martedì 8 marzo 2022

LA DONNA E LA GUERRA Intervento a più voci

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Con Silvia Laddomada - Liliana Marangi e Anna Presciutti

Stiamo attraversando un tunnel nel quale ci ha lanciati un evento improvviso e tragico, la guerra.

Silvia Laddomada

Non ci sono parole in grado di esprimere lo sgomento, l'angoscia che proviamo nel vedere in Ucraina, donne con bambini, munite di fagotti, di piccole valigie e camminare sperdute, confuse ma coraggiose, per vari chilometri, in attesa di un rifugio, di una protezione lontana dalle bombe.

I mariti, i padri, i fratelli devono rimanere in patria, devono difendere la libertà democratica, faticosamente raggiunta 20 anni fa; devono resistere.

Uno sforzo assurdo, tanto più spaventoso quanto più soffocante appare l'apparato militare di cui Putin dispone, pronto a disintegrare l'intera umanità, un nuovo Sansone pronto a morire con tutti i Filistei, e non solo quelli.

Ci auguriamo che il conflitto venga fermato e sorga un'alba di pacifica convivenza tra i popoli.

Può sembrare infantile, ingenuo, dire questo, ma in fondo é proprio questo che speriamo tutti.

La nostra solidarietà va certamente al popolo ucraino, ma il nostro affetto va anche ai giovani russi, mandati a uccidere o a morire in un paese dove molti hanno parenti e amici.

Quest'anno, nel celebrare la giornata della donna, abbiamo voluto dedicare la nostra attenzione alle donne ucraine. E' ammirevole la loro fermezza, il loro dolore é tenuto a freno dall'amore per i figli, a cui vogliono alleggerire la sofferenza per un sogno andato in frantumi, il sogno di una vita libera. Sono donne coraggiose, pronte ad assumersi responsabilità superiori alle loro forze, orgogliose: i loro uomini non possono ripararsi, devono rimanere, devono difendere con la propria vita il loro suolo.

Va mio prode cavaliere, e torna vincitore.

Questo forse é stato il saluto che queste donne fragili, ma determinate, hanno rivolto ai loro uomini.

La giornata della donna.

Sottomessa all'uomo fin dalla preistoria e relegata nei millenni successivi a custode del focolare domestico e a generatrice di figli, solo negli ultimi secoli la donna sta lottando per ottenere il riconoscimento delle proprie capacità, del proprio ruolo anche al di fuori dell'ambiente familiare, sta combattendo per conquistare dei diritti spesso violati ancora oggi.

Una maggiore consapevolezza delle capacità femminili emerse nel corso della prima guerra mondiale, quando le donne sostituivano gli uomini mandati al fronte.

Il loro ruolo passò da "angelo del focolare domestico" a membro attivo dell'economia e della società. Molti nuclei familiari erano di origine contadina, le donne oltre ad accudire i figli e a sbrigare le faccende domestiche, si dedicarono improvvisamente ai lavori nelle campagne, per garantire il raccolto, per assicurare il pane alla famiglia.

La grande scrittrice e giornalista Matilde Serao, attraverso le pagine del quotidiano Il Giorno, celebrò negli anni della guerra il mito della donna italiana, virtuosa e onesta lavoratrice. "Lasciate improvvisamente sole dagli uomini chiamati al fronte, fidanzate, mogli, madri si rimboccano le maniche in una situazione di sofferenza estrema e imparano ad affrontare una nuova condizione, che segna l'avvio del processo di emancipazione femminile e della decadenza della società patriarcale italiana.

E' vero che nelle campagne, dice Serao, il lavoro femminile, più o meno sommerso, era stato importantissimo. Si trattava, però, in genere, di un lavoro di sostegno e di supporto alla fatica maschile. Invece negli anni della guerra, il peso delle attività agricole gravò interamente sulle spalle delle donne e degli anziani.

Ma non solo in agricoltura. Nelle famiglie degli operai, le donne andarono a sostituire nelle fabbriche e nelle industrie, i loro uomini. Industrie meccaniche, per produrre armi, industrie tessili, industrie alimentari. Donne che non erano mai uscite nelle prime ore del mattino dalle loro case, ora escono ogni giorno per recarsi alla nuova fatica, al loro nuovo dovere. Donne che imparano, si istruiscono, si fanno abili, diventano migliori degli uomini in certi compiti, in certi uffici".

