mercoledì 29 giugno 2016

Il Futuro degli investimenti va…Gestito/Inferno:XXXIII Canto(Il Conte Ugolino)

Print Friendly and PDF Relazione di                                      PARROCCHIA DI 
                                                                             SANTA MARIA
Giancarlo ARGESE                                          GORETTI



                      
                                                                        La crisi dei  mercati finanziari in generale ha cambiato sensibilmente le abitudini dei risparmiatori e alcuni aspetti della vita: il lavoro, le decisioni d’acquisto, il risparmio.
In un clima di incertezza con i tassi d’interesse a breve ai minimi storici,  i risparmiatori hanno conseguentemente rimesso in discussione le proprie scelte d’investimento.Infatti, in contesti di mercati finanziari  come l’attuale,  i timori di sbagliare il momento dell’investimento inducono l’investitore a  rimanere fermo ad attendere tempi migliori.  E’ evidente  che il timing costituisca una componente importante  per la determinazione del risultato, ma è difficile capire a  priori il momento giusto.La situazione attuale, insieme ad una sempre crescente attenzione verso una corretta pianificazione finanziaria  ha focalizzato nuovamente l’attenzione sui programmi di investimento mirati alla realizzazione di obiettivi di accumulo nel lungo periodo, il cosi detto PAC – Piano d’accumulo.
Il “piano di accumulo” ha una storia  lunga: come modalità di partecipazione è apparsa fin dai primi anni 70 attraverso l’unico Fondo Comune presente e commercializzato in Italia da Fideuram.  Si tratta infatti di uno strumento versatile, che consente di avvicinare al risparmio anche chi non dispone di somme elevate da investire, permettendo di modulare non solo la frequenza bensì anche l’importo dei versamenti.
Tra i vantaggi del PAC, uno dei più importanti è realizzare l’acquisto di quote a prezzi diversi nel tempo, riducendo significativamente l’effetto del market timing e dunque la volatilità complessiva dell’investimento.
Su questo orizzonte il piano di accumulo ottiene risultati migliori di un investimento in unica soluzione, il cosi detto  “PIC” (Piano incremento capitale) di ammontare pari al totale dei versamenti del piano . Gli effetti  di riduzione della volatilità delle strategie di accumulo su un orizzonte di lungo periodo restano costantemente al di sopra delle strategie PIC. In altri termini, il “cost averaging” del piano di accumulo permette di ridurre il rischio di capitale nel corso dell’investimento.
Il PAC è lo strumento ideale per chi vuole crearsi un capitale nel tempo, anche disponendo di piccoli importi, pianificando nel migliore dei modi le proprie entrate e uscite.
Il PAC permette di investire anche piccoli importi, che attraverso le quote dei fondi comuni /Sicav acquistate, è possibile distribuire le rate   in Titoli di Stato, Obbligazioni o Azioni costantemente monitorati e gestiti da un team di professionisti che lavorano per massimizzare i rendimenti  riducendo la volatilità dell’investimento, cosi  si limitano i pericoli della curva emozionale e la necessità di gestirla.
Per concludere, l’investimento ricorrente e pianificato di lungo periodo appare una soluzione appropriata nei periodi di elevata incertezza, come lo scenario attuale. Ad esso è tuttavia necessario affiancare una solida attività di consulenza, partendo dalla conoscenza del risparmiatore e la sua propensione al rischio, e che imposti correttamente la diversificazione del portafoglio. A tal proposito, appare utile che lo sviluppo di prodotto si orienti verso una sempre maggiore flessibilità dello strumento, al fine di permettere  un’allocazione efficiente degli attivi in funzione del profilo del risparmiatore, sia una maggiore convergenza verso l’obiettivo prefissato, prevedendo meccanismi di correzione dell’esposizione al rischio con l’approssimarsi della scadenza del piano.
 
Gli  ultimi anni confermano come l’emotività dei risparmiatori,  possa indurre scelte dettate alternativamente dall’euforia o dal panico (ingresso sui massimi e uscita sui minimi) che compromettono il rapporto dei risparmiatori con i mercati finanziari.

“Se aggiungi poco al poco, ma fai questo sovente, il poco
diventerà molto”

Esiodo (VII sec A.C.)

Dott. Giancarlo Argese
Private Banker
Fideuram – Intesa   Sanpaolo Private Banker



Cell. +39 335 5684694
Agenzia di Lecce 0832 258211
Agenzia di Taranto 099 4527712


 
MADRE TERESA DI CALCUTTA”: UN SUCCESSO DEI GIOVANI DI AZIONE CATTOLICA

Crispiano, 5 luglio 2016

I Giovani di Azione Cattolica della parrocchia di Santa Maria Goretti hanno presentato, sul sagrato della chiesa, il musical “Madre Teresa”, un'opera di Pietro Castellacci e Michele Paulicelli (autori anche del musical “Forza venite, gente”). Di fronte a un numeroso pubblico, attento ed emotivamente coinvolto, i Giovani hanno raccontato la vita di questa piccola suora, morta il 5 settembre 1997, facendo risaltare, con musica, canti, balletti, dialoghi, la sua grande umiltà e generosità, la sua dedizione agli abbandonati, agli ammalati, il suo lavoro nelle più precarie situazioni di povertà, insieme a tante consorelle, che come lei intendono essere “matita di Dio”, negli angoli più remoti del mondo.


