martedì 6 dicembre 2022

REDDITO DI CITTADINANZA: UNA MISURA CONTRO LA POVERTA'

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RELATORE: GIANPAOLO ANNESE

Reddito di cittadinanza sì, Reddito di cittadinanza no: cerchiamo di capire davvero cos’è questo strumento, a cosa dovrebbe servire. Il contesto da cui è nata la proposta che i 5 stelle hanno chiamato Reddito di cittadinanza e il Partito democratico qualche anno prima aveva chiamato Reddito di inclusione. Strumenti diversi ma con un unico obiettivo: provare a alzare una diga contro la povertà, chiudere almeno in parte la forbice che si sta sempre di più allargando tra chi è benestante e chi è povero, e provare a fronteggiare la cosiddetta ‘disoccupazione tecnologica’ che al momento è bassa ma che potrebbe esplodere in futuro. Proviamo a capire cosa in Italia si intende per reddito di cittadinanza, cosa più in generale è il reddito di cittadinanza, i motivi per cui a mio modo di vedere è necessario (“Bankitalia ha detto che senza questo sostegno avremmo un milione di poveri in più rispetto ai 5,6 milioni che già ci sono”), le ragioni per cui in Italia suscita critiche, come si potrebbe migliorarlo e in prospettiva, con la diffusione delle tecnologie e dei robot, valutare se c’è il rischio che molte persone rimangano senza occupazione e per vivere avranno bisogno di comunque un reddito per vivere dignitosamente anche se non lavorano non per responsabilità proprie.

Quadro economico italiano

Intanto inquadriamo il contesto socio-economico italiano. Prima del 2007 le 10 famiglie italiane più ricche possedevano una ricchezza pari a 3,5 milioni di famiglie povere, dopo 10 anni quelle stesse famiglie disponevano della ricchezza di 6 milioni di famiglie povere. Quindi la forbice tra chi è ricco e chi è povero si sta allargando. Secondo l’Eurostat in Italia nel 1910 era a rischio povertà un italiano su 4, oggi un italiano su 3. Fino agli anni ‘80 la società si impegnava a far uscire dalla povertà il maggior numero di persone attraverso misure di sostegno, creando opportunità. Negli ultimi 30 anni, dagli anni 80 in poi il vento è cambiato: oggi è molto in voga la colpevolizzazione dei poveri, la convinzione che tutto sommato chi è povero fondamentalmente lo è solo per suoi demeriti, globalizzando la circolazione delle merci avrebbe aperto maggiori opportunità per tutti. Ai più ricchi questo modo di pensare fa piacere naturalmente, è una convinzione che ha conquistato l’egemonia e che attecchisce perché ci rassicura dal punto di vista psicologico: tutti noi vogliamo vivere in armonia e quindi quando ci troviamo di fronte a un’ingiustizia che non comprendiamo, per non turbare il nostro equilibrio psichico, ci auto-convinciamo che tutto sommato la vittima se lo è meritato per qualche ragione (negazione o rimozione) alimentando l’ideologia meritocratica. E il punto è che questo auto-convincimento l’hanno interiorizzato anche le vittime, i poveri, che quindi vivono strazianti sensi di colpa e non si ribellano. Oggi visto che si parla molto di merito proveremo ad introdurre anche il concetto invece di ereditarietà: in Italia e nella maggior parte del mondo oggi chi nasce in una famiglia benestante ha più probabilità di esserlo nel corso della sua vita. Allo stesso modo chi nasce in una famiglia povera rischia di rimanere povero. Si è rotto cioè l’ascensore sociale, quello che ha consentito a una generazione (tra i 60 e gli 80 anni) figli e nipoti di contadini, di affermarsi in ambiti professionali diversi, percepire redditi soddisfacenti, beneficiare dell’allungamento della vita. Questo stato di benessere è durato una trentina d’anni, dagli anni 50 agli inizi degli anni 80, quando l’avvento di Reagan negli Stati Uniti e di Margarteh Tatcher in Inghilterra ha dato volto alla reazione di una classe economica che si era un po’ stufata di concedere tutti questi diritti: si è cominciato a parlare più di affermazione individuale che sociale, si è tagliata la spesa sociale che tutelava i più deboli dicendo fondamentale che ciascuno doveva cavarsela da solo sulla base del suo (presunto) talento, si sono diminuite le tasse ai redditi più alti, anche a quelli molto ma molto alti, si è pensato che globalizzando la circolazione delle merci avrebbe aperto prospettive per tutti. I diritti dei lavoratori in parallelo si sono progressivamente assottigliati, fino ad arrivare ad oggi quando è stato di fatto abolito l’articolo 18, protezione contro i licenziamenti. Ci siamo tutti impoveriti tutti con l’economia dei lavoretti, i rider che portano a casa il sushi o fare il telefonista per vendere il wi-fi. Anche la globalizzazione ha sicuramente arricchito alcune fasce della popolazione, ma messo in competizione i lavoratori tra loro per contendersi stipendi sempre più al ribasso: non sono stati attivati meccanismi di protezione per chi veniva schiacciato.

