Galeso, per intrattenersi con i giovani Seminaristi e per le confessioni.
In occasione del suo cinquantesimo di sacerdozio, alla domanda se avesse un particolare messaggio per i giovani, rispose:
Ai giovani mi limiterei di ricordare soltanto ciò che va dicendo loro Papa Francesco: “Giovani avanti!”. Aggiungerei: “Cari giovani, se i vostri occhi sono rivolti in avanti, significa che l’avvenire è tutto da costruire e vi aspetta come protagonisti. Ricordate il “Non abbiate paura!” di Giovanni Paolo II? Costruite già da oggi le basi del vostro domani. Da voi stessi. Non siate mobili come il girasole, o portaborse, di nessuno di quelli di moda, che vengono e passano da un vuoto all’altro, secondo il soffiare del vento del momento e, che, allo sciogliersi della neve, si rivelano…quel che sono. Sognate, ma mangiate midollo di leoni”.
Chi lo ha conosciuto, in qualunque luogo si trovi, che sia crispianese o meno, godrà di una grande eredità: quella di essere stato in qualche modo “suo figlio”.
Sapevo che aveva lasciato dei rimpianti nei suoi parrocchiani. Lo avevo ripetutamente notato durante le affollate presentazioni dei suoi libri, dove tanti volti noti si confondevano a molti altri sconosciuti, o durante le mie visite nella casa dove ha trascorso i suoi ultimi tempi, dove c’era sempre qualcuno a conversare con lui o che lo chiamava al telefono, così, in un’occasione, gli chiesi perché tanto affetto in tanta gente.
Lui mi rispose:
Se i figli sono pezzi di cuore, per una paternità affettuosa, di sudore e, non poche volte, di sangue e una figliolanza pura e sentita, forse il mio è la…in quei pezzi di cuore…”.

lunedì 7 dicembre 2015

Il ricordo della tragedia di Triggiano e l'attesa del Valle d’Itria Express

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Promotore dell'iniziativa l’Aisaf gruppo Bari (associazione jonico-salentina Amici del treno)





Foto di Gabriele Lepore, socio dell'Aisaf gruppo Bari


(Franco Presicci) 
 Correva l’anno 1927. Il 30 ottobre, alle 7.41, un convoglio speciale per Bari partito da Locorotondo, appena uscito dalla curva che sfocia nella stazione di Triggiano, finì contro un treno, anch’esso diretto al capoluogo, fermo sul binario, unico, in ritardo sull’orario. Il conducente del treno in arrivo, mancando il segnale rosso, e accortosi dell’ostacolo quando ormai era pochi metri, azionò i meccanismi di frenata, ma non potè evitare il disastro: 9 viaggiatori perdettero la vita e 145 rimasero feriti. Due cittadini, Michele Campobasso e Vito Giannelli, s’impegnarono immediatamente con coraggio nell’azione di soccorso, salvando molta gente imprigionata nei vagoni devastati, pur sapendo che la caldaia della locomotiva, sottoposta a pressione, poteva esplodere da un momento all’altro; pericolo scongiurato dal macchinista che pur avendo subito un trauma all’addome, risalì sulla macchina deragliata per compiere le manovre necessarie.
Alla tragedia e ai suoi eroi, il 13 novembre scorso, è stata dedicata una lapide, affissa su una parete all’ingresso della stazione di Triggiano . Presenti il sindaco Vincenzo Denicolò, l’assessore alla Cultura Piero Caringello, una dirigente dello stesso dipartimento Tonia Caldarulo e alcuni consiglieri comunali. Con loro il direttore d’esercizio delle Ferrovie Sud-Est, ingegner Giuseppe Formica, il parroco don Michele Camassa, l’arciprete don Antonio Bonerba, che ha benedetto la targa, oltre a Dario De Simone, rappresentante dell’Aisaf gruppo Bari (associazione jonico-salentina Amici del treno), promotore dell’iniziativa realizzata con il patrocinio e l’intervento economico del Comune; e alla fanfara della scuola secondaria di primo grado “De Amicis-Dizonne.
Tra il pubblico c’era chi ricordava che quel giorno a Bari si festeggiava il quinto anniversario della marcia su Roma (il 28 ottobre del ‘22) e chi i gravissimi precedenti incidenti sulle strade ferrate del Sud. Tra i quali, l’ecatombe del 3 marzo del ’44: più di 500 morti: nel pomeriggio, alle 19, il treno 8017, lunghissimo, tirato da due locomotive a vapore con un fuochista e un macchinista, partito dallo scalo di Battipaglia con un rilevante carico di viaggiatori, nella notte si bloccò in una galleria poco distante da Balvano e nel tentativo di rimettersi in moto, dai locomotori si liberarono gas tossici che colsero i passeggeri nel sonno. L’episodio è passato alla storia come il disastro di Balvano, il paese in cui il 3 novembre del 1961 si rifugiarono i briganti Carmine Crocco e Josè Borjès con le loro bande, e nel 1980 fu coinvolto nel terremoto che si accanì in Basilicata e in Irpinia.
Tornando a Triggiano, recitata una preghiera per le vittime, va detto che è da lodare l’attività svolta con impegno e competenza da Dario De Simone e dai suoi collaboratori dell’Aisaf gruppo Bari, in favore del treno, della conoscenza della sua storia e anche dell’incremento del turismo. Sono in molti ad esprimere entusiasmo per l’esperienza fatta quest’estate con il Salento Express, che viaggiava con orchestre jazz a bordo e concludeva la sua corsa sul secondo binario dello scalo di Martina. E a Crispiano si manifesta il desiderio che il tragitto venga allungato fino alla loro città, terminando a Taranto. A fare da portavoce Michele Annese, già direttore della biblioteca “Carlo Natale”, che tanto lustro ha dato alla sua terra, e oggi artefice dell’Università del Tempo libero e del Sapere, un laboratorio molto attivo. Sicuramente gli organizzatori non rimarranno insensibili all’idea. Per ora sono impegnati nella messa a punto del programma del Valle d’Itria Express, che verrà forse trainato da una “Ciucculatera”, la locomotiva a vapore” che è sempre nel cuore e nella memoria degli appassionati del treno. Sul quale Wolfgang Schivelbusch ha scritto un libro interessantissimo: “Storia dei viaggi in ferrovia”, edito da Einaudi. Vi si parla tra l’altro della ferrovia come garante tecnico della democrazia, secondo la teoria degli intellettuali seguaci di Saint Simon, che consideravano il treno come trasporto dell’uguaglianza, della libertà e della civiltà. Ma era un’illusione: la disposizione dei posti nello scompartimento (uno di fronte all’altro) risultava sgradevole a chi si riteneva di prima classe. E si isolava tacendo, immergendosi nella lettura o guardando il panorama. .



Nella foto di Gabriele Lepore: il sindaco Vincenzo Denicolò; don Antonio Bonerba, arciprete di Triggiano, Pietro Caringella, assessore alla Cultura; Dario De Simone, referente Aisaf gruppo Bari; e Giuseppe Formica, direttore d'Esercizio delle Ferrovie Sud-Estalia