Attraverso dei video, il pubblico ha ascoltato anche, dalla viva voce della suora, alcune preghiere, invocazioni, i suoi inviti a vivere la vita con gioia.
Una figura che si prevede sarà canonizzata il prossimo 4 settembre da papa Francesco.
A raccontare la vita esemplare di Madre Teresa di Calcutta, interpretata da Sara Angelini, la briosa sister Bettina(Sara Argese); interlocutore un giornalista(Enrico Marraffa) in cerca di scoop, all'inizio restio a capire e a condividere gli ideali vissuti da suor Bettina al seguito della Madre, infine convertito a una vita di missione tra gli emarginati. I Giovani, guidati dal parroco don Mimmo Rizzo e dal presidente di Azione Cattolica Michele Greco, hanno scelto di rappresentare proprio questo musical per raccontare da vicino una delle più potenti figure di santità degli ultimi anni.
Per la realizzazione di questo spettacolo, la regia è stata di Massimo Fontò e Luca Greco; la scenografia di Paolo Elettrico e Francesco Luccarelli; la coreografia di Valentina Caramia, Giovanna Luccarelli, Sara Speziale e Beatrice Aloia.
Il lavoro rappresenta il culmine di un percorso durato anni, nei quali si sono avvicendati ragazzi, non professionisti, che hanno trovato , nel teatro, un potente strumento di aggregazione e di evangelizzazione, offrendo agli spettatori , un pezzo delle loro vite , vissute alla sequela di Gesù”.

A conclusione, il presidente Greco e il parroco don Mimmo hanno rivolto il loro saluto ai giovani, esprimendo la propria soddisfazione per il loro impegno. Don Mimmo ha aggiunto: i giovani non sono solo il domani, ma sono l'oggi; i loro ideali, i loro sogni, i loro valori rappresentano la positività dell'attuale società. Ha comunicato infine che la rappresentazione verrà replicata l'11 agosto a Pescopagano (Potenza), nel periodo in cui i Giovani saranno impegnati nel campo scuola a Castelgrande.
Congratulazione al gruppo sono state espresse anche da don Vincenzo Caiazzo, cappellano dell'Aeronautica militare, il quale ha ricordato l'esperienza di lavoro e di generosità, fatta a Roma, proprio nell'Istituto delle Suore di Madre Teresa, insieme a don Mimmo Rizzo e a don Francesco Simone, parroco di San Michele Arcangelo della frazione di San Simone. La serata è stata presentata da Alessandro Fontò.

Il gruppo, vanta la realizzazione di numerose opere teatrali di stampo religioso tra cui opere inedite, scritte dagli stessi ragazzi: "Sole e sangue , storia di una Santa”, recital| sulla vita di Santa Maria Goretti; "Caahl, un vescovo venuto dal mare", musical sulla vita di San Cataldo; “La Forza di un Sogno”, recital sulla vita di San Francesco D'Assisi; "Sotto il cielo d’Ars”, recital sulla vita di San Giovanni Maria Vianney. Sempre loro hanno messo in scena opere di famosi autori teatrali contemporanei : “Il sogno di Giuseppe” di Pietro Castellacci; "Il Risorto” di Daniele Ricci; “Chiara di Dio” di Carlo Tedeschi.
Ripetuti applausi sono stati rivolti al Corpo di ballo, formato da Chiara Ciro, Emanuela Greco, Adriana Perniola, Francesca Solito, Stefania Greco, Federica Ricci, Anna Scardillo, Virginia Lanzalonga, Alisia Fusiello, Federica Palmisano, Alessia Maggi, Alessia Fontò, Francesca Ricci, Andrea De Girolamo, Antonio Mosca, Valerio Serino, Mattia Marchionna, Andrea Fiorino, Roberto Bagorda, Daniele Carbotti, Vittorio Albanese, Jovo Knezvich Tapia, Federica Semeraro, Adriana Mancini, Francesca Capuzzimati, Francesca Fiorino e Francesca Catalano.
Altri interpreti: Adriana Di Cesare (Donna indiana), Davide Tinelli (il Missionario) e Federica Murana (reporter), Domenico Dompietro (Gesù Cristo).
Assistenti di scena: Emanuele Catalano, Davide Bagorda, Mattia Campana, Samuele Lucaselli, Mirco Lecce, Roger Locorotondo, Loris Ciafardini.

                                       Silvia Laddomada

mercoledì 22 giugno 2016

AUGURI ROSETTA!

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A U G U R I    R O S E T T A!

Rosetta Miccoli
La prof.ssa Rosetta Miccoli, dal 1° settembre va in pensione. Lascia nella scuola il ricordo della sua cordialità e della sua dedizione agli studenti.
Ora merita la gioia di godere gli affetti famigliari e una lunga vita colma di serenità e benessere.
Il traguardo raggiunto ha voluto festeggiarlo anche con gli amici dell'Associazione “Minerva”, offrendo un gustoso e raffinato buffet.
Nella circostanza l' “amica di infanzia”, insieme ad un omaggio floreale, ha voluto dedicarle un pensiero particolare.
 
Gli Amici dell'Associazione "Minerva" festeggiano Rosetta

 
 
Rosetta, Antonella, Silvia
Rosetta,
ricordo ancora quella bambina con i riccioli d'oro e il vestitino celeste arricciato, che ho conosciuto all'asilo.
Abbiamo vissuto insieme l'esperienza della scuola elementare e media e dell'Azione Cattolica.
Poi la vita ci ha portati su altri percorsi, studio, famiglia, lavoro. Le nostre strade però, non erano parallele.
Ad un tratto ci siamo reincontrate nel lavoro, nello stesso luogo, nella stessa Scuola, in cui “ieri” tu hai applaudito al mio pensionamento, “oggi” io applaudo al tuo.
Auguriamoci di condividere in serenità esperienze nuove e ricche di buoni sentimenti, non soltanto nell'Associazione “Minerva”, dove ancora una volta ci siamo incontrate, ma anche nella vita che auspichiamo lunga e in buona salute”.