Nel Mezzogiorno in particolare il tasso di occupazione è crollato under 35 è crollato di oltre dieci punti dal 2008, passando dal 50 per cento al 38 per cento, nella fascia 15-34 anni il tasso di occupazione è al 28 per cento, un dato senza precedenti in Europa. Tra l’altro il lavoro si passa dall’industria ai servizi di bassa qualità, poche tutele e stipendi miseri, peggiorata la qualità dei contratti.

C’è una certa retorica sulla possibilità che sia sufficiente darsi da fare per salire di status, ma è comprovato che il passaggio di classe è piuttosto difficile. Dall’altra parte chi vive in una situazione privilegiata pensa invece di meritarla e e crede che la società sia tutto sommato giusta così. Invece solo una piccola frazione di quello che siamo o che abbiamo dipende dai nostri meriti. La maggior parte la dobbiamo al posto in cui siamo nati: pensate a quanto può essere importante disporre di buone scuole, strade, mezzi pubblici, servizio sociale e sanitario universale, sicurezza, wi-fi. Chi ha frequentato l’asilo nido è più avvantaggiato di chi non lo ha frequentato, nascere al Sud o al Nord può fare la differenza nascere in una famiglia con persone istruite e un capitale di conoscenze fa la differenza, nascere in una famiglia con libri in casa fa la differenza, nascere in una città o in un paese fa la differenza, nascere in montagna o in pianura fa la differenza.

Cos’è il reddito di cittadinanza

Il reddito di cittadinanza introdotto nella primavera del 2019 dovrebbe essere un sussidio per evitare a chi resta senza lavoro di scivolare nella povertà. Nel decreto che lo ha istituito si parla di “misura di politica attiva del lavoro” e “di contrasto alla povertà”: si è posta molto l’enfasi sul lavoro, alintantanndo false aspettative, e poco sul fatto che il Rdc ha ottenuto significativi risultati sul secondo obiettivo, vale a dire il contrasto alla povertà.

Quello che è in Italia è stato chiamato Reddito di cittadinanza è in realtà un reddito di inclusione, direi quasi un sussidio di disoccupazione perché per essere erogato si devono avere dei criteri specifici. In realtà per capire davvero cos’è il reddito di cittadinanza bisogna fare un salto mentale radicale, se rimaniamo a metà rischiamo di non capirlo. Il reddito di cittadinanza è una somma che viene data a una persona per il fatto stesso che è al mondo, che esiste, al di là del lavoro che svolge o meno. Se non facciamo questo salto rischiamo di non comprendere fino in fondo di cosa stiamo parlando. Gli stessi promotori, il M5s a mio avviso pur di farlo approvare sono caduti nella trappola di legare il rdc all’inserimento lavorativo. Ma così hanno snaturato il senso di una proposta che nel resto d’Europa esiste da anni e che fa salire l’Italia di un gradino nella civiltà. Con questo non voglio dire che chi ha il reddito non debba più lavorare nella sua vita, ma intendo che se vogliamo parlare di reddito di cittadinanza non ha senso abbinarlo in automatico al lavoro. Non per stravaganza, ma perché più della metà di chi percepisce il reddito di cittadinanza attualmente in Italia non è in grado di lavorare: si tratta di invalidi che non hanno una pensione sufficiente, chi ha figli minori, pensionati in difficoltà.

Chi percepisce il reddito di cittadinanza?

