giovedì 24 marzo 2022

LA DIVINA COMMEDIA - INFERNO: IL CONTE UGOLINO (Canti 32-33-34) (22.03.2022) di Silvia Laddomada

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 INFERNO: IL CONTE UGOLINO

 

La Divina Commedia – Inferno (canti 32- 33- 34) il Conte Ugolino

Dante è nel 9° cerchio, il più stretto.

Siamo nel fondo dell’Inferno.

Siamo in una palude, il Cocito, reso ghiacciato dal vento prodotto dalle ali di Lucifero, conficcato nel centro, scoperto fino al petto, e circondato dalle figure statuarie e colossali dei Giganti.

In questo luogo sono puniti i traditori che usarono l’inganno e la violenza contro chi doveva fidarsi di loro.

Il tradimento, come il peggiore dei peccati.

Le anime sono immerse nel ghiaccio, allegoria dell’odio che indurisce il cuore.

Emerge solo il volto, o al massimo il collo. Battono i denti per il freddo, in modo bestiale, come cicogne quando battono il becco. Piangono disperate, ma le lacrime si solidificano per il freddo, per cui non vedono chi gli sta davanti.

Dante colloca in questo luogo una ventina di dannati. Tranne alcuni, sono tutti coinvolti in un tradimento di famiglia, di colore politico.

La maggior parte di loro sono contemporanei a Dante, per cui il poeta ci offre un quadro della società del 1200, la quale, per la violenza tra contrastanti partiti nella città, o per la violenza nelle stesse famiglie, era una società piena di corruzione e di tradimenti.

E’ evidente, negli incontri, quel suo sentimento di rabbia, di vendetta, accentuato dalla pena di essere stato, proprio lui, condannato all’esilio.

Una peculiarità di questo nono cerchio è che nessuno ha intenzione di rivelare la propria identità. Sono i compagni di pena a soddisfare la curiosità di Dante. Secondo alcuni studiosi, questi compagni di pena rivelano il nome dei dannati con maligna compiacenza, non per cortesia verso Dante; sono simili a certi cinici delinquenti che accusano volentieri i loro complici.

Il lago Cocito è diviso in 4 settori: Caina, Antenòra, Tolomea e Giudecca.

La Caina prende il nome da Caino, che uccise il fratello Abele. In questa zona sono puniti i traditori dei parenti. Dante incontra due fratelli, che si uccisero a vicenda, rivali in famiglia e in politica, che si odiano anche da morti: le loro teste cozzano l’una contro l’altra, furiosi come montoni, dice Dante.

Ed altri ancora, autori di tradimenti e omicidi in famiglia, per eredità o motivi politici.

Ricordiamo che in questo cerchio Francesca da Rimini condannò il marito Gianciotto, geloso dell’amore tra lei e il cognato paolo. Gianciotto che poi uccise i due amanti. (“Caina attende chi a vita ci spense”).

Dante e Virgilio passano quindi nella seconda zona, l’Antenòra, che prende il nome dal troiano Antenore, il quale permise a Ulisse e Diomede di rubare il Palladio. Si tratta di un simulacro di legno, raffigurante una divinità, che aveva il potere di difendere un’intera città. Il più famoso era custodito nella città di Troia, a cui garantiva l’immunità. La città fu distrutta dopo il furto del simulacro da parte degli eroi greci.

In questo settore sono puniti i traditori della patria.

Mentre proseguono il cammino su questa lastra di ghiaccio, Dante, per caso, per destino, o per fortuna, urta la testa di un dannato, che subito protesta; non si presenta e, dice Dante,

 Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste? 
se tu non vieni a crescer la vendetta 
di Montaperti, perché mi moleste?».   (canto 32, vv. 79-81)

A sentire Montaperti, Dante chiede a Virgilio il permesso di fermarsi, vuole sapere chi é.

Il dannato lo provoca, non lo dirà, Dante stizzito lo tira per capelli, vuole guardarlo in faccia, riconoscerlo; ma il dannato comincia a bestemmiare e a latrare.

quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca? ((v. 106) 

Dante, grazie all'intervento di un compagno di pena, lo riconosce e rende pubblico il nome del traditore di Firenze, nel corso della battaglia di Montaperti (1260), in cui i fiorentini guelfi furono sconfitti dai ghibellini di Siena. Bocca degli Abati, un guelfo fiorentino, durante la battaglia, aveva tradito. Aveva infatti tagliato la mano del portabandiera delle truppe fiorentine, favorendo così la vittoria dei ghibellini.

Bocca vistosi scoperto da Dante si vendica, facendo il nome di tanti altri traditori politici, immersi nel ghiaccio.