                                                                                    L'amica di sempre Silvia






martedì 21 giugno 2016

ESCURSIONE AL BORGO ANTICO DI TARANTO E VISITA AL MUSEO SPARTANO-RELAZIONE DEL PROF. MIMMO CALABRETTI

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Museo Spartano - Taranto


Positivo riscontro e soddisfazione dei partecipanti, questa la risposta all'escursione culturale al borgo antico di Taranto, organizzata dall'Università del Tempo libero e del Sapere “Minerva”. Eleonora Massafra, esperta e brillante guida turistica, ha permesso, ad un gruppo di partecipanti agli incontri culturali del martedì, e alle loro famiglie, di percorrere le stradine, i vicoletti del borgo antico della nostra città capoluogo, alla scoperta delle tracce storiche dei nostri antenati greci.
                                       
Escursionisti crispianesi






   



I turisti crispianesi hanno ammirato, compiaciuti, il vario patrimonio architettonico della Taranto sotterranea, disseminato e incastonato nelle abitazioni del borgo, dove le tracce degli insediamenti greci si stratificano con quelle dei bizantini, dei romani e delle epoche successive. Degni di nota i tanti palazzi nobiliari, la cui facciata spesso conserva e mostra al passante le decorazioni in pietra calcarea, frutto dell'arte manuale di diverse maestranze.
Chiesa S.Michele dedicata all'Immacolata
La guida ha anche consentito la visita alla chiesa di San Michele (del 1700), oggi dedicata all'Immacolata, adottata, ristrutturata, aperta al culto e curata dall'Ordine dei Cavalieri di  Malta, in collaborazione con la Confraternita dell'Immacolata, accanto alla quale vi è una piccola ex canonica, arredata secondo lo stile del 18° secolo. Un tempo era annessa a un convento, in cui oggi è ospitato il Conservatorio provinciale Giovanni Paisiello. Sono stati apprezzati anche la sensibilità culturale e l'entusiasmo con cui viene curata la chiesetta di S. Maria della Scala, risalente al 1100;
Il palazzo Notaristefano (del Barone)
sul tetto della Chiesa, è stato allestito un piccolo museo di arte, cultura, religiosità. La Chiesa, che ha subìto alterne vicende, nella seconda metà del 1900  era stata lasciata all'abbandono per oltre 40 anni.
Chiesetta Madonna della Scala
Solo da qualche decennio è stata recuperata, ristrutturata, aperta al pubblico, grazie alla disponibilità del pittore Nicola Giudetti e dell'amico Pasquale Chioca.
da sx:G. Salvemini-P. Chioca
Un borgo di cui è stato colto il desiderio di riscatto sociale e il desiderio di elevazione culturale; un “Isola” che si apre con fiducia al flusso turistico, grazie a una collaborazione sinergica tra forze politiche, sociali, commerciali e culturali.
Il Cappellone di San Cataldo - Taranto
Non poteva mancare la visita guidata al Duomo di San Cataldo, alla Cripta e all'annesso Cappellone, un vero capolavoro di arte Barocca. Seguendo la lettura artistica, fatta da Eleonora, e varcando l'artistico cancello d'ottone, tante emozioni hanno suscitato, nei turisti crispianesi, i suggestivi marmi policromi intarsiati alle pareti, con colori e immagini che si inseguono, visibili alla luce proveniente dai personali cellulari dei visitatori. Si resta stupefatti per l'eccelsa bravura dell'artista che ha affrescato la cupola, dove è ritratto il vescovo irlandese nella gloria dei Santi. All'interno dell'altare marmoreo, impreziosito da madreperle e lapislazzuli è conservata la tomba del Santo, visibile attraverso una grata marmorea e delle finestrelle laterali. Al di sopra dell'altare, la nicchia in cui vi è il simulacro d'argento di San Cataldo.   
Vicoletto borgo antico
L'escursione turistico-culturale si è conclusa con la visita alla casa seicentesca della Marchesa De Beaumont-Bonelli (originaria della regione francese di Navarra),

da sx:Annese-Massafra-Bellacicco








           oggi proprietà del dr. Marcello Bellacicco, e con la visita del sottostante museo spartano, allestito nell'ipogeo del palazzo della Marchesa che, nel suo livello più basso, arriva a 4 metri al di sotto del livello del mare.
Grande interesse ed emozione ha suscitato la visita alle stanze della casa, che conserva affreschi e pavimenti originari, arredata con gusto e rispetto dell'epoca storica a cui risale, da parte del dr. Bellacicco, il quale offre al turista un'opportunità di arricchimento culturale.

Museo spartano
Del tutto originale è il museo spartano, esteso circa 800 mq., con ingresso dal corso Vittorio Emanuele, nel quale sono documentate le epoche e i periodi storici, a partire dalla fondazione di Taranto ad opera degli Spartani (706 a.C.) fino al 17° secolo, e continuamente arricchito da chi collabora, con opere artistiche, affreschi, riproduzioni di maschere teatrali, di costumi spartani e di documenti storici.
Interno casa dr. Bellacicco
La peculiarità di questo ipogeo-museo è la presenza di un tunnel transitabile che lo collega direttamente sul livello del mar grande, ed è percorso, sotto il pavimento, da un fiume sotterraneo visibile, che convoglia verso il mare l'acqua proveniente dalle Murge tarantine. Il gruppo di Crispiano è ritornato in sede, esprimendo la propria meraviglia per tanta bellezza e per l'evidente volontà di riqualificazione, che non balza agli onori della cronaca. L'Università “Minerva” continuerà a favorire l'arricchimento culturale con incontri settimanali programmati e con ulteriori escursioni, volte alla conoscenza storico-culturale del territorio.