Dati Inps. Dei 3,6 milioni di persone che lo percepiscono, 200mila sono pensionati poveri. Sono 833mila le persone davvero occupabili, una parte di loro lavora ma non ha un reddito sufficiente al sostentamento, chi non lavora sono 660mila. Ma chi sono questi 660mila? L’8 per cento è over 60, il 20, 5% ha trai 50 e i 59 anni, in 200mila lavorano ma prendono stipendi da fame. Restano 472 mila persone, quasi la metà è stata presa in carico dai centri per l’impiego, alcuni sono in tirocinio, ma i due terzi, il 72 per cento è lontano dal lavoro da oltre tre anni: senza qualifiche e con bassi titolo di studio: quindi hai voglia a parlare di proposte di lavoro ‘congrue’. Due terzi sono al Sud. Persone che pur non essendo invalide hanno però problemi psico-fisici e per questo rimangono ai margini del mercato del lavoro. Quando si dice che il rdc disincentiva al lavoro bisogna tenere presente che molte famiglie sono povere anche quando lavorano perché gli stipendi sono miseri oppure lavorano saltuariamente. La circostanza del 20enne che sta sul divano è una mistificazione: i 20enni sono un’assoluta minoranza. In più bisogna considerare che in Italia trovare lavoro dopo che lo si è perso è piuttosto complicato: in Italia i disoccupati da più di un anno sono il 58% del totale, in Francia e Germania intorno ai 40, nel Sud Italia l’80 per cento.

In generale comunque va detto che la misura sta funzionando, seppure parzialmente anche sul fronte occupazionale: rispetto al totale dei beneficiari transitati dai centri per l’impiego tra il 2019 e il 2021 sono un milione e 808mila (su 4 milioni e 65mila percettori), 178mila lo avevano già un lavoro, altri 547mila lo hanno trovato successivamente. E lo hanno anche cambiato: in tutto sono stati più di un milione e mezzo i rapporto di lavoro movimentati.

Come ottenere il reddito di cittadinanza

Per ottenere il Rdc il criterio non è essere disoccupati, ma non avere risorse sufficienti per vivere dignitosamente. Cosa vuol dire vivere dignitosamente? Avere un’abitazione, un’alimentazione sufficiente, la possibilità di vestirsi e di muoversi.

In Italia il lavoratore, il nucleo familiare deva avere un Isee inferiore ai 9.360 euro, è tenuto a presentarsi regolarmente al Centro per l’impiego e non può rifiutare più di due proposte congrue. Nei primi 9 mesi del 2022 il reddito riguarda un milione 600mila famiglie e tre milioni e 600 mila persone. Una mole mastodontica costosa che sfugge al controllo e che soprattutto impiega tantissime risorse economiche: alcuni economisti stanno riflettendo sul paradosso che estendendo il reddito di cittadinanza a tutti i disoccupati, senza criteri di reddito si arriverebbe a semplificare le cose e a rendere meno costoso il tutto.

La spesa varia tra i 15 e i 29 miliardi di euro.

Chi ne ha diritto percepisce un assegno di un massimo di 780 euro mensili, cifra più bassa se ha ha già un reddito (se guadagna 500 euro al mese ne riceve solo 280 euro), un genitore con un figlio a carico minore 1.014 euro, 1.638 per una coppia con due figli minori senza reddito. Le famiglie numerose ricevono di più. Per esempio famiglie con tre minorenni possono arriva a 1.872 euro mensili.

Dove prendere le risorse?

La domanda dovrebbe essere: può l’Italia con un bilancio di 1000 miliardi di euro permettersi di avere un povero su 10 e uno su quattro a rischio povertà? Basta la volontà politica: si sono trovate risorse per quota 100, per i condoni fiscali, per allargare il forfait delle partite Iva, per gli 80 euro, per ridurre la progressività fiscale.

Senza contare i soldi che si risparmierebbero debellando la povertà: malattie, carcere, alcolismo, per i quali esiste una correlazione. Inoltre la misura aumenta i consumi, quindi l’occupazione.

E va anche detto che i sussidi esistono da sempre, si spendono 16 miliardi per invalidità e accompagnamento. In Italia nel 2015 si sono spesi 28 miliardi in politiche del lavoro: 7 miliardi per promuovere la ricerca di un’occupazione, 21 miliardi sono sussidi ai disoccupati.

