mercoledì 25 novembre 2020

L'INFANZIA E I SUOI "DIRITTI"

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Relazione di Silvia Laddomada

Parleremo oggi dei bambini, ciascuno di noi ha avuto un figlio piccolo, oggi ha un nipotino, e tutti sappiamo quanta cura dobbiamo avere per loro.

Il 20 novembre di ogni anno, ricordiamo la Convenzione dei diritti del bambino e dell'adolescente.

E' una giornata in cui siamo tutti chiamati a riflettere sulla figura del bambino, che sarà il protagonista della futura società.

Sin dalla notte dei tempi, gli uomini sono coscienti della particolare attenzione da prestare all'infanzia; in una società civilizzata le autorità competenti hanno emanato Dichiarazioni e Convenzioni, hanno convocato vertici mondiali per l'infanzia.

Ricordiamo la Dichiarazione dei diritti dell'uomo introdotta nel 1948 dall'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) in cui si sottolineava la necessità di riconoscere il diritto del bambini all'aiuto e all'assistenza particolare.

Nel 1959, in un'altra dichiarazione dei diritti del fanciullo, si affermava che "l'umanità deve dare al bambino il meglio di se stessa". Poi é arrivata la Convenzione del 20 novembre 1989, che l'Italia ha ratificato nel 1991 con la legge 176.

Il bambino ha quindi dei diritti.

Giustamente potremmo osservare che ha anche dei doveri, come per esempio osservare, rispettare le regole di una buona educazione, impartita dalla famiglia, dalla scuola, dalle Istituzioni religiose o laiche, che il bimbo frequenta.

Una sana educazione permetterà al bambino di vivere in armonia con se stesso, con gli altri, con l'ambiente e con le realtà superiori.

Ma i diritti dei bambini, spesso, sono violati o calpestati. La Convenzione del 20 novembre, con i suoi 54 articoli, si rivolge agli Enti educativi, pubblici e privati, sollecitando il loro impegno a migliorare la condizione umana in generale, ma sopratutto a garantire la sopravvivenza, la protezione e lo sviluppo dei bambini in tutte le parti del mondo.

Sono quattro i principi fondamentali:

1) la non discriminazione; 2) il superiore interesse; 3) il diritto alla vita; 4) il diritto ad essere ascoltato.

La Convenzione richiama l'attenzione sulla necessità di garantire lo sviluppo delle capacità intellettive, morali, spirituali del bambino, a prescindere dalla razza, dal sesso, dalla religione, dalle idee.

I bambini devono sviluppare il loro senso della dignità e del valore personale, in una società libera e giusta.

Pertanto nelle decisioni, pubbliche e private, deve esserci "un superiore interesse" alla loro vita, al loro diritto di sopravvivenza, al loro diritto ad essere ascoltati e presi in considerazione.

Appare chiaro che c'è un abisso tra mondo ideale e mondo reale.

Il bambino ha diritto alla vita, bene.

Come conciliare questo diritto con il diritto all'aborto, della nostra società?

Anche il bambino che viene alla luce, spesso viene buttato nel cassonetto.

Molti neonati o bambini di qualche anno vengono picchiati, sono vittime di maltrattamenti in famiglia, vengono uccisi. Tutto questo a causa di una presenza educativa evanescente, o forse a causa di tragedie famigliari consumate all'interno di una solitudine assordante.

Molti bambini vengono sottratti alle loro famiglie, o soffrono per la disgregazione della loro famiglia, soffrono a livello affettivo e psicologico, ereditando turbe psichiche nell'età adulta.

Nelle periferie degradate delle città i bambini sono abbandonati a se stessi, divenendo cosi facili vittime di aguzzini senza scrupoli che lucrano sulla loro esistenza: pensiamo alla sparizione di bambini per l'espianto di organi, pensiamo allo sfruttamento sessuale, alla pedofilia, un orrore che miete vittime più di un olocausto.

Nei paesi più poveri, si aggiungono altri problemi: la malnutrizione, o addirittura la fame, la sete, la contrazione di malattie che rendono invalidi i bambini per sempre, malattie che spesso non permettono di arrivare nell' età dell'adolescenza.

Pensiamo alle ripercussioni su di loro delle difficili situazioni che si vivono, in alcuni Paesi dell'Africa, Asia, America, a causa di crisi economiche, di guerre civili, di guerre di potere.

I bambini soldato, che devono racimolare qualcosa per la famiglia.