Questo raccontava Matilde Serao.

Non mancò la diffidenza dei moralisti e dei tradizionalisti. La presenza delle donne era avvertita, dai vecchi operai, come un sovvertimento dell'ordine naturale, come un attentato alla moralità.

Ma queste donne furono anche capaci di andare in guerra; come crocerossine soprattutto, come infermiere, pronte a incerottare e rattoppare uomini da restituire agli eserciti; a volte erano spie, a volte erano inviate.

Molte donne, pur non essendo andate al fronte, attraverso diari, memorie, poesie, hanno raccontato la loro esperienza della guerra, non meno tragica di quella degli uomini, magari con un differente linguaggio rispetto ai soldati-poeti.

Le donne scrissero nei loro versi il dolore per la perdita dei propri cari, scrissero per tenerne vivo il ricordo, scrissero per dare voce a un dolore personale e universale, scrissero per protestare, per ribellarsi, per denunciare il vero volto di una guerra che si accaniva sui deboli.

Scritture poetiche femminili a lungo trascurate dalla critica letteraria.

I loro versi circolavano anche clandestinamente, battuti a macchina o scritti su piccoli fogli di carta, e poi, passati di mano in mano, questi versi scivolavano nei pacchi diretti al fronte e raggiungevano i combattenti.

Reprimere i versi che esprimevano dolore era necessario, "per tenere alto lo spirito bellico".

L'unico sentimento che si poteva manifestare era una sofferenza orgogliosa per il sacrificio eroico del proprio figlio, fratello, marito.

Una sofferenza composta, silenziosa, offerta alla patria.

I pianti delle donne erano considerati una debolezza malsana e demoralizzante, erano sovversivi.

Vera Brittain, un'infermiera ventenne dedica una poesia al fidanzato morto in guerra.

"Forse"

Forse un giorno risplenderà di nuovo il sole,

e vedrò che il cielo è ancora azzurro,

e riscoprirò di non vivere invano

anche senza di te.

Forse i prati dorati sotto i miei piedi

A primavera renderanno liete le ore di sole,

E scoprirò i dolci, candidi fiori di maggio

Anche se tu non ci sei più.

Forse i boschi d’estate brilleranno,

E le rose rosse saranno di nuovo belle,

E d’autunno i raccolti abbondanti nei campi porteranno ancora gioia

Anche se tu non sarai più là.

Forse un giorno non mi ripiegherò più nel dolore

Al finire dell’anno,

E ascolterò ancora le canzoni di Natale

Anche se tu non le potrai udire.

Ma, benché il tempo, generoso, potrà rinnovare molte gioie,

Ce n’è una, la più grande, che non conoscerò

Più, perché il mio cuore per averti perduto

Si è spezzato, tanto tempo fa. (Reilly 1981, 64)


Dopo la guerra, molte donne ritornarono ai lavori domestici, tra privazioni e miseria,

soprattutto se i loro cari erano morti al fronte.

Tuttavia l'idea e la consapevolezza delle potenzialità del lavoro femminile si rafforzarono e imposero negli anni successivi l'avvio di un gran numero di riforme ed iniziative miranti a favorire l'inserimento delle donne nel lavoro.

Eppure nonostante conquiste e battaglie, la vita della donna era segnata da discriminazioni e ingiustizie; lavoravano nelle fabbriche, ma venivano pagate di meno; nei periodi di crisi erano le prime a perdere il posto di lavoro; in caso di gravidanza erano costrette a scegliere tra maternità e lavoro, e spesso rimanevano sole, a far fronte a tutto.

Nel corso della seconda guerra mondiale, le donne svolsero azioni di affiancamento alla lotta di liberazione. Nacquero le figure delle "staffette" partigiane, giovani ragazze che portavano messaggi e armi da un battaglione all'altro.

Si moltiplicarono le infermiere, le crocerossine.

A loro si affiancarono le maestre, le donne a cui era stato concesso un livello più altro di scolarizzazione.

Le maestre, "donne in grado di esplicare quelle doti che ogni donna ha in sè, anche inconsapevolmente. Ossia sacrificio, dedizione, rinuncia, dimenticanza di sè, abnegazione".

Doti messe in luce dalla retorica del tempo.

