martedì 3 maggio 2022

La Divina Commedia: PURGATORIO - Manfredi (canto III) - Belacqua(canto IV)

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RELAZIONE DI SILVIA LADDOMADA

La Divina Commedia – Purgatorio (canti 3 e 4 )


CONTESTO STORICO

Federico I di Svevia (Federico Barbarossa) eletto imperatore in Germania, nel 1152 volle riaffermare i diritti sovrani nell’Italia settentrionale, che faceva parte dell’ Impero, dove però si erano affermati i Comuni, cioè le grandi città governavano il proprio territorio come se fosse uno stato sovrano, erano delle città stato.

Di fronte alle pretese dell’Imperatore, i Comuni italiani strinsero un’alleanza, la Lega.

La più importante è stata la Lega Lombarda. Le forze della Lega, strette intorno al Carroccio, un grande carro trainato da buoi, adorno di stendardi con in cima il gonfalone del Comune di Milano, riportarono una definitiva vittoria sull’Imperatore, con l’aiuto del papa e dei Normanni, a Legnano nel 1176.

Quindi l’Imperatore riconobbe l’autonomia dei Comuni.

Lo Stato pontificio si estendeva al Centro dell’Italia dal Tirreno all’Adriatico; comprendeva parte dell’Emilia, le Marche, l’Umbria, il Lazio.

Tutto il resto dell’Italia compresa la Sicilia, formava il regno di Sicilia, con capitale Palermo. Qui dominavano i Normanni, provenienti dalla Francia settentrionale, la Normandia, fin dal 1130.

Barbarossa però, prima di morire, aveva combinato un lungimirante matrimonio tra il figlio Enrico VI e l’ultima erede dei Normanni, Costanza d’Altavilla.

Enrico VI dopo sanguinose lotte con altri pretendenti al regno di Sicilia, fu incoronato nel 1194 re dell’Italia meridionale.

Purtroppo morì all’improvviso e dopo un anno morì anche la moglie Costanza. Erede del regno rimase il figlio Federico II, di appena 4 anni. L’imperatrice per garantire la successione lo aveva affidato alla tutela del pontefice Innocenzo III.

Raggiunta la maggiore età Federico II avviò una politica di sviluppo ed espansione politica, economica e culturale in Italia meridionale, ma il successore, Manfredi, figlio naturale di Federico II fu sconfitto da Carlo d’Angiò e così il Sud passò nelle mani degli Angioini di Francia, che spostarono la capitale a Napoli.

Il rapporto con i siciliani divenne difficile, per cui in Sicilia intervennero gli Aragonesi di Spagna; Pietro III d’Aragona sposò Costanza, figlia di Manfredi e divenne re di Sicilia.

Canto 3° 

Dante e Virgilio hanno lasciato il gruppo di Casella, da cui si erano lasciati trasportare, conquistati dalla melodia e dalla dolcezza del canto, bruscamente interrotto da Catone.

Catone, custode del Purgatorio, uomo giusto e virtuoso , amante della libertà morale, aveva infatti richiamato tutti al dovere della purificazione. Quindi anche i due poeti cominciano la faticosa salita verso il Purgatorio.

Non vedendo l’ombra di Virgilio proiettata sul pavimento, Dante si spaventa, pensando che il maestro non ci sia. Virgilio gli spiega che i defunti, nell’aldilà sono incorporei, anche se possono “sofferire tormenti, caldi, geli”. In che modo ciò accada, è un mistero. Bisogna affidarsi alla misericordia divina e non presumere che l’ingegno umano possa comprendere il mistero.

(canto 3, vv. 34-45)

Matto è chi spera che nostra ragione 
possa trascorrer la infinita via 
che tiene una sustanza in tre persone.

                       
State contenti, umana gente, al quia
ché se potuto aveste veder tutto, 
mestier non era parturir Maria;

                                      
e disiar vedeste sanza frutto 
tai che sarebbe lor disio quetato, 
ch’etternalmente è dato lor per lutto:                            

io dico d’Aristotile e di Plato 
e di molt’altri»; e qui chinò la fronte, 
e più non disse, e rimase turbato.                