I bambini che salgono sui barconi da soli, in cerca di fortuna.

Nei paesi ricchi e industrializzati, si registra la piaga dell'uso di alcolici e droga tra gli adolescenti; la frequentazione di discoteche, non adatte in un'età adolescenziale. L'uso sbagliato dello smartphone, che li conduce ad essere bulli o vittime di bullismo, o di cyberbullismo.

Un altro diritto da garantire al bambino é l'istruzione, almeno quella di base: leggere, scrivere, saper fare le quattro operazioni.

E' una necessità che concorre allo sviluppo dei talenti personali.

L'istruzione è conoscenza, é attenzione è comprensione della realtà, è libertà, è stimolo a pensare con la propria testa.

Rodari ci diceva che il bambino deve apprender con gioia, con serenità, che sugli errori di ortografia si possono costruire storie fantastiche. Però è anche vero che per molti bambini la scuola è un luogo dove sedicenti educatori da strapazzo maltrattano e terrorizzano i bambini con punizioni e con umiliazioni. La Convenzione dice invece : "L'istruzione ha come scopo la preparazione del bambino alla vita, in uno spirito di comprensione, pace e tolleranza".

Grande rispetto per i bambini con disabilità, per i quali la Convenzione riconosce il diritto al trattamento, all'istruzione e alle cure speciali.

 



Ovviamente il diritto più importante, che gli stessi bambini riconoscono a se stessi, è il gioco, le attività ludico- ricreative, gli spazi personali in un angolo di casa, per volare con le ali della fantasia nell'isola che non c'è.

Un ruolo fondamentale gioca la famiglia. La Convenzione le riconosce un ruolo primario nell'impegno di prendersi cura del bambino e proteggerlo. E un ruolo importante viene assegnato allo Stato, che deve aiutare le famiglie ad assolvere questi doveri.

"La responsabilità dell'educazione del bambino spetta innanzitutto ai genitori, ma gli Stati devono concedere loro gli aiuti adeguati, assicurando la creazione di Istituzioni che vegliano sul benessere del bambino".

La presenza dei genitori è importante.
Non basta dire che conta la qualità del tempo dedicato, occorre anche una certa quantità di tempo, occorre seguire il percorso dei figli. Purtroppo, dietro la facciata civilizzata, la società di oggi è indifferente ai drammi adolescenziali. Ben vengano piscine, centri sportivi, corsi di lingua, di musica, ma ben vengano anche ore di presenza, di attenzione, di ascolto delle loro problematiche, di dialogo.

Lo psichiatra Robert Coles diceva che " i bambini trascurati oggi, sono bambini che si rivolteranno domani contro il mondo che li ha ignorati".

 

 

Il quarto principio della Convenzione dice appunto:                    

"I bambini hanno diritto ad essere ascoltati, ad essere presi in considerazione per le loro opinioni".

Oggi alcuni studiosi parlano di una svolta culturale in atto: noi possiamo imparare dagli adolescenti, dai giovanissimi di oggi . La generazione Z (zeta), cioè i ragazzi tra i 10 e i 25 anni, è una generazione altruista, crede in se stessa, aspira a costruire un futuro con le sue mani, lotta per i propri diritti e per quelli degli altri, fa volontariato, si prende cura dei problemi sociali e ambientali.

Occorre sensibilizzare l'opinione pubblica. Questo possiamo fare, per sollecitare l'invito della Convenzione: edificare una società più giusta, in cui ogni nuova generazione possa armoniosamente svilupparsi, con la speranza di preparare un futuro migliore per l'umanità.

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giovedì 19 novembre 2020

LA NOTTE DI TARANTO RACCONTATA DA NICOLA GRECO E SILVIA LADDOMADA

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Presentazione di Silvia Laddomada


La notte di Taranto,    una triste pagina di Storia.

L’Italia era entrata in guerra il 10 giugno 1940 accanto alla Germania, contro Francia e Inghilterra.

Fino alla data dell’attacco alla flotta tarantina, non c’era stato nessuno scontro tra le formazioni avverse.

L’obiettivo principale di una guerra navale nel Mediterraneo era quello di dare battaglia ai convogli. Sia gli Inglesi che gli Italiani dovevano evitare che giungessero rifornimenti e rinforzi nei rispettivi territori d’interesse: Africa, Albania ed Egeo per l’Italia, Malta, Alessandria e Grecia per l’Inghilterra.