Il conte Ugolino e l'arcivescovo Ruggieri

Dante e Virgilio riprendono nuovamente il cammino, quando la loro attenzione viene catturata da un dannato che sta rosicchiando il cranio del suo vicino. I due sembrano formare una massa unica, il capo di sopra sembra un cappello a quello di sotto, dice Dante.

Si tratta del conte Ugolino, che rode il cranio all’arcivescovo Ruggieri. Sono personaggi storici, realmente esistiti. Ugolino della Gherardesca era un nobile feudatario, un grande e prestigioso uomo politico della Toscana, governava Pisa col nipote Nino Visconti. Si comportava come un tiranno, era un uomo ambizioso, senza scrupoli, di lui erano noti difetti e inganni. Per spadroneggiare da solo aveva organizzato una congiura contro il nipote, chiedendo l’aiuto di un altro ambizioso signore, l’arcivescovo Ruggieri, il quale, nonostante la carica religiosa, era uno dei protagonisti della vita politica di Pisa. Entrambi tradirono Nino Visconti.

Nel corso delle guerre tra le città marinare, (Amalfi, Pisa, Genova e Venezia), ci fu la battaglia della Meloria, 1284, vicino Livorno, in cui Pisa venne sconfitta da Genova. Il conte si salvò a stento, ma nominato podestà di Pisa, fece delle concessioni territoriali a Firenze e a Lucca, per staccarle dalla lega con Genova. Nel 1288 la fazione di Ruggieri ebbe il sopravvento. Quindi scatenò una sollevazione popolare contro il conte, che fu accusato di tradimento per le concessioni fatte a Firenze e a Lucca. Per volere dell’arcivescovo, il conte fu catturato, insieme a due figli e ai due figli del nipote Nino Visconti e rinchiusi in una torre per 8 mesi, poi abbandonati senza cibo, né acqua.

Il conte Ugolino e i ragazzi al'interno della Torre della Muda

Questa la storia.

Entrambi traditori, a entrambi la stessa pena; la giustizia divina li ha posti l’uno vicino all’altro.

Abbiamo già visto due peccatori insieme: Paolo e Francesca, associati dall’amore, Ulisse e Diomede, associati nella volontà di ingannare, ora il conte e l’arcivescovo, uniti dall’odio reciproco.

 

Dante non parla del fatto storico. Ciò che gli preme è l’infelice sorte del conte e soprattutto l’immatura morte dei quattro giovani. Dante rivede se stesso. Anche i suoi figli furono costretti all’esilio, pagando da innocenti, le responsabilità paterne.

In questo abisso di ferocia infernale Dante ha collocato l’episodio più patetico dell’intero poema.

Man mano che il conte racconta, non pensiamo quasi più alla pena che sconta nell’Inferno, ma alla sofferenza inflitta a lui e ai figli, quando erano sulla terra.

  CANTO  33°, vv.1-78


La bocca sollevò dal fiero pasto 
quel peccator, forbendola a’capelli 
del capo ch’elli avea di retro guasto.                      3

Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli 
disperato dolor che ’l cor mi preme 
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.                   6

Ma se le mie parole esser dien seme 
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo, 
parlar e lagrimar vedrai insieme.                            9

Io non so chi tu se’ né per che modo 
venuto se’ qua giù; ma fiorentino 
mi sembri veramente quand’io t’odo.                    12

Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, 
e questi è l’arcivescovo Ruggieri: 
or ti dirò perché i son tal vicino.                            15

Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, 
fidandomi di lui, io fossi preso 
e poscia morto, dir non è mestieri;                         18

però quel che non puoi avere inteso, 
cioè come la morte mia fu cruda, 
udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.                              21

Breve pertugio dentro da la Muda 
la qual per me ha ’l titol de la fame, 
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,                 24

m’avea mostrato per lo suo forame 
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno 
che del futuro mi squarciò ’l velame.                       27

Questi pareva a me maestro e donno, 
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte 
per che i Pisan veder Lucca non ponno.                  30

Con cagne magre, studiose e conte 
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi 
s’avea messi dinanzi da la fronte.                             33

In picciol corso mi parieno stanchi 
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane 
mi parea lor veder fender li fianchi.                          36

Quando fui desto innanzi la dimane, 
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli 
ch’eran con meco, e dimandar del pane.                   39

Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli 
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava; 
e se non piangi, di che pianger suoli?                        42

Già eran desti, e l’ora s’appressava 
che ’l cibo ne solea essere addotto, 
e per suo sogno ciascun dubitava;                              45

e io senti’ chiavar l’uscio di sotto 
a l’orribile torre; ond’io guardai 
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.                      48

Io non piangea, sì dentro impetrai: 
piangevan elli; e Anselmuccio mio 
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".                         51