                                   Silvia Laddomada































DAL 25 APRILE AL 2 GIUGNO 

RELAZIONE DEL PROF. MIMMO CALABRETTI



Partiamo dall'ingresso in guerra...
I successi immediati della Germania ( Polonia, Norvegia) uniti alla convinzione che ‘con un pugno di morti’ si sarebbe seduto alla spartizione dei territori conquistati, indussero Mussolini ad entrare in guerra al fianco della Germania... era il 10 giugno del 1940. Gli insuccessi del nostro esercito in Grecia (a cui Mussolini voleva 'spezzare le reni'), in Albania e nel nord Africa ci fecero provare subito l’umiliazione di essere impreparati alla guerra ed essere inferiori all’esercito tedesco, senza il cui aiuto saremmo stati subito travolti da paesi anche più poveri dell'Italia. Il fallimento della spedizione in Russia nei due inverni 42/43 , i bombardamenti degli aerei anglo-americani, le distruzioni e le morti misero a dura prova i nostri soldati e la popolazione italiana che avvertivano sempre di più la stanchezza per una guerra inutile e l'avversione per chi l'aveva provocata.
Il 25 luglio del ’43 il Gran Consiglio del fascismo mise in minoranza Mussolini che venne arrestato. L'annuncio dell'arresto di Mussolini suscitò una grande gioia, subito delusa dal nuovo capo del governo Pietro Badoglio, il quale dichiarò con un secco comunicato, con le testuali parole trasmesse dall'EIAR (l’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), ‘ la guerra continua’. Badoglio volle giocare d'astuzia su due fronti — Da un lato intavolò trattative segrete con gli anglo americani sbarcati in Sicilia -— dall'altro garantì la sua buona fede ai Tedeschi e ordinò alle nostre truppe di reprimere ogni dimostrazione antifascista. Ma quando l'8 settembre del 43 gli stessi alleati diedero l’annuncio dell’armistizio, il nostro esercito, rimasto senza ordini dei superiori, molti dei quali, tra cui il Maresciallo d'Italia BADOGLIO, erano in fuga insieme al re, non seppe chi combattere e avvenne quello che fu chiamato ‘lo sbandamento’.
Da questo momento i tedeschi sentitisi (giustamente) traditi divennero i nostri nemici... e si rivolsero contro soldati e civili con inaudita spietatezza...I soldati che erano in Iugoslavia, in Grecia , a Corfù, e nelle Isole furono massacrati dai tedeschi o deportati nei campi di concentramento. A Cefalonia migliaia di nostri soldati della divisione Aqui furono oggetto di fucilazioni sommarie. Quella stessa notte dell’8 settembre gli alleati sbarcano a Salerno ...il re e la sua corte lasciarono (vergognosamente) Roma, per riparare a Brindisi già liberata dagli alleati. I partiti di opposizione comunicarono la costituzione del COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE. Ne facevano parte il PC, PSIUP, la DC, il PLI, il Partito d’Azione e Democrazia del Lavoro. Mussolini venne liberato e messo a capo della Repubblica Sociale di Salò. Il 18 febbraio 1944 il generale Rodolfo Graziani emanò un bando che comminava la pena di morte ai renitenti alla leva repubblichina. Se fino a questo momento si era combattuta una guerra regolare, anche se sofferta, per la popolazione e per i nostri soldati sprovvisti di tutto... da questo momento, con la costituzione della Repubblica di Salò, si scatena l'odio e la guerra diventa guerra civile...da un lato i partigiani che avevano dato vita già da tempo alla Resistenza e dall'altro i "tedeschi e i repubblichini”, che spesso si resero responsabili di ignobili incombenze. Il ’44 inizia con l'attentato in via Rasella a Roma e il conseguente eccidio delle Fosse Ardeatine (23 marzo)... Nel corso dell'inverno, i tedeschi hanno bloccato l'avanzata degli anglo-americani sulla linea gotica e il prezzo pagato dalle popolazioni civili è stato altissimo come dimostrano le atrocità commesse dai nazisti a Sant'Anna di Stazzema (12 agosto) e a Marzabotto (20 sett.). 

Gli ultimi mesi di guerra in Italia sono stati terribili... tutto venne perpetrato dai tedeschi in fuga e dai repubblichini: stragi, mattanze, linciaggi, eccidi, caccia alle tonache e a chi nascondeva ebrei e soldati alleati sbandati. Il 18 aprile del '45 a Torino viene proclamato lo sciopero generale e la mobilitazione si estende in tutti i principali centri del Nord. Cuneo, Bologna, Genova vengono liberate dai partigiani prima dell’arrivo degli alleati. Le forze della Resistenza e la popolazione civile riescono a salvare dalla distruzione il porto di Genova e i principali impianti industriali . All'inizio di aprile anche Torino, dopo 4 giorni di duri scontri con i tedeschi, viene liberata dalle formazioni partigiane. Nei giorni della dissoluzione del regime fascista Mussolini cerca di mettersi in salvo. Il 18 aprile arriva con parte dei suoi ministri a Milano. Grazie alla mediazione del Cardinale Schuster il duce ottiene di incontrare alcuni dirigenti del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia per concordare una resa onorevole, ma ormai non é più in grado di dettare condizioni e i capi dei partigiani non cedono alle sue richieste. Mussolini tenta di giocare la carta della fuga in incognito, travestito da soldato tedesco, ma viene riconosciuto e catturato da un gruppo di partigiani della 52 brigata Garibaldi. La notte successiva, il 28 aprile a Giulino in provincia di Como, viene fucilato dal comandante partigiano Walter Audisio, detto Comandante Valerio; insieme a Mussolini viene uccisa anche la sua amante Claretta Petacci.