La città di Taranto era una sede strategica per la Marina Italiana, quindi un chiaro obiettivo per le forze atlantiche.

L’ammiraglio inglese Cunningham conosceva    l’efficienza della flotta italiana, e l’ammiraglio italiano Campioni era consapevole delle capacità e delle risorse inglesi.    Ognuno riteneva che il modo migliore    per ridurre la potenzialità dell’avversario fosse quello di agire di sorpresa.

E così avvenne.

Le navi italiane si trovavano nel porto di Taranto da alcuni giorni, per una visita effettuata da Mussolini alle Forze navali. Erano ormeggiate con sufficiente perizia nel mar Grande: le corazzate Littorio, Giulio Cesare, Cavour, Vittorio Veneto, Doria e Duilio.

I continui rilievi    fotografici, effettuati da ricognitori inglesi fecero dire a Cunninghan che “ i fagiani erano tutti nei loro nidi”.

Fu prima simulato un bombardamento sulle coste sarde e a Cagliari, ma in realtà molte unità aeree si erano dirette verso lo Ionio. Quando erano distanti 300 km da Taranto, alcune formazioni proseguirono verso il Canale d’Otranto, simulando un diverso obiettivo. In realtà fu attaccato un convoglio di 4 mercantili italiani. Le altre formazioni decollarono precipitosamente su Taranto.

La prima incursione alla base navale avvenne alle ore 23, e durò circa 20 minuti. Nella città il sinistro stridulo delle sirene d’allarme fece uscire tutti dalle case, verso i rifugi sotterranei. I razzi degli aerosiluranti inglesi squarciarono il buio della notte. Taranto era illuminata a giorno. Le sagome delle navi erano ben visibili. Fu un susseguirsi di sibili, di scoppi di mitraglia contraeree. Gli aerei inglesi erano comparsi all’improvviso. Poi, alle 23,50 una seconda incursione.

Un triste bilancio: 85 vittime, di cui 35 civili. 581 invece i feriti.

Cessato l’allarme, la gente si riversò sul Lungomare, per cercare i propri cari, molti dei quali imbarcati nelle navi colpite. Molti si prodigarono per aiutare ufficiali e marinai che avevano perso tutto.

Un brutto momento.

Le gloriose navi, ripiegate su un lato, bruciavano tra fiamme altissime. Il 50% della flotta italiana era fuori uso. Solo la prontezza , la perizia, l'abnegazione dei militari a bordo salvarono le navi dall'affondamento.

Furono poi avviati i lavori di recupero, grazie    all'efficienza dell'Arsenale di Taranto. Così le navi    ripresero il mare, con una maggiore audacia, riconosciuta dagli stessi inglesi.

Molte furono le case e gli edifici distrutti dalle bombe.

Dopo quella notte, numerosi tarantini si riversarono nei paesi vicini.

A Crispiano, fin dalle prime del mattino, una processione di tarantini sfollati, profughi, arrivò in paese da via Taranto.

Nel Comune si formò un ufficio adatto per    accogliere questa gente, per istruire le    pratiche e reperire    immobili disabitati, oppure locali delle    case dei crispianesi, per ospitare queste famiglie.

 

Ora Nicola Greco racconterà l'incontro della sua famiglia con

alcuni sfollati.

 