Come vuole cambiarlo questo governo

Adesso il nuovo governo non pensa di abolirlo, ma ha proposto una stretta sul rdc: dal 2023 sarà tolto agli occupabili (quindi dai 18 ai 59 anni, senza figli minori, disabili o anziani nel nucleo familiare), per i quali varrà solo per i primi otto mesi durante i quali verranno attivati corsi di formazione: chi non li segue perde l’assegno. A una parte dei beneficiari, 70mila, sarà consentito di lavorare con contratti stagionali fino a tremila euro di importo: questo per rispondere alle esigenze delle imprese del turismo e della ristorazione in estate.

Inoltre si perderà il sussidio anche se si rifiuterà una sola proposta di lavoro congrua e tutti i percettori saranno chiamati a svolgere progetti cosiddetti utili per la collettività.

Dal 2024 la normativa invece sarà riformata del tutto, ma non è ancora chiaro come, con un sussidio di povertà affidato ai Comuni.

I motivi per cui è necessario

Sono sostanzialmente due i motivi per cui a mio modo di vedere il reddito di cittadinanza è necessario:

1) la prima è che dal 2008 la crisi ha colpito in modo diseguale, così come per esempio il periodo covid: gli autonomi sono stati più colpiti rispetto ai dipendenti, i pensionandi rispetto ai pensionati, i giovani rispetto agli anziani, le donne rispetto agli uomini. Il reddito totale delle famiglie più abbienti è stato 5,8 volte quello delle famiglie più povere: grazie al rdc questo divario è sceso: se non ci fosse il reddito l’Istat calcola che si sarebbe arrivati a 6,9. Di recente poi durante la pandemia il rdc ha avuto un ruolo chiave: tra il 2020 e il 21 ha raggiunto 1,3 milioni di famiglie, il 5,3 per cento del totale, sostenendo i nuclei più poveri.

Il reddito inoltre allontana da logiche clientelari: cooperative nate per percepire la disoccupazione, corsa alle false invalidità, finti braccianti.

Anche Russell nell’elogio dell’ozio sostiene un reddito di base, introducendo due concetti molto importanti in questa riflessione:

a) il primo è che nel momento in cui la responsabilità di avere tutti i mesi uno stipendio non è più un assillo nella maggior parte dei casi le persone sono motivate a trovare comunque un ruolo nella società mettendosi a disposizione attraverso il lavoro (piramide di Maslow). La psicologia lo chiama ‘effetto tunnel’: chi è in una condizione di scarsità finisce con il fare scelte poco lucide perché la privazione riduce la capacità cognitiva, sono costretti a pensare solo a cosa poter mettere nella pancia oggi perdendo così ogni progettualità: quindi le persone non sono povere perché non sono capaci, diventano incapaci perché sono povere. Nel 2009 a Londra è stato fatto un esperimento: a 13 senzatetto sono state date 3mila sterline senza chiedere nulla in cambio. Dopo un anno si erano ripuliti, avevano cercato e trovato un lavoro, avevano un testo sopra la testa. L’Economist arrivò a dire che “la maniera più efficiente di spendere i soldi per i senzatetto e darglieli e basta”. Con 50mila sterline si era risolto il problema che richiedeva centinai di migliaia di sterline.

b) il reddito di cittadinanza non è un atto di carità delle classi elevate verso le classi più deboli ma per restituire la libertà a chi ne è stato privato da un ordine sociale che non ha contribuito a definire.

Come si potrebbe migliorare il reddito di cittadinanza

Uno degli elementi da introdurre nel dibattito è che il reddito deve sostituire e non integrare gli altri sussidi.

a) Bisognerebbe creare un meccanismo per cui chi percepisce il reddito di cittadinanza e trova lavoro non deve perdere immediatamente del tutto il sussidio, ma prendere meno per incentivare il lavoratore. Al momento il meccanismo prevede per chi prende il sussidio e viene assunto, per ogni euro percepito si riduce di 80 centesimi, quindi 20 centesimi netti. Un taglio così consistente può incentivare il lavoro nero, bisognerebbe come in altri Paesi europei accrescere la convenienza a lavorare anche mentre si percepisce il sussidio riducendo le decurtazioni in modo che il lavoratore non abbia convenienza a lavorare in nero. In Italia al momento chi viene assunto con un lavoro con più di 780 euro automaticamente perde il reddito, mentre la riduzione dovrebbe essere progressiva. Questo anche per tutelare il lavoratore e impedire che il rdc diventi un sussidio indiretto alle imprese: perché le aziende sapendo che il lavoratore non può rifiutare più di due offerte potrebbe adeguare le condizioni lavorative al ribasso. Ovviamente andrà incrementato il controllo sul lavoro nero.