Successive informazioni rivelarono che l' uccisione di Mussolini fu voluta dal governo inglese (Churcill), per far sparire il carteggio che egli intratteneva con Mussolini. I loro corpi vennero trasferiti a Milano con quelli di altri gerarchi ed esibiti in piazzale Loreto, nello stesso luogo dove il 10 agosto del ’44 i nazisti avevano fucilato ed esposto 15 partigiani. La folla infierì sui cadaveri con sputi, calci e colpi di pistola, fino a quando non li appesero a testa in giù alla tettoia di un distributore di benzina. Una scena drammatica da “macelleria messicana”, come la definì Ferruccio Parri, uno dei capi del CLN. Una feroce esplosione di violenza, che divenne la rappresentazione simbolica di quei giorni nei quali l'euforia per la fine della guerra convisse con il dolore per i drammi provocati. Alla gioia per il crollo del nazifascismo fece da contraltare la rabbia accumulata nei mesi di guerra civile. Spesso bastava un sospetto di aver collaborato con i tedeschi o semplicemente di aver simpatizzato per il regime perché si venisse uccisi...nell’aprile del '45 furono uccisi sacerdoti, industriali, imprenditori agricoli e quanti avevano solo dimostrato simpatia per il regime. Gli omicidi continuarono per due anni seppure in modo sporadico; furono migliaia e forse decine di migliaia! E’ quello che lo scrittore Gianpaolo Pansa ha chiamato ‘il sangue dei vinti’. 
Nell’immediato dopo guerra il fondatore dell’uomo qualunque, Guglielmo Giannini, diffuse la notizia, poi contraddetta, che le vittime delle vendette partigiane erano state 300 mila. Parlando alla Camera il ministro Scelba riferì, in seguito ad una apposita inchiesta, che i presunti omicidi politici avvenuti dopo il 25 aprile furono 1700. Lo storico Nazario Onofri , secondo una accurata ricostruzione fatta nell’Archivio centrale dello Stato, sostenne che i fascisti giustiziati furono circa 10mila, la maggior parte dei quali in Piemonte, Emilia Romagna, in Lombardia e in Liguria. Su questi dati si discute ancora oggi... si forniscono numeri diversi man mano che le questure e le prefetture aprono i famosi armadi tenuti chiusi.

ARRIVIAMO ai primi di giugno del 1946...sono giorni di speranza per un cambiamento che verrà dal Referendum. E’IL PRIMO MOMENTO SIGNIFICATIVO DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA DOPO LA GUERRA. Tutti si sentono protagonisti, desiderano partecipare, far valere la propria opinione, scegliere il proprio futuro. Il 2 e il 3 giugno si torna al voto dopo più di 20 anni. Per la prima volta partecipano alla consultazione anche le donne. Gli elettori sono chiamati non solo a scegliere la forma dello Stato: MONARCHIA o REPUBBLICA, ma anche ad eleggere i propri rappresentanti all'ASSEMBLEA COSTITUENTE. Nella consultazione referendaria, socialisti, comunisti, repubblicani e azionisti si schierano per la Repubblica.
A favore della Monarchia si dichiarano i liberali, i monarchici e i qualunquisti di Guglielmo Giannini. Più prudente appare la posizione della Democrazia Cristiana, anche perché il compito di gestire quel difficile passaggio politico spetta proprio a De Gasperi, uno dei fondatori e degli esponenti di maggiore spicco del partito. L'affluenza ai seggi è elevata fin dalle prime ore del mattino... il clima è di grande tensione. Vittorio Emanuele III il 9 maggio abdica in favore del figlio Umberto, il volto più presentabile dei Savoia, i carabinieri sono ancora formalmente legati alla corona e i partigiani non hanno consegnato le armi usate durante la Resistenza. I risultati arrivano al Viminale con molta lentezza, la percentuale dei voti favorevoli alla Monarchia e alla Repubblica oscilla in continuazione... nella notte tra il 3 e il 4 giugno era in vantaggio la Monarchia, ma la situazione si capovolge nelle ore successive .

La mattina del 5 giugno i giornali scrivono del vantaggio della Repubblica ma non sono dati definitivi... nel pomeriggio dello stesso giorno, il ministro ROMITA tiene una conferenza stampa annunciando i risultati pressoché definitivi... mancano solo un migliaio di sezioni... e i voti sono favorevoli per la Repubblica. Si parla di voti validi e mai di schede nulle o bianche... perché?
LA SITUAZIONE SI COMPLICA, tanto che un gruppo di giuristi padovani presenta un ricorso sostenendo che, per vincere non bastava solo prendere più voti dell'avversario, ma era necessario superare il 50% dei voti espressi, compresi i voti nulli e le schede bianche. Il 10 giugno alle 18, nella Sala della Lupa a Montecitorio si attende la comunicazione ufficiale dell'esito del referendum. Il presidente della corte di Cassazione, Giuseppe Pagano, si limita a rendere noto il numero dei voti ottenuti da ciascun schieramento... senza proclamare ufficialmente il vincitore... Dei voti non validi ancora non si fa parola. Poco dopo il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, sale al Quirinale da Umberto II... per comunicare i risultati del voto e legittimare l'immediato passaggio alla Repubblica. Il re non riconosce il verdetto elettorale ritenendo quei risultati ancora provvisori. Inizia uno scontro tra governo e Casa reale. La tensione é altissima, il paese è sull'orlo del caos totale. Il re ribadisce di non voler cedere le sue prerogative, fino alla proclamazione ufficiale dei risultati del referendum, da parte della corte di Cassazione. Le piazze tornano a riempirsi di militanti degli opposti schieramenti, e si registrano incidenti. Ritorna il rischio di una guerra civile. Ma il re decide di compiere un gesto di responsabilità e sceglie la strada dell'esilio. Pochi minuti prima della partenza indirizza alla nazione un proclama nel quale si dichiara vittima di un gesto rivoluzionario, compiuto in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della magistratura. De Gasperi fu altrettanto duro nella risposta dicendo “un periodo che fu senza dignità si conclude con una pagina indegna” (non dimentichiamo che i Savoia adottarono le leggi razziali nel '38, diedero l'incarico di governo a Mussolini, e fuggì da Roma in un momento in cui bisognava rimanere).