Nicola Greco-Maestro del Lavoro
La guerra era iniziata da poco e l’Arsenale Militare di Taranto divenne uno dei porti più importanti d’Italia adibito a base navale per le navi da guerra, e questo fece sì che divenisse un obiettivo per i bombardamenti inglesi, e infatti, quel tragico 11 novembre del 1940, conosciuto ormai come “La notte di Taranto”, l’Arsenale e il Porto, e tutta la città, subirono un violento bombardamento, con l’affondamento di molte navi della Marina italiana. I tarantini, per paura, iniziarono un massiccio sfollamento, andando via dalla città, naturalmente chi poteva, riversandosi nei paesi limitrofi a Taranto, chi da parenti, e chi da amici. Anche Crispiano ospitò un bel po' di famiglie. E questa è la storia singolare che coinvolse la mia famiglia, mio padre in primis. All’epoca mio padre Michele Greco, detto “A’ Battuglija” lavorava al rinomato “Mulino di Tommaso Cervo e figli”; c’era già la guerra e i tempi non erano dei migliori, ma chi aveva la fortuna di lavorarci, quantomeno, oltre all’esigua paga settimanale, poteva mangiare un pezzo di pane, a quei tempi, divenuto pregiato. Una sera di inizio dicembre, verso le ore 18-19, come sempre mio padre si avviò al Mulino per iniziare a preparare l’impasto per il pane del giorno dopo, salendo via Regina Elena, all’altezza dell’Asilo delle Suore di S. Anna, incontra un gruppo di persone, di cui quattro adulti tra marito e moglie, con cinque bambini, tra piccoli e adolescenti. Erano una parte della famiglia del pescatore Basile, di Taranto vecchia, scappati dalla città per paura del bombardamento. Foto corazzata Cavour Faceva freddo, arrivava la notte, avevano fame, e chiesero a mio padre, se conosceva una dimora per poter trascorrere la notte, e mio padre dispiaciuto da quella situazione precaria, non conoscendo nessuna casa libera, ebbe un’idea, li portò tutti a casa, sempre in via Regina Elena, 41, li ristorò alla meno peggio per quel poco che vi era in casa; da premettere che mia madre Moretti Margherita aveva da pochi giorni partorito mio fratello Peppino. Bene, finito di mangiare qualcosa, ora serviva trovare un posto dove trascorrere la notte. A mio padre venne un’altra idea: adiacente all’ingresso di casa c’era, e c’è tuttora, la scala per andare sul terrazzo, con una ventina di gradini, e propose alla famiglia Basile se accettavano di trascorrere la notte seduti sui gradini. Soluzione che accettarono senza battere ciglio, anche perché al momento non avevano alternative. Pulirono alla meglio i gradini e dopo aver messo per terra della roba, si sistemarono due per ogni gradino, con delle coperte addosso, e lì trascorsero la notte.
Il giorno dopo, verso le 12, mio padre tornato dal lavoro, portò della farina, la quota che gli spettava settimanalmente, la impastò, e fece un tipo di “Pizzicaridd”. Nel frattempo mia madre cucinò dei ceci, e siccome l’olio era poco, prelevò anche quel poco che c’era nella “lampa” di fronte alle foto dei suoi genitori morti, e quindi, cucinato il tutto mangiarono tutti insieme una minestra calda, e da una notte che dovevano stare, non trovando altra sistemazione, rimasero per altri quattro giorni in quella situazione precaria, soprattutto per il dormire e il lavarsi. Comunque, alla fine riuscirono a trovare una casa grotta, in via degli Aranci, vicino al ponte e al cinema-teatro, da pochissimo terminato di costruire. E fu così che questa famiglia iniziò a vivere a Crispiano. Per lavarsi prelevavano con i secchi l’acqua dalla fontana, per mangiare, andavano a comprare qualcosa a contrabbando e qualcosa con la tessera, e quando poteva, mio padre, gli portava del pane o della focaccia, privandosene sempre dalla sua quota parte. Addirittura, con la farina gli faceva anche delle orecchiette, a quei tempi, quel tipo di cibo era raro e prezioso, e se lo potevano permettere in pochi. E così trascorsero quattro-cinque anni. A fine guerra, dei fratelli Basile ne rimase a Crispiano uno solo, con tre figli, due maschi e una femmina, Nino, Benito detto “Muffone” e la donna, di cui non ricordo il nome. E così, pian piano si inserirono nella società di Crispiano, Nino e Benito facevano i pendolari, andando a Taranto a lavorare, sempre nell’ambito del pesce, e la madre e la sorella, a Crispiano, fecero per un periodo la servitù alle signorine Greco di via Roma. Intorno agli anni ‘60, dopo la morte del capo famiglia, la figlia si sposò, Nino rimase a Taranto intraprendendo, con successo, il ruolo di battitore all’asta del pesce, al rientro dei pescherecci a Taranto vecchia; Benito e la madre, con l’aiuto di Nino, aprirono una pescheria a Crispiano, nei pressi della piazza Madonna della Neve. Negli anni a seguire, il rapporto che si creò tra la famiglia Basile e la nostra, andò molto oltre l’amicizia, tra il rispetto e la gratitudine, meglio di parenti stretti. Rapporto che continuò negli anni, con Nino, ultimo della famiglia rimasto in vita, prima che morisse alla fine degli anni ‘90. E tutt’oggi, dei tre figli di Nino, solo uno continua la tradizione della famiglia nell’ambito del pesce, e ha una magnifica pescheria a Taranto vecchia, girando a destra del ponte di pietra, di fronte al ristorante “Il Gambero”. La cosa bella è che ancora oggi tra me e lui quel rapporto di amicizia e di rispetto vero è rimasto immutato.                                         N. G.