Gli uomini si accontentino di sapere “che” le cose esistono e non presumano di conoscere “perché “ esistono. Se le menti umane fossero state perfette, non sarebbe stato necessario che Maria partorisse, non sarebbe stata necessaria l’Incarnazione di Cristo e la sua Rivelazione. E avete visto grandi filosofi che cercarono “senza frutto”, cioè inutilmente, di conoscere le cause prime, la Verità, desiderio di Verità che è la pena che essi patiscono nel Limbo. Parlo di Aristotele, di Platone e altri, e qui Virgilio chinò la testa, perché incluse se stesso.

Virgilio, che è simbolo della ragione, riconosce i propri limiti. Un momento di grande poesia che umanizza la sua figura.

Folle è chi spera di intendere i misteri divini. Il riferimento è ai filosofi, alla loro arroganza, ai filosofi che pretendono di conoscere e spiegare tutto. (Pensiamo all’Illuminismo…). La ragione umana non basta a spiegare il senso della vita.

Il motivo della insufficienza della ragione viene evidenziato e sottolineato molte volte in questo canto.

Virgilio è turbato, ma il viaggio deve proseguire.

Di fronte alla parete a strapiombo, i due cercano un passaggio agevole, e mentre Virgilio è preoccupato, Dante si accorge che una schiera di anime viene loro incontro, ma camminano molto lentamente.

Virgilio e Dante accelerano il passo, per non perdere tempo. Il valore del tempo! Mai perderlo quando è in ballo la salvezza dell’anima.

(canto 3 vv.79-93) 

Come le pecorelle escon del chiuso 
a una, a due, a tre, e l’altre stanno 
timidette atterrando l’occhio e ‘l muso;

                        
e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, 
addossandosi a lei, s’ella s’arresta, 
semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno;              

sì vid’io muovere a venir la testa 
di quella mandra fortunata allotta, 
pudica in faccia e ne l’andare onesta. 

                       
Come color dinanzi vider rotta 
la luce in terra dal mio destro canto, 
sì che l’ombra era da me a la grotta, 

                          
restaro, e trasser sé in dietro alquanto, 
e tutti li altri che venieno appresso, 
non sappiendo ‘l perché, fenno altrettanto.

Una delle similitudini più famose del poema, per la semplicità e naturalezza del linguaggio, per la precisione dei dettagli. Una similitudine che sottolinea la mansuetudine e l’umiltà, virtù decisive per cominciare l’espiazione, la purificazione.

Queste pecorelle sono gli scomunicati, pentiti all’ultimo momento; quasi tutti personaggi famosi e di forte personalità.

Dante sottolinea il contrasto tra la loro vita di violenza e la loro situazione attuale, trasformata dal pentimento. Ribelli alla Chiesa in vita, ora gli scomunicati devono procedere lenti e mansueti intorno al monte, in attesa di entrare in Purgatorio.

Virgilio previene le loro domande, in loro infatti non c’è quella curiosità morbosa che c’era nelle anime dell’Inferno. Virgilio le rassicura, sì, Dante è vivo e ha bisogno di un’indicazione per salire. Le anime tutte premurose rispondono che devono tornare indietro e proseguire, “facendo insegna coi dossi delle mani”.

Ma un’anima si fa avanti.

(Canto 3, vv. 103-117)

E un di loro incominciò: «Chiunque 
tu se’, così andando, volgi ‘l viso: 
pon mente se di là mi vedesti unque».

Io mi volsi ver lui e guardail fiso: 
biondo era e bello e di gentile aspetto, 
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

Quand’io mi fui umilmente disdetto 
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»; 
e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto.

Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi, 
nepote di Costanza imperadrice; 
ond’io ti priego che, quando tu riedi,

vadi a mia bella figlia, genitrice 
de l’onor di Cicilia e d’Aragona, 
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.

E’ Manfredi, figlio di Federico II. Manfredi prega Dante di riferire alla figlia Costanza che lui è salvo, anche se si pensa che, per le sue colpe, si trovi nell’Inferno. Era il capo dei Ghibellini italiani, aveva condotto una vita notoriamente libera e dissoluta, al di fuori dalla Chiesa. Era stato scomunicato dal papa Innocenzo IV e combattuto dai papi successivi.

Manfredi rievoca a Dante la sua fine.