La retorica fascista però non era propensa a riconoscere il ruolo della donna fuori dalle mura domestiche. La donna avrebbe dovuto provvedere alla riproduzione e all'amministrazione della casa.

La famiglia numerosa e fascista era infatti al centro della propaganda, la maternità era un dovere nei confronti della Patria. Il ruolo che spettava alla donna, era quello di moglie e di madre.

Nei decenni successivi la donna ha cercato di difendere la dignità della condizione femminile attraverso la conquista di fondamentali diritti sociali, economici, politici.

Le donne sono entrate negli organismi militari, politici, amministrativi e governativi. Hanno saputo prendere coraggiose iniziative in ogni campo; si sono impegnate in missioni di pace, in azioni di protesta, in azioni di sensibilizzazione a tematiche sociali e ambientali.

Ma non c'é ancora rispetto per la donna. Dove ci sono guerre, le donne sono sempre vittime. La violenza sessuale, gli stupri sono spesso usati come arma, quasi legittimata, per punire il gruppo o il popolo nemico. Non ci sono regole, non c'é umanità. Un tabù radicato che il mondo dimentica.

L'eco degli stupri é una voce che arriva da Kiev, in questi giorni.

La donna oggetto. La donna che é un nulla, per esempio per i talebani, i quali continuano a violare i diritti più elementari. La donna afghana non può istruirsi, non può lavorare nel settore pubblico, non può viaggiare, non può fare sport, non può dedicarsi alla musica, alla poesia. Deve indossare un hijab integrale, che copra il volto e la testa. Perfino nei negozi di abbigliamento sono state tagliate le teste dei manichini che hanno sembianze di donne.

Leggiamo una poesia scritta da una giovane poetessa afghana, Nadia Herawi Anjaman, nata nel 1980, uccisa dal marito che non condivideva la sua passione per la scrittura e riteneva che la poesia fosse una vergogna. Leggeremo "Il diritto di gridare". Versi significativi in cui l'autrice esprime la sua delusione, la sua angoscia, la sua disperazione. Privata della libertà, la parola fu per lei l'unico strumento capace di denunciare le umiliazioni a cui veniva sottoposta.

Liliana Marangi

"Il diritto di gridare"

Non ho voglia di aprire la bocca 

di che cosa devo parlare?

che voglia o no, sono un'emarginata

come posso parlare del miele 

se porto il veleno in gola?

cosa devo piangere,  cosa ridere, 

 cosa morire,  cosa vivere?

 io, in un angolo della prigione 

lutto e rimpianto 

io,  nata invano con tutto l'amore in bocca.


Lo so,  mio cuore,  c'è stata la 

primavera e tempi di gioia 

con le ali spezzate non posso volare 

da tempo sto in silenzio, ma le 

canzoni non ho dimenticato 

anche se il cuore non può che parlare 

del lutto 

nella speranza di spezzare la gabbia,

 un giorno 

libera da umiliazioni ed ebbra di 

canti 

non sono il fragile pioppo che trema 

nell'aria 

sono una figlia afgana,  con il diritto 

di urlare.

Ancora un'altra donna afghana, Meena Keshwar Kamel, una giovane che ha dedicato la sua vita per difendere i diritti delle donne contro il regime talebano. E' stata anche una rappresentante della resistenza afghana contro l'invasione sovietica del 1979, che portò a una guerra civile, durata fino al 1989 e conclusa con il ritiro delle truppe russe e il ritorno dei mujaheddin, dei talebani.

Meena fu uccisa nel 1987 dalla polizia segreta afghana o forse dai fondamentalisti islamici.

"Mai più tornerò sui miei passi"