                                                  “u’ zij, u’ zij”

Silvia Laddomada racconta: “Un mio prozio, Vitantonio Tagliente, la sera dell’11 novembre, tornava dai mercati ortofrutticoli di Taranto, col biroccio. Colto di sorpresa dai bombardamenti, riuscì miracolosamente a salvarsi; ricordando quella serata, raccontava con brividi, che durante il ritorno di corsa a Crispiano, schivando le bombe, che cadevano fortunatamente, dietro di lui, era inseguito da gente terrorizzata che chiedeva, urlando “u’ zij, u’ zij”, di salvarsi salendo sul biroccio. Pur dispiaciuto, prevaleva l’istinto di sopravvivenza e il bisogno di controllare il cavallo imbizzarrito. La mattina dopo, una moltitudine di gente, una “processione”, si riversò su Crispiano, passando proprio davanti al cancello di casa sua, alla masseria Alezza. Moltissimi tarantini furono accolti da famiglie crispianesi, che mettevano a disposizione, per ordine del Podestà, locali o case sfitte nel paese. I miei nonni, Giuseppe Greco e Addolorata Tagliente, abitavano nella casa colonica in via Taranto, sempre in contrada Alezza, e nei periodi più pericolosi si trasferivano nella loro abitazione di via De Lucrezis, in paese. Anch’essi ospitarono una famiglia di Taranto, in alcune stanze di questa abitazione. Col tempo sono diventati amici e la figlia Esterina è poi rimasta a Crispiano, sposando un crispianese”.

I miei nonni raccontavano anche che nel Villino Pavone, di fronte alla masseria Alezza era presente una guarnigione inglese, le cui tracce sono ancora oggi visibili nelle foto delle cantine del Villino, scattate nell’ambito del progetto “Le cento masserie”. La loro presenza era una sicurezza, soprattutto dalle incursioni di soldati sbandati che si aggiravano nelle campagne. I loro Comandanti spesso chiacchieravano, in inglese-italiano sgangherato, con i nonni e offrivano qualche volta delle saponette o cioccolato, ricevendo in cambio prodotti alimentari nostrani. Una cordialità reciproca che alleggeriva il triste periodo.  

                                                                                                                 S. L.


 









 

 

 

 

L'argomento di questa sera aveva il suo fascino anche per chi non era ancora nato
Suggestivo Il racconto di vita vissuta fatto da Nicola Greco 👏
Tant'è che mi ha riportato alla mente il racconto che faceva mio nonno di un episodio di quella notte...
Sempre dovuto al bombardamento di Taranto,  uno dei palloni frenati,  si staccò dal porto e spinto via dal vento approdò esattamente nell'aia della Masseria dove si trovava mio nonno e la sua famiglia.
Ebbene,  finché è vissuto il nonno, ha continuato a raccontare che, dalla seta interna di quel pallone,  furono confezionati, successivamente,  ben due meravigliosi abiti da sposa...
La memoria di alcuni episodi va sempre custodita gelosamente😉
Grazie e buona serata a voi tutti🙋‍♀️ LILIANA MARANGI

Durante la guerra, in vico Pontano, dove abitavano mia nonna Carmela Locorotondo e i suoi fratelli furono ospitati degli sfollati, mi sembra una famiglia numerosa. Vivevano in una stanza della casa di uno zio. Le abitazioni avevano in quell'epoca al massimo due stanze ed un cucinino esterno. Ho ricordi frammentari dei  racconti  di mia nonna ma di sicuro  si stabilì un legame forte fra loro ed una vita di condivisione. Mia madre ragazzina teneva spesso i loro bambini in braccio, lo raccontava perché contrasse la scabbia. Non si sono più rincontrati una volta che gli sfollati sono rientrati a Taranto. Nel 2002, negli ultimi giorni in cui la nonna novantenne ha abitato da sola nella sua casa perché ormai quasi cieca, ha ricevuto una visita. Una donna anziana  le ha chiesto: sai chi sono?  Dopo circa sessant'anni ha riconosciuto la voce, il modo di parlare di una delle persone sfollate.  Ha risposto  "Rosa!" attribuendo però la voce per sbaglio a quella della sorella più anziana che era deceduta. Mia nonna nel vico Pontano era l'unica  ancora in vita che la donna ha potuto incontrare fra i fratelli. Un momento di grande emozione che mi sembrava giusto condividere. 