Ferito mortalmente nella battaglia di Benevento (1266), in cui fu sconfitto dalla coalizione dei guelfi, appoggiati dalle truppe francesi di Carlo D’Angiò, Manfredi si rivolse a Dio, chiedendo perdono dei suoi orribili peccati. La misericordia di Dio è infinita, dice Manfredi, a patto che l’uomo gli apra il suo cuore. I soldati francesi onorarono a modo loro il re morto in battaglia. Dante dice che passando vicino al suo corpo, depositavano sopra una pietra, in modo da creare una copertura e non danneggiarlo. Nella notte, però, il vescovo di Cosenza, su ordine del papa Clemente IV, sottrasse il corpo dal cumulo di pietre e lo gettò sul greto del Garigliano, a confine tra la Campania e il Lazio (Regno di Sicilia e Stato della Chiesa), disperdendo le ossa sotto la pioggia e il vento. Inoltre, essendo Manfredi uno scomunicato (per volontà di Innocenzo IV) dal 1258, il corteo funebre si svolse con i ceri spenti e capovolti, come si usava con gli scomunicati.

(Canto 3, vv. 118-132)

Poscia ch’io ebbi rotta la persona 
di due punte mortali, io mi rendei, 
piangendo, a quei che volontier perdona.

          
Orribil furon li peccati miei; 
ma la bontà infinita ha sì gran braccia, 
che prende ciò che si rivolge a lei.

                           
Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia 
di me fu messo per Clemente allora, 
avesse in Dio ben letta questa faccia,                       

l’ossa del corpo mio sarieno ancora 
in co del ponte presso a Benevento, 
sotto la guardia de la grave mora.                              

Or le bagna la pioggia e move il vento 
di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde, 
dov’e’ le trasmutò a lume spento.                              

La scomunica, aggiunge Manfredi, non impedisce di recuperare l’amore di Dio, almeno finché c’è un soffio di vita. Vero è però, che chi viene scomunicato deve sostare nell’Antipurgatorio 30 volte gli anni della scomunica, a meno che tale decreto non venga abbreviato dalle preghiere dei vivi. Ecco perché è necessario che la figlia sappia delle sue condizioni, perché nel Purgatorio “per quei di là molto s’avanza” (per le preghiere dei vivi molto ci si avantaggia).

MANFREDI: Dal suo discorso emerge una profonda nostalgica tristezza, quando pensa all’onorata sepoltura, alla dispersione delle sue ossa. Però non c’è sdegno, né rancore per le sue sventure, ogni passione terrena tace; è vivo solo l’amore per la figlia Costanza. Per questo pronuncia il suo nome con compiacenza. Vuol far sapere che Manfredi, lo scomunicato, è là, sulla via della salvezza.

Nella sua umiltà di penitente, non si attenua però la sua regalità, la cortesia, la bellezza la gentilezza, il valore cavalleresco di questo principe svevo.

Dante ha salvato Manfredi. In questo modo si è posto innanzitutto contro l’opinione comune, che lo definiva un diavolo in terra, che lo credeva nell’Inferno, perché scomunicato, ma si pone anche contro la Chiesa, perché Dante crede nelle probabili parole di pentimento mormorate in fin di vita. Manfredi ha goduto della misericordia divina, la Chiesa invece dura, caparbia, ha condannato e non ha perdonato.

Collocare Manfredi nel Purgatorio ha una rilevanza politica e teologica.

Sul piano politico Manfredi testimonia l’ammirazione di Dante per l’istituzione imperiale e la condanna del potere temporale della Chiesa.

Sul piano teologico Dante critica la pretesa della Chiesa di farsi tramite della salvezza delle anime. Manfredi è stato scomunicato per motivi politici per cui, dice Dante, solo Dio può decidere se assolverlo o meno dai suoi peccati.

Ritorna il tema della insufficienza della ragione, che era stato trattato all’inizio del Canto. La ragione, questa volta, non dei filosofi, ma dei pontefici, i quali credono che i loro provvedimenti, le scomuniche, siano efficaci anche nell’aldilà.

Davanti all’Eterno le opinioni sono effimere, le lotte, gli scontri tra gli uomini sono piccole cose. Il vescovo si è accanito su di lui anche dopo la morte. Ed è stato un comportamento disumano, inutile, assurdo. Perché tanto odio? Questo è anche l’insegnamento di questo Canto.

BELACQUA

Dopo il colloquio con Manfredi, i due poeti trovano il sentiero indicato dagli scomunicati e iniziano la ripida salita, arrampicandosi con le mani.