Sono una donna che si è destata
Mi sono alzata e sono diventata una tempesta
che soffia sulle ceneri
dei miei bambini bruciati
Dai flutti di sangue del mio fratello morto sono nata
L'ira della mia nazione me ne ha dato la forza
I miei villaggi distrutti e bruciati mi riempiono di odio contro il nemico,
Sono una donna che si è destata,
La mia via ho trovato e più non tornerò indietro.
Le porte chiuse dell'ignoranza ho aperto
Addio ho detto a tutti i bracciali d'oro
Oh compatriota, io non sono ciò che ero.
Sono una donna che si è destata.
La mia via ho trovato e più non tornerò più indietro.
Ho visto bambini a piedi nudi, smarriti e senza casa
Ho visto spose con mani dipinte di henna indossare abiti di lutto
Ho visto gli enormi muri delle prigioni inghiottire la libertà
nel loro insaziabile stomaco
Sono rinata tra storie di resistenza, di coraggio
La canzone della libertà ho imparato negli ultimi respiri,
nei flutti di sangue e nella vittoria
Oh compatriota, oh fratello, non considerarmi più debole e incapace
Sono con te con tutta la mia forza sulla via di liberazione della mia terra.
La mia voce si è mischiata alla voce di migliaia di donne rinate
I miei pugni si sono chiusi insieme ai pugni di migliaia di compatrioti
Insieme a voi ho camminato sulla strada della mia nazione,
Per rompere tutte queste sofferenze, tutte queste catene di schiavitù,
Oh compatriota, oh fratello, non sono ciò che ero
sono una donna che si è destata
Ho trovato la mia via e più non tornerò indietro.


Vogliamo concludere qui. Ci sono ancora tante testimonianze poetiche interessanti che vorremmo condividere con voi. Le invieremo al gruppo in questi giorni.

L'invito che rivolgiamo a tutti é quello di considerare con maggiore rispetto la donna, che purtroppo dobbiamo dire é sempre in trincea. Non é forse una guerra quella che scoppia tra le pareti domestiche e fa parlare le cronache?

Il femminicidio, oggi sempre più frequente, non è forse la guerra tra una donna-oggetto e un nemico, figlio, fratello, marito?

Il papa Francesco dice: " Dove le donne sono emarginate c'é un mondo sterile, perché le donne non solo portano la vita, ma ci trasmettono la capacità di vedere oltre loro, ci trasmettono la capacità di capire il mondo con occhi diversi,, di sentire le cose con cuore più creativo, più paziente, più tenero".

Leggiamo altre poesie, che esprimono lo strazio di una donna, di una mamma, nello scenario della guerra.

Anna Presciutti

"Donne che fabbricano munizioni"      (Mary Collins)

Le loro mani dovrebbero alimentare la fiamma della vita,

le loro dita dovrebbero porgere

il seno roseo, gonfio di latte alle labbra impazienti del neonato,

o accarezzare dolcemente con tenerezza la calda fronte del bambino

sofferente,

o vagare tra i riccioli di fanciulli e fanciulle

Ma ora le loro mani, le loro dita diventano ruvide nelle fabbriche di

munizioni

Uccidi! Uccidi!

 

"Un ricordo"  (Margaret Sackville)

Non si sentiva alcun rumore, alcun pianto nel villaggio.

Niente di simile a un suono, dopo le armi;

Solo dietro a un muro il sommesso singhiozzare delle donne,

Lo scricchiolio di una porta, un cane smarrito, e nient’altro.

Silenzio che si potrebbe sentire, nessuna pietà nel silenzio,

Orribile, fluido come il sangue, macchia tutte le strade

Nel mezzo della via due cadaveri insepolti,

Lo sguardo fisso di una donna uccisa dalla baionetta nella piazza del

mercato.

Gente umile e rovinata – per loro nessun orgoglio di conquista,

la loro sola preghiera «Oh Dio, dacci il nostro pane quotidiano!»


"Il grido di battaglia delle madri" (Angela Morgan)

Noi che abbiamo dato alla luce i soldati,

Lanciamo il nostro grido fino ai confini della terra

La nostra voce ai confini del tempo sia scagliata,

E possa risvegliare il mondo addormentato.

Carne della nostra carne, ossa delle nostre ossa,

Dolore dei secoli fattosi parola,

Fin dove la voce umana potrà arrivare

Grideremo e pregheremo per il bene dei nostri figli!

Guerrieri! Consiglieri! Uomini sotto le armi!

La cui gloria soffia coi venti di guerra,

Quando la grande rivolta arriverà

Sentirete il ritmo

Di marcia dei nostri piedi

Al suono di milioni di tamburi.

E saprete che il mondo è finalmente desto.

Le poesie sono state lette durante la serata, da Anna Presciutti e Liliana Marangi

 

 

Antonio Santoro

 

 

 

 

 

Giacomo Salvemini

 

 

 

 

 

 

 

 

LA DONNA E LA GUERRA-Intervento a più voci -VIDEO

 


 

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