                                                                                    Francesca DE LUCREZIS

 Vi voglio scrivere una storia che mi raccontavano i miei nonni. In quel tempo, quando gli sfollati tarantini cercavano rifugio a Crispiano, i miei nonni  ospitarono una famiglia. Lui era il capo officina di mio nonno che lavorava all'arsenale di Taranto. Avendo la casa due piani, vennero sistemati nelle stanze del piano superiore, diedero loro la stanza da letto, li fecero dormire sui materassi di crine (i miei nonni si arrangiarono alla meglio nel sottano) e condividevano i pasti: i legumi, le fave bianche...i cibi che venivano consumati in quei tempi e forse la gente di paese se la passava meglio di quella che abitava in città.
Passato un po' di tempo, ritornarono a Taranto.
Mia nonna ripulì la casa da cima a fondo ma...si accorse che gli ospiti avevano lasciato degli ospiti fastidiosi. Le dissero di accendere lo zolfo vicino ai materassi così sarebbero morte le cimici. Così fece e andò nel giardino a raccogliere il caffè selvatico.
Ma mia nonna mise il tegamino di alluminio troppo vicino ai materassi e questo si incendiò. Difronte alla casa alloggiavano i soldati che si accorsero del fumo che fuoriusciva dalle porte che davano sul balcone del primo piano. Gridarono al fuoco, con un salto attraversarono il vallone e, miracolosamente spensero il fuoco ma i mobili della camera da letto si bruciarono insieme con i materassi e le cimici!
Mia nonna aveva 38 anni e da allora iniziarono per lei i problemi di salute! 

                                                                                                Anna LEO

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mercoledì 11 novembre 2020

Gianni Rodari, «giocoliere della parola»

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RELAZIONE DI SILVIA LADDOMADA 


Parliamo di uno scrittore per ragazzi. Gianni Rodari, un genio assoluto della fantasia, un inventore di favole, di filastrocche, di giochi di parole.

Ricorre quest'anno, esattamente il 23 ottobre scorso, il centenario della nascita.

Originario di Omegna, sul lago d'Orta (Piemonte), Rodari é stato uno scrittore, un giornalista, un pedagogista, un poeta.

L'unico scrittore italiano che ha vinto il prestigioso premio Hans Cristian Andersen, riconoscimento dovuto agli scrittori per l'infanzia.

Rodari era convinto che scrivere fiabe fosse un lavoro utile, oltre che divertente. Era convinto che anche raccontando favole allegre, si potesse parlare di cose serie.

«Credo che le fiabe , quelle vecchie, e quelle nuove, possano contribuire a educare la mente. La fiaba aiuta il bambino a conoscere il mondo».

«Ma dove stanno le favole? - diceva Rodari - Ce n'è una in ogni cosa, nel legno del tavolino, nel bicchiere, nella rosa».

Rodari amava incontrare i bambini a scuola, li coinvolgeva in piccoli esperimenti linguistici e letterari, li invitava a usare l'immaginazione.

Ricorreva a vari meccanismi per giocare con le parole. Era «un giocoliere della parola».

Uno di questi meccanismi era «il binomio fantastico»: accostava due parole che non avevano niente in comune e inventava storie senza capo né coda, storie senza senso, ma che facevano ridere e mettevano in moto la fantasia.


Leggiamo «Filastrocca corta e matta»

                                                                            

                                                                Filastrocca corta e matta:
                                                                il porto vuole sposare la porta;
                                                                la viola studia il violino;
                                                                il mulo dice: “Mio figlio è il mulino”;
                                                                la mela dice: “Mio nonno è il melone”;
                                                                il matto vuole essere un mattone.                                                   E il più matto della terra                                                    sapete che vuole?
                                                                Fare la guerra!



Un altro meccanismo era «l'ipotesi fantastica», cioè immaginare «che cosa succederebbe se» , se il mondo girasse al contrario, per esempio; come avviene in molte storie di Rodari.