Perciò non lacrimai né rispuos’io 
tutto quel giorno né la notte appresso, 
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.                            54

Come un poco di raggio si fu messo 
nel doloroso carcere, e io scorsi 
per quattro visi il mio aspetto stesso,                           57

ambo le man per lo dolor mi morsi; 
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia 
di manicar, di subito levorsi                                           60

e disser: "Padre, assai ci fia men doglia 
se tu mangi di noi: tu ne vestisti 
queste misere carni, e tu le spoglia".                            63

Queta’mi allor per non farli più tristi; 
lo dì e l’altro stemmo tutti muti; 
ahi dura terra, perché non t’apristi?                             66

Poscia che fummo al quarto dì venuti, 
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi, 
dicendo: "Padre mio, ché non mi aiuti?".                      69

Quivi morì; e come tu mi vedi, 
vid’io cascar li tre ad uno ad uno 
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,                      72

già cieco, a brancolar sovra ciascuno, 
e due dì li chiamai, poi che fur morti. 
Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno».                       75

Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti 
riprese ’l teschio misero co’denti, 
che furo a l’osso, come d’un can, forti.                          78


Poscia, più che il dolor poté il digiuno”.

La critica è divisa sull’interpretazione di questo verso.

Ugolino dopo aver pianto disperatamente sui corpi dei figli morti, morì anch’egli di fame? O il conte Ugolino, per sopravvivere ancora, si cibò dei corpi dei figli?

Il conte ritorna poi a mordere il cranio di Ruggieri. Il suo rancore è eterno, così come la sua crudeltà. Sembra che ci sia perfino il permesso di Dio: l’arcivescovo è collocato in eterno proprio davanti al conte. Vittima e carnefice entrambi.

Al termine di questo drammatico incontro, Dante pronuncia un’invettiva contro Pisa, augurandosi che posa essere sommersa dalle acque dell’Arno. Pisa, colpevole di aver crudelmente mandato a morte dei ragazzi innocenti.

I due poeti proseguono ed entrano nel settore Tolomea. Questa zona prende il nome da Tolomeo d’Egitto, il quale fece uccidere Pompeo, che si era rifugiato presso di lui, consegnando la testa a Cesare, (per cui questi spodestò Tolomeo e pose sul trono la sorella Cleopatra).

Secondo altri critici il nome deriva da Tolomeo di Gerico, che in un banchetto fece uccidere a tradimento il suocero Maccabeo con i figli.

Nella Tolomea sono puniti i traditori degli amici e degli ospiti. Qui Dante incontra frate Alberigo Manfredi, un capo guelfo di Faenza che, durante un banchetto, al momento della frutta, fece uccidere tutti i suoi invitati.

E incontra anche un genovese, Branca D’Oria, colpevole di aver fatto uccidere il suocero, dopo averlo invitato a casa.

Dante appare meravigliato, perché ricorda che Branca é ancora vivo. Ma Alberigo gli risponde che solo i corpi sono sulla terra, perché l’anima è precipitata nell’Inferno, ed è stata sostituta da un diavolo. Uno strano caso, un privilegio esclusivo della Tolomea. Dante fa riferimento al comportamento ignobile di una società corrotta, in cui circolavano liberamente uomini che, per i loro tradimenti e le loro malefatte, facevano ormai parte della schiera dei demoni.

Lasciata la Tolomea, i due poeti entrano nella Giudecca, che prende il nome da Giuda, traditore di Cristo.

Lucifero: le tre facce in una sola testa
In essa sono condannati i traditori dei benefattori, completamente immersi nel ghiaccio. Si intravvedono i capelli, ma simili a pagliuzze su un vetro ghiacciato, dice Dante.

Nel centro del pozzo c’e Lucifero, visibile fino a metà petto. Un essere enorme, mostruoso, con tre facce in un’unica testa. E’ l’antitesi della Trinità.

 

 

Sulla schiena ha due grandi ali di pipistrello, che agita continuamente, provocando il vento che fa ghiacciare il lago.

In ogni bocca stritola un peccatore. Uno è Giuda, che tradì Cristo, fondatore della Chiesa. Gli altri sono Bruto e Cassio, traditori di Cesare, che fu fondatore dell’Impero.


Dopo aver osservato Lucifero, Virgilio prende Dante sulle spalle e scivola sul corpo

di Lucifero, che si allunga nell’emisfero australe. 

Attraverso una caverna buia, i due poeti risalgono alla superficie della Terra

"salimmo sù, el primo e io secondo, 
tanto ch’i’ vidi de le cose belle 
che porta ’l ciel, per un pertugio tondo. 

E quindi uscimmo a riveder le stelle". (canto 34, vv. 136-139)


 



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