Il 18 giugno la Corte di Cassazione comunicò i risultati definitivi della consultazione, confermando la vittoria repubblicana. Contemporaneamente al referendum gli italiani furono chiamati all’elezione dei propri rappresentanti all'Assemblea Costituente (la commissione dei 75 divisi in tre sottocommissioni 18 diritti e doveri, 38 ordinamento costituzionale della Repubblica, 18 rapporti economici e sociali) che dovevano redigere la Carta Costituzionale. L'esito della votazione premiò i partiti di massa: la DC, i socialisti del PSIUP , il Partito Comunista poi l'Unione Democratica Nazionale, il Fronte dell'Uomo Qualunque, il Partito Repubblicano, il Partito d'Azione. Ma c'erano un'altra decina di partiti: dei contadini, dei lavoratori cristiani, il partito sardo dei siciliani... Il 25 giugno l'Assemblea Costituente comincia i lavori sotto la presidenza di Giuseppe Saragat, mentre il capo provvisorio dello Stato viene eletto Enrico De Nicola. 
Il 22 dicembre l'Assemblea approva la nuova Carta costituzionale che entra in vigore il I° gennaio del '48. 

Repubblica 12 milioni e 700 mila
Monarchia 10 milioni e 700 mila
Furono date due schede: 








mercoledì 15 giugno 2016

LA DIVINA COMMEDIA: CANTO XXVI - INFERNO (ULISSE)

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TESTO INTEGRALE CANTO XXVI - INFERNO

                  (ULISSE) 

Letto da Giacomo SALVEMINI

 

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza


Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!

Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.

Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai di qua da picciol tempo
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.

E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’più m’attempo.

Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee;

e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.

Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede alla zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.

E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:

tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.

Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.

E ’l duca che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso».

«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:

chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?».

Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Diomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;

e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.

Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deidamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta».

«S’ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,

che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!».

Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto».

Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:

«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.

Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,

acciò che l’uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.

"O frati", dissi "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".

Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».
 