Egli usa un linguaggio a misura di bambino, ma si rivolge agli adulti. Racconta storielle divertenti, fantasiose. Personaggi bizzarri, situazioni esilaranti. Un brulichìo di uomini, animali, cose, che incuriosiscono, fanno sorridere, educano. E' il trionfo dell'immaginazione, il cui potere, però, non é mai separato dalla voglia di conoscere il mondo, per cambiarlo e renderlo migliore. In ogni storia c'è un messaggio, o di pace, o di fratellanza, o di collaborazione, o di giustizia sociale.


Leggiamo la «Storia universale».


In principio la Terra era tutta sbagliata,
renderla più abitabile fu una bella faticata.
Per passare i fiumi non c’erano ponti.
Non c’erano sentieri per salire sui monti.

Ti volevi sedere?
Neanche l’ombra di un panchetto.
Cascavi dal sonno?
Non esisteva il letto.

Per non pungersi i piedi, né scarpe né stivali.
Se ci vedevi poco non trovavi gli occhiali.
Per fare una partita non c’erano palloni:
mancava la pentola e il fuoco per cuocere i maccheroni.

Anzi a guardare bene mancava anche la pasta.
Non c’era nulla di niente.
Zero via zero, e basta.

C’erano solo gli uomini, con due braccia per lavorare
e agli errori più grossi si poté rimediare.
Da correggere, però, ne restano ancora tanti:
rimboccatevi le maniche, c’è lavoro per tutti quanti.


Pochissime parole per raccontare la storia del mondo e incitare ogni uomo a svolgere il proprio ruolo sulla Terra.

Rodari si definiva un filastroccaro, amava scrivere le filastrocche.

Questi componimenti che piacciono ai bambini e non solo, attirano per il gioco delle rime, per la musicalità particolare.


Leggiamo «I colori dei mestieri».

 

Io so i colori dei mestieri:
sono bianchi i panettieri,
s’alzan prima degli uccelli
e han la farina nei capelli;
sono neri gli spazzacamini,
di sette colori son gli imbianchini;
gli operai dell’officina
hanno una bella tuta azzurrina,
hanno le mani sporche di grasso:
i fannulloni vanno a spasso,
non si sporcano nemmeno un dito,
ma il loro mestiere non è pulito.


C'è anche «Gli odori dei mestieri».


Io so gli odori dei mestieri:
di noce moscata sanno i droghieri;
sa d’olio la tuta dell’operaio;
di farina il fornaio;
sanno di terra i contadini;
di vernice gli imbianchini;
sul camice bianco del dottore
di medicine c’è un buon odore.

I fannulloni, strano però,
non sanno di nulla e puzzano un po’.


Semplici parole per allargare lo sguardo sui tanti mestieri, ognuno dei quali ha una sua dignità, ognuno deve portare il suo contributo, affinché le cose funzionino meglio.


Nel«Libro degli errori» Rodari si diverte a individuare gli errori di ortografia e gioca con gli errori, perché essi fanno cambiare il senso della comunicazione: un accento sbagliato, un apostrofo in più o in meno, danno l'opportunità di inventare delle storie stravaganti..

Ma, attenzione, dice Rodari, il mondo sarebbe bellissimo se fossero solo i bambini a fare errori, bisogna anche correggere gli errori del mondo, che oggi sono sempre più frequenti.


Leggiamo «Il paese senza errori».


 

C’era una volta un uomo che andava per terra e per mare
in cerca del Paese Senza Errori.
Cammina e cammina, non faceva che camminare,
paesi ne vedeva di tutti i colori,
di lunghi, di larghi, di freddi, di caldi,
di così così:
e se trovava un errore là, ne trovava due qui.
Scoperto l’errore, ripigliava il fagotto
e ripartiva in quattro e quattr’otto.

C’erano paesi senza acqua,
paesi senza vino,
paesi senza paesi, perfino,
ma il Paese Senza Errori dove stava, dove stava?

Voi direte: Era un brav’uomo. Uno che cercava
una bella cosa. Scusate, però,
non era meglio se si fermava
in un posto qualunque,
e di tutti quegli errori
ne correggeva un po’?


Rodari ritiene anche che la fantasia, l'immaginazione, la creatività siano alla base dello sviluppo sociale, culturale e scientifico dell'umanità.

Bisogna essere capaci di allontanarsi dal pensiero comune, bisogna saper costruire un pensiero autonomo, bisogna scommettere sulle idee nuove, bisogna avere idee nuove. Per questo molto spesso Rodari contrappone alla fiaba tradizionale una divergenza, una visione opposta. «Chiedo scusa alla favola antica, se non mi piace l'avara formica. Io sto dalla parte della cicala, che il più bel canto non vende...regala!»