b) Occorre inoltre diminuire il livello di tassazione marginale, almeno nel periodo iniziale

c) Altro aspetto è che non si considera la famiglia, ma solo il singolo. Persone sole e famiglie piccole con adulti sono favorite, soprattutto se si tiene conto dell’affitto della casa, debolezza dei sistemi di avviamento al lavoro, insufficienti meccanismi per agevolare la ricerca. La misura sbaglia mira. Le famiglie numerose sono penalizzate da un assegno troppo alto per i single (780 euro al mese) e in proporzione troppo basso per chi ha molti figli. Negli aiuti si considera molto il reddito e poco il patrimonio. La soglia di accesso è favorevole a una famiglia di adulti rispetto a una con minorenni.

d) Inoltre la regola che impone l’accettazione del lavoro può avere valore per chi è nelle condizioni di lavorare e risulta ancora appetibile per il mondo del lavoro, ma non costituisce nessun incentivo per chi è fuori dal lavoro da lungo tempo o non ha qualifiche particolari. Altro aspetto e dove ci si trova: se a Crispiano è una cosa, a Trento è un’altra. Inoltre lo stipendio dell’offerta congrua di lavoro deve essere almeno secondo la commissione Saraceno che si occupa del reddito di cittadinanza 858 euro e non inferiore ai tre mesi. Quando si parla di lavori rifiutati bisogna vedere le condizioni, ma le offerte congrue rifiutate sono pochissime, alcune decine.

Un aspetto da considerare è che il take up (cioè l’aggancio) della misura è basso, solo il 40 per cento di quelli che potrebbero riceverlo lo percepisce effettivamente: l’esclusione sociale scoraggia le richieste di aiuti, la vergogna di percepirsi come poveri, la lontananza dai centri che erogano i servizi, le barriere amministrative. Quelli che ne hanno molto bisogno vengono esclusi, perché non hanno documenti e competenze minime per essere inclusi. Il reddito raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti e il solo il 22 % di chi si rivolge ai centri di ascolto Caritas, finisce a persone povere o indigenti. Su 5,6 milioni di poveri, lo prendono in 3,6 milioni. Per rendere più efficace la misura andrebbero coinvolti di più i Comuni.

E i furbetti del reddito di cittadinanza? 

Nel 2021 la Guardia di finanza ne ha scovati 29mila su un totale appunto di un milione 600 mila famiglie e tre milioni e 600mila persone. L’1,8 per cento, una percentuale tutto sommato trascurabile e anche inferiore ad altri tipi di truffe diffuse in Italia quando si tratta di accaparrarsi soldi pubblici.

La disoccupazione tecnologica

La velocità del cambiamento tecnologico ci mette di fronte a nuove sfide: non lasciamoci ingannare dal fatto che al momento robot e umani convivono, non sarà così per sempre: molti lavoratori perderanno il lavoro e occorrerà almeno un po’ di tempo prima di ricollocarsi. L’unico modo nel breve-medio periodo per evitare i licenziamenti sarà accorciare l’orario di lavoro per permettere a tutti di lavorare almeno un po’, si pensi ai contratti di solidarietà.

D’altra parte con il passare del tempo si lavora di meno non di più, producendo però di più: nel 1891 gli italiani erano 40 milioni e lavoravano 70 miliardi di ore, nel 1991 erano 57 milioni e grazie alle norme sul lavoro lavoravano 60 miliardi di ore producendo però 13 volte di più. Oggi siamo 60 milioni e lavoriamo 40 miliardi di ore ma produciamo 600 miliardi di dollari in più. L’agricoltura per esempio nel Medioevo occupava il 65% della forza lavoro, oggi è al 3 per cento: ma si produce di più e meglio grazie alla tecnologie e nuove tecniche di coltivazione. Cioè abbiamo imparato che si può produrre più beni e servizi con meno lavoro umano. Per fare un ulteriore paragone, i tedeschi contrariamente al luogo comune lavorano meno degli italiani ma sono più produttivi grazie a una maggiore capacità manageriale e a un sapiente impiego delle tecnologie: un lavoratore tedesco lavora mediamente 1371 ore l’anno, un italiano 1.725, 354 ore in più con un beneficio sull’occupazione perché la disoccupazione è più bassa.