Relazione sul Canto XXVI - INFERNO
di Silvia LADDOMADA

Il protagonista del 26° canto è Ulisse, una figura nota dell'epica classica; personaggio famoso, nato dai racconti degli aedi, esponenti della vita culturale greca, che tramandavano le gloriose imprese di grandi uomini, di eroi, di divinità. Omero, autore dell'Iliade e dell'Odissea, ha raccontato la guerra di Troia, nella quale si è distinto, tra i Greci, proprio Ulisse, intelligente e astuto, autore di ardue imprese, la più nota delle quali è il famoso cavallo di legno, offerto in dono alla dea Atena, protettrice di Troia, dichiarando di rinunciare alla guerra, ormai decennale. Sappiamo che il cavallo fu un inganno, escogitato proprio da Ulisse e dall'amico Diomede, per distruggere la città.
Nell'Odissea, Omero racconta le straordinarie avventure capitate a quest'uomo intelligente, che peregrinò per altri dieci anni, ingannando Polifemo, le sirene, la maga Circe, prima di tornare in Grecia, ad Itaca, dove lo aspettavano il padre Laerte, il figlio Telemaco e la paziente moglie Penelope
Il racconto dantesco si sgancia dalle fonti classiche. Dante non conosceva i poemi omerici, aveva letto “Le roman de Troie”, scritta da un narratore francese , Benoit de Saint Maure, nel 1170 e aveva letto certamente le opere degli scrittori latini, come il poeta Ovidio, che nelle “Metamorfosi”, parlando di eroi antichi, dice che Macareo, un compagno di Ulisse racconta come l'eroe, dopo la sosta presso la maga Circe (a Gaeta), avesse convinto i compagni a riprendere il mare, pur contro il parere della stessa maga, che lo aveva messo al corrente dei pericoli che avrebbe incontrato.
Ma dove va Ulisse? Qui Dante traccia una nuova identità del personaggio.
Intanto è un mentitore: ha mentito ai troiani, ai compagni di viaggio, merita l'Inferno, precisamente la bolgia dei consiglieri fraudolenti.
Qui, egli lo incontra nel suo viaggio ultraterreno: nell'ottavo cerchio, detto Malebolge, l'immenso regno della frode, dell'inganno in tutte le sue forme, nei confronti di chi si fida. Un cerchio diviso in dieci zone: ruffiani e seduttori, lusingatori, simoniaci, indovini e maghi, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordia e scismatici, falsari.
Nelle Malebolge si respira un nuovo clima: non c'è più quel rispetto e quella pietà umana che aveva caratterizzato i colloqui del poeta con molti dei dannati incontrati finora. Qui emerge il disprezzo che Dante prova per peccati avvilenti e degradanti, e per personaggi di bassa lega, molti dei quali fiorentini. Si vergogna Dante della sua Firenze, contro cui lancia un'invettiva, e, ironicamente, le dice : godi Firenze, perché il tuo nome noto in tutto il mondo, risuona anche nell'Inferno, per la quantità di dannati che la rappresentano. Ma Ulisse fa eccezione. Dante non lo disprezza, Dante uomo è magnanimo con lui.
Ulisse è il grande uomo solitario di Malebolge, come disse il critico letterario De Sanctis.
Intanto Virgilio e Dante hanno lasciato la settima bolgia, quella dei ladri, e affacciandosi nell'ottava, Dante vede il fondo rischiarato da tante fiammelle, che lui paragona alle lucciole che brillano al crepuscolo. E' la bolgia dei consiglieri fraudolenti, cioè di coloro che hanno spinto gli altri ad azioni temerarie, ingannandoli con i loro consigli. Sono immersi completamente in una lingua di fuoco.
( contrappasso per analogia: nella vita hanno usato la lingua per dare i loro infiammati consigli)
Dante nota che una lingua ha due punte e chiede spiegazione a Virgilio. Questi gli comunica che in quella fiamma sono avvolte le anime di Ulisse e dell'amico Diomede, entrambi condannati alla stessa pena, perché hanno commesso gli stessi peccati. Sempre insieme, anche nell'aldilà.
E' Virgilio che si rivolge a Ulisse, e gli chiede di raccontare cosa sia accaduto dopo aver lasciato la maga Circe a Gaeta. E qui inizia l'affascinante e grandiosa invenzione dantesca. Ulisse racconta che con il piccolo gruppo dei sopravvissuti intraprese un viaggio verso l'ignoto.
Questa decisione di Ulisse è al centro del colloquio tra Dante e l'eroe greco. L'Ulisse dantesco diventa il simbolo della curiosità e della sete di conoscenza dell'uomo, disposto a misurarsi con i propri limiti, per scoprire il nuovo.
Ulisse racconta di aver rivolto ai pochi compagni rimasti con lui “un'orazion picciola”, un breve discorso, non privo di astuzia. Facendo leva sull'orgoglio di quei fidati compagni che avevano come lui indirizzato la vita al sapere e alla scoperta, conquista il loro appoggio e li sprona a un'avventura che nessun uomo aveva mai tentato: quella di forzare i limiti della conoscenza e spingersi alla scoperta dell'ignoto. Considerate la vostra origine, egli dice, siete stati creati per segnalarvi nel valore, per arricchirvi di cognizioni, e non per vegetare come bestie, come bruti. Non vogliate negare al poco tempo della vita che vi resta, della possibilità di conoscere il mondo disabitato.
E così, da Gaeta, Ulisse volge la prua della piccola nave verso ovest, supera le colonne d'Ercole, guadagna il mare aperto, procede verso sud-ovest, entra nell'emisfero australe e intravvede un'altissima montagna. Un grido di gioia, ma un turbine, improvviso e violento, fa capovolgere e inabissare la nave. Il volo intrapreso è stato folle, dice ora Ulisse. Sembra che egli comprenda il senso della punizione divina per la sua presunzione.
Dopo l'immagine del naufragio, del mare che si chiude sulla nave, della calma e del silenzio spettrale che circonda l'episodio, è chiaro il messaggio che Dante rivolge al lettore.
Siamo nel luogo in cui sono puniti i consiglieri fraudolenti e Ulisse lo è, perché l'orazion picciola è in realtà un'orazione arguta e fraudolenta, ma quasi dimentichiamo che quest'anima è immersa in una fiamma, ci rimane l'immagine di un'enorme solitudine oceanica in cui naviga Ulisse.
Siamo angosciati e timorosi, perché costretti a pensare alla sua temeraria infrazione ai divieti divini.
Questa trasgressione non è accettata da Dante, uomo del medioevo cristiano. Pur se nobile nella sua origine il desiderio di conoscenza può trasformarsi in superbo orgoglio, eccesso di fiducia nelle capacità umane. Per questo l'eroe del folle volo precipita verso la morte.
Emerge , dal racconto, il tema del limite del sapere umano e delle conoscenze, rappresentato dalle colonne d'Ercole. Oggi questo luogo, noto come Stretto di Gibilterra, è attraversato senza problemi, ma nell'antichità quelle colonne rocciose dei due promontori, quello marocchino e quello spagnolo, ai lati dello Stretto, si attribuivano ad Ercole, il quale aveva anche scritto “non plus ultra”, non più oltre, per scoraggiare chi avesse voluto avventurarsi nelle correnti dell'Oceano.
Per Dante e per buona parte della cultura medievale, le colonne d'Ercole separavano l'emisfero noto e popolato da quello ignoto e disabitato. Quest'ultimo era per Dante il territorio del soprannaturale, perciò vi colloca la sede del Purgatorio, la montagna altissima intravista da Ulisse. Il problema è affrontato da un punto di vista religioso: è un errore, anzi un peccato, supporre di poter perseguire virtù e conoscenza, sconfinando con le sole forze umane nel territorio dell'ignoto.
Pensiamo al peccato di superbia di Adamo ed Eva e alla punizione divina: la cacciata dall'Eden, dal paradiso terrestre, uguale al naufragio di Ulisse.
L'errore di Ulisse, quindi, è stato quello di oltrepassare le colonne d'Ercole, è stato quello di voler indagare il mondo dell'essere, fidando solo sulla miseria dell'umana intelligenza. Ecco perché Dante non lo disprezza, da un lato quasi lo ammira, perché anch'egli è animato dalla sete di conoscenza, ma mentre Ulisse è il simbolo dell'umanità curiosa , dotata di particolari strumenti intellettivi, che presume di dare risposte alle proprie ansie, facendo a meno di Dio, Dante si lascia guidare, nel suo viaggio alla ricerca della Verità, dalla ragione ma soprattutto dalla grazia divina.
All'inizio del canto Dante dice di aver capito cose che ancor lo rattristano, e si sforza di frenare il suo ingegno, affinché esso non corra senza la guida della virtù, perché se la Provvidenza gli ha dato una grande intelligenza, egli non diventi superbo e orgoglioso per questo.
Concludo ricordando ciò che Virgilio dice a Dante all'inizio del viaggio in Purgatorio. “State contenti, umana gente al quia; chè se possuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria”. Un monito e un freno alla presunzione intellettuale.

INTERVENTI:
- Carmine PRISCO
"L’isola di Itaca (Ιθάκη) è uno degli 8 comuni in cui è divisa in Grecia la regione delle isole ionie. Il suo capoluogo è la cittadina di Ithaki, chiamata anche Vathi (Βάθη), pittoresco porto in stile veneziano adagiato a forma di anfiteatro in una ampia baia naturale. Il nome di Itaca è noto in tutto il mondo per il suo legame con Ulisse (Odisseo), l’eroe greco cantato da Omero nell’Iliade e nell’Odissea, che nella letteratura mondiale e nell’immaginario collettivo è considerato il simbolo della avventura, della ricerca, del destino dell’uomo fatto per “seguire virtute e canoscenza”, come gli fa dire il nostro Alighieri (Inferno- canto XXVI- 119).
Il poeta greco Kostantino Kavafis ha dedicato a Itaca una sua composizione, scritta nel 1911.