Il cammino è faticoso, e Dante implora Virgilio di fare una pausa. Così si siedono su uno spuntone piano della roccia e Virgilio approfitta per fare una lezione di astronomia a Dante. Il sole sta spuntando da sinistra, osserva Dante.

Normale, risponde Virgilio, siamo nell’emisfero australe e il Sole si sposta verso Nord.

Guardando in alto, Dante osserva che il monte è così alto tanto da non scorgere la cima, e chiede un po’ sfiduciato, quanto tempo occorrerà per arrivarci. Virgilio lo rassicura, all’inizio la salita è aspra e difficile, poi sarà sempre più agevole.

(Allegoricamente significa che l’anima è ancora gravata dalle pressioni terrene).

Forse avrai bisogno di sederti e riposarti, prima di arrivare lassù”.

Chi è che parla, in tono così canzonatorio? E’ Belacqua, un celebre liutaio, amico di Dante, che se ne sta accovacciato sotto una roccia, con altri compagni.

Siamo nella prima balza dell’Antipurgatorio, Dante ha incontrato un secondo gruppo di anime, i negligenti, i quali sono seduti all’ombra di grandi macigni. Sono in atteggiamento pigro e ozioso, sono immobili.

Questa è la loro pena, e ricordare il ritardo con cui in vita si pentirono solo all’ultima ora.

A sentire quella frase “forse avrai bisogno di sederti”, Dante si volge verso il gruppo e individua un’anima che sa seduta per terra, le braccia intorno alle ginocchia, il capo chino tra le ginocchia stesse, lo sguardo volto al suolo.

Niente gli interessa, rimane immobile nella sua postura, non lo scuote nemmeno l’avvicinarsi dei due poeti, la curiosità di vedere chi siano, è un pigro!

Questo comportamento fa meravigliare Dante, il quale si rivolge a Virgilio (vv.109-127 / 4° canto)

«O dolce segnor mio», diss’io, «adocchia 
colui che mostra sé più negligente 
che se pigrizia fosse sua serocchia».

                         
Allor si volse a noi e puose mente, 
movendo ‘l viso pur su per la coscia, 
e disse: «Or va tu sù, che se’ valente!». 

Conobbi allor chi era, e quella angoscia 
che m’avacciava un poco ancor la lena, 
non m’impedì l’andare a lui; e poscia  

                       
ch’a lui fu’ giunto, alzò la testa a pena, 
dicendo: «Hai ben veduto come ‘l sole 
da l’omero sinistro il carro mena?».    

                       
Li atti suoi pigri e le corte parole 
mosser le labbra mie un poco a riso; 
poi cominciai: «Belacqua, a me non dole   

di te omai; ma dimmi: perché assiso 
quiritto se’? attendi tu iscorta, 
o pur lo modo usato t’ha’ ripriso?». 

Ed elli: «O frate, andar in sù che porta?"

                          

(Guarda quel tale, si dimostra tanto negligente come se la pigrizia fosse sua sorella. Anche il tono di Dante è un po’ ironico e canzonatorio, per cui l’anima, risentita, muove gli occhi lungo la coscia e dice “Ora vai su tu, che sei tanto valoroso”, “Conobbi allora chi era” dice Dante.

Ha riconosciuto il suo amico, e gli va incontro.

Lo ha riconosciuto non dalla voce, già udita prima, forse dallo sguardo visto che ha sollevato il viso. Ma forse dalla battuta facile.

Dante ricorda questa capacità di scambio di battute, che erano soliti rivolgersi sulla Terra.

Si crea subito un’affettuosa empatia. Hai capito perché hai il sole da sinistra? Soddisfatta la sua sete di sapere? Dante esprime la sua gioia nel saperlo salvo e non tra i demoni, e gli chiese perché se ne stia immobile, aspetta una guida o ha ripreso l’abitudine della pigrizia?

L’anima risponde che, per essersi pentita in fin di vita, deve rimanere là tanto tempo quanto il tempo che ha vissuto.

A chi giova affrettarsi a salire?” Un dialogo scherzoso come avveniva ai vecchi tempi. Ma poi Belacqua, un po’ malinconico, ricorda che la permanenza può essere diminuita dalle preghiere dei vivi, dei vivi che sono in grazia, dai vivi che hanno fede.

Ma ormai Virgilio si era allontanato, sollecitando Dante a seguirlo.

 


VIDEO: Manfredi / Belacqua

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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