Leggiamo la favola del «Giovane gambero».

 

Un giovane gambero pensò: “Perchè nella mia famiglia tutti camminano all’indietro? Voglio imparare a camminare in avanti, come le rane, e mi caschi la coda se non ci riesco”.

Cominciò ad esercitarsi di nascosto, tra i sassi del ruscello natio, e i primi giorni l’impresa gli costava moltissima fatica. Urtava dappertutto, si ammaccava la corazza e si schiacciava una zampa con l’altra. Ma un po’ alla volta le cose andarono meglio, perchè tutto si può imparare, se si vuole.

Quando fu ben sicuro di sé, si presentò alla sua famiglia e disse:
“State a vedere”.
E fece una magnifica corsetta in avanti.

Figlio mio”, scoppiò a piangere la madre, “ti ha dato di volta il cervello? Torna in te, cammina come tuo padre e tua madre ti hanno insegnato, cammina come i tuoi fratelli che ti vogliono tanto bene”.

I suoi fratelli però non facevano che sghignazzare.
Il padre lo stette a guardare severamente per un pezzo, poi disse: “Basta così. Se vuoi restare con noi, cammina come gli altri gamberi. Se vuoi fare di testa tua, il ruscello è grande: vattene e non tornare più indietro”.

Il bravo gamberetto voleva bene ai suoi, ma era troppo sicuro di essere nel giusto per avere dei dubbi: abbracciò la madre, salutò il padre e i fratelli e si avviò per il mondo.

Il suo passaggio destò subito la sorpresa di un crocchio di rane che da brave comari si erano radunate a far quattro chiacchiere intorno a una foglia di ninfea.

Il mondo va a rovescio”, disse una rana,, “guardate quel gambero e datemi torto, se potete”.
“Non c’è più rispetto”, disse un’altra rana.
“Ohibò, ohibò”, disse una terza.

Ma il gamberetto proseguì diritto, è proprio il caso di dirlo, per la sua strada. A un certo punto si sentì chiamare da un vecchio gamberone dall’espressione malinconica che se ne stava tutto solo accanto a un sasso.

Buon giorno”, disse il giovane gambero.
Il vecchio lo osservò a lungo, poi disse: “Cosa credi di fare? Anch’io, quando ero giovane, pensavo di insegnare ai gamberi a camminare in avanti. Ed ecco che cosa ci ho guadagnato: vivo tutto solo, e la gente si mozzerebbe la lingua piuttosto che rivolgermi la parola. Fin che sei in tempo, dà retta a me: rassegnati a fare come gli altri e un giorno mi ringrazierai del consiglio”.

Il giovane gambero non sapeva cosa rispondere e stette zitto. Ma dentro di sé pensava: “Ho ragione io”.

E salutato gentilmente il vecchio riprese fieramente il suo cammino.
Andrà lontano? Farà fortuna? Raddrizzerà tutte le cose storte di questo mondo? Noi non lo sappiamo, perchè egli sta ancora marciando con il coraggio e la decisione del primo giorno.

Possiamo solo augurargli, di tutto cuore: “Buon viaggio!”.



Essa esprime l'irruenza e l'entusiasmo, della giovinezza, in cui Rodari vedeva l'unica salvezza dell'umanità.


La scrittrice Carla Ida Salviati, in una conversazione su Rodari, diceva che la favola, secondo lo scrittore, é uno strumento ideale di cui i bambini si servono per trattenere a sè l'adulto. La mamma è sempre impegnata, il papà appare e scompare secondo un ritmo misterioso. E' difficile afferrare la loro attenzione. Ma quando i bambini chiedono di leggere una favola prima di addormentarsi, la mamma è là. Dopo la prima e la seconda favola, il bimbo chiede di leggere ancora, perché desidera prolungare la piacevole situazione di avere vicino la mamma e, a volte, il papà. E mentre scorre tranquillo il fiume della favola, il bimbo, che la conosce, si può distrarre. Mentre tiene sotto controllo il normale svolgimento delle vicende, il bimbo studia la madre, il suo viso, i suoi occhi, la sua voce, e questo lo conforta, lo rilassa.

Lo sapevate?

Concludo con un invito rivolto a tutti noi da Rodari: «Di imparare non si finisce mai, e quel che non si sa, è sempre più importante di quello che si sa già».

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