Veduta della baia di Ithaki (Vathi)
Il titolo (Ιθάκη) si riferisce al celeberrimo viaggio di Ulisse, il protagonista dell’Odissea di Omero. Itaca è una struggente poesia sul senso della vita, concepita come viaggio verso una meta che si raggiungerà dopo lunghe peregrinazioni. Il poeta afferma in questa lirica che non bisogna avere fretta di giungere a destinazione, alla propria "Itaca", ma bisogna approfittare del viaggio (e quindi della vita) per esplorare il mondo, crescere intellettualmente e ampliare il proprio patrimonio di conoscenze. E se poi Itaca si rivelerà deludente, valeva comunque la pena raggiungerla, per tutto ciò che si è vissuto per arrivarci."

 ITACA
"Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sara‘ questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
ne’ nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia -
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta;
va in molte citta‘ egizie
impara una quantita‘ di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca -
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
Konstantinos Petrou Kavafis

metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avra‘ deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
gia‘ tu avrai capito cio‘ che Itaca vuole significare
"




- Anna  PRESCIUTTI  

ha letto alcuni versi de "L'ultimo viaggio", tratto dai Poemi conviviali di Giovanni Pascoli
Giovanni Pascoli


 il vero

     Ed il prato fiorito era nel mare,
nel mare liscio come un cielo; e il canto
non risonava delle due Sirene,
ancora, perché il prato era lontano.
E il vecchio Eroe sentì che una sommessa
forza, corrente sotto il mare calmo,
spingea la nave verso le Sirene;

e disse agli altri d’inalzare i remi:
     La nave corre ora da sé, compagni!
Non turbi il rombo del remeggio i canti
delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto
placidi udite, il braccio su lo scalmo.
     E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E il divino Odisseo vide alla punta
dell’isola fiorita le Sirene
stese tra i fiori, con il capo eretto
su gli ozïosi cubiti, guardando
il mare calmo avanti sé, guardando
il roseo sole che sorgea di contro;
guardando immote; e la lor ombra lunga
dietro rigava l’isola dei fiori.
     Dormite? L’alba già passò. Già gli occhi
vi cerca il sole tra le ciglia molli.
Sirene, io sono ancora quel mortale
che v’ascoltò, ma non poté sostare.
     E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E il vecchio vide che le due Sirene,...

....

le ciglia alzate su le due pupille,
avanti sé miravano, nel sole
fisse, od in lui, nella sua nave nera.
E su la calma immobile del mare,
alta e sicura egli inalzò la voce.
     Son io! Son io, che torno per sapere!
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?
     E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E il Vecchio vide un grande mucchio d’ossa
d’uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente
stese sul lido, simili a due scogli.
     Vedo. Sia pure. Questo duro ossame
cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!
     E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E s’ergean su la nave alte le fronti,
con gli occhi fissi, delle due Sirene.
     Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io! chi ero!
     E tra i due scogli si spezzò la nave.




L'ULTIMO VIAGGIO DI ULISSE
(in Opere, a cura di G. Contini) 

L'ultimo viaggio è il più ampio e significativo dei Poemi conviviali. Diviso in ventiquattro brevi canti (come l'Odissea era divisa in ventiquattro libri), descrive la delusione dell'Ulisse omerico nel rivisitare i luoghi delle sue avventure.
I versi che presentiamo, tratti dall'ultimo canto (XXIV), rievocano l'ultimo approdo all'isola  di Ogigia e l'incontro di Ulisse con la ninfa Calypso, che secondo la narrazione omerica aveva ospitato per sette anni l'eroe prima del rientro in patria.
La forma metrica è in endecasillabi sciolti.

  E il mare azzurro che l’amò, più oltre
spinse Odisseo, per nove giorni e notti,
e lo sospinse all’isola lontana,
alla spelonca, cui fioriva all’orlo
carica d’uve la pampinea vite.
E fosca intorno le crescea la selva
d’ontani e d’odoriferi cipressi;
e falchi e gufi e garrule cornacchie
v’aveano il nido. E non dei vivi alcuno,
nè dio nè uomo, vi poneva il piede.
Or tra le foglie della selva i falchi
battean le rumorose ale, e dai buchi
soffiavano, dei vecchi alberi, i gufi,
e dai rami le garrule cornacchie
garrian di cosa che avvenia nel mare.
Ed ella che tessea dentro cantando,
presso la vampa d’olezzante cedro,
stupì, frastuono udendo nella selva,
e in cuore disse: Ahimè, ch’udii la voce
delle cornacchie e il rifiatar dei gufi!
E tra le dense foglie aliano i falchi.
Non forse hanno veduto a fior dell’onda
un qualche dio, che come un grande smergo
viene sui gorghi sterili del mare?
O muove già senz’orma come il vento,
sui prati molli di viola e d’appio?
Ma mi sia lungi dall’orecchio il detto!
In odio hanno gli dei la solitaria
Nasconditrice. E ben lo so, da quando
l’uomo che amavo, rimandai sul mare
al suo dolore. O che vedete, o gufi
dagli occhi tondi, e garrule cornacchie?
     Ed ecco usciva con la spola in mano,
d’oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori
del mare, al piè della spelonca, un uomo,
sommosso ancor dall’ultima onda: e il bianco
capo accennava di saper quell’antro,
tremando un poco; e sopra l’uomo un tralcio
pendea con lunghi grappoli dell’uve.
     Era Odisseo: lo riportava il mare
alla sua dea: lo riportava morto
alla Nasconditrice solitaria,
all’isola deserta che frondeggia
nell’ombelico dell’eterno mare.
Nudo tornava chi rigò di pianto
le vesti eterne che la dea gli dava;
bianco e tremante nella morte ancora,
chi l’immortale gioventù non volle.
     Ed ella avvolse l’uomo nella nube
dei suoi capelli; ed ululò sul flutto
sterile, dove non l’udia nessuno:
— Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più! —