Con tutta probabilità in futuro le macchine sostituiranno più posti di lavoro di quante ne creeranno e occorrerà prevedere dei corposi sussidi per chi rimane tagliato fuori in attesa, se lo trova, di un nuovo posto di lavoro. Entro il 2025 è stato calcolato che le nuove tecnologie creeranno in Europa 500mila nuovi posti di lavoro, solo che uno studio rivela che il 47 per cento degli attuali mestieri è sostituibile da una macchina (distributore benzina, cassieri, autisti, camerieri, operai semplici, ecc). Il lavoratore licenziato deve mangiare stasera, non fra 5 – 10 anni, quindi nel frattempo, mentre si riqualifica, occorrerà un sussidio per integrare il reddito. Si dirà che bisognerà studiare e adattarsi. Ma non tutti hanno talento, passione e soldi per farlo: una democrazia deve tutelare anche quelli che non hanno talento e i mediocri, chi è nato nella famiglia sbagliata, chi non ha libri in casa, chi rimane indietro. Non siamo più di fronte a famiglie che perdono il lavoro per un periodo e poi lo ritrovano, ma a un cambio di paradigma che comporterà per molti lunghi periodi di adattamento e di disoccupazione. La vecchia cassa integrazione non basta più, bisogna evitare lo scivolamento nella povertà.

Anche perché la perdita massiccia di posti di lavoro è un danno non solo per chi ne è direttamente coinvolto, ma per tutta la società che perde risorse per accrescere l’economia reale. In Italia secondo l’Ocse sono a rischio due milioni e 300mila persone su 23 milioni di lavoratori. Quando il nipote di Henry Ford fece fare al leader sindacale un giro nel nuovo stabilimento automatizzato chiese per scherzo: “Walter, come convincerai questi robot a pagare la quota sindacale?”. Reuther rispose: “Henry, e tu come li convincerai a comprare le tue auto?”.

Ci avviciniamo alla profezia di Keynes per il 2030: tre ore di lavoro al giorno basteranno per aiutare le macchine a produrre tutto ciò che ci occorre, il resto sarà tempo libero, ed è qui che nascono i problemi. Che farne? Potremo dedicarli alla cultura, all’amicizia, agli hobby, “preferiremo il bene all’utile, i gigli del campo che non seminano e non filano”. Un’era in cui la retribuzione sarà sganciata dal lavoro, che diventa davvero reddito di cittadinanza e di esistenza, perché prima di essere lavoratori, siamo cittadini.


Bibliografia

- ‘Il Reddito di cittadinanza – come quando e perché’ di Stefano Feltri

- ‘Il dominio dei Robot’ di Martin Ford

- ‘Il futuro senza lavoro’ di Martin Ford

- ‘Utopia per realisti- come costruire davvero il mondo ideale’ di Rutger Bregman

- ‘Lavorare non basta’ di Marianna Filandri

- ‘Un reddito da cambiare’ – Vittorio Malagutti e Gloria Riva sull’Espresso del 9 ottobre 2022

- ‘Le radici psicologiche della disuguaglianza’ di Chiara Volpato

- ‘Il Lavoro nel XXI secolo’ di Domenico De Masi

- ‘La tirannia del merito’ di Michael Sandel

- ‘Non è lavoro, è sfruttamento’ di Marta Fana

- ‘La lotta di classe dopo la lotta di classe’ di Luciano Gallino

- ‘La maggioranza invisibile’ di Emanuela Ferragina

- Domande e risposte sul reddito di cittadinanza – chiara Saraceno, che fa parte del comitato scientifico sul reddito di cittadinanza sulla Voce.info, portale web economico

- ‘Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta’ di John Maynard Keynes 

 VIDEO: Il reddito di cittadinanza di Gianpaolo Annese

 


 


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