giovedì 4 maggio 2023

IL DECADENTISMO: GIOVANNI PASCOLI di Silvia Laddomada

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L' ASSOCIAZIONE MINERVA, L'UNIVERSITA' DEL TEMPO LIBERO E DEL SAPERE di Crispiano (Ta), organizza incontri culturali settimanali. 
Relatrice su questo argomento Silvia Laddomada
 
 

 VIDEO: IL DECADENTISMO: GIOVANNI PASCOLI

Relazione:

IL DECADENTISMO: Giovanni Pascoli

Relazione di Silvia Laddomada

 

Silvia con Nadia Bumbi

Il tema di fondo nella poesia decadente é l'angoscia esistenziale, un angoscia amara, senza consolazione e senza speranza, perché non sorretta da alcuna certezza.

I progressi scientifici, non avevano assicurato la vita migliore possibile. Era crollata la scienza, erano crollati i valori della tradizione, i valori della religione.

Si viveva nell'incertezza, ci si sentiva avvolti dal mistero. Tutto era irrazionale. Solo l'intuizione permetteva di cogliere qualche aspetto della realtà.

Gli artisti e intellettuali del 1° Novecento hanno avuto una vita sregolata, hanno inteso l'arte come qualcosa che doveva plasmare la vita, inventarla, arricchirla di esperienze eccezionali, nel bene e nel male.

Si andava alla ricerca dell'assolutamente nuovo, del "vivere inimitabile", come diceva D'Annunzio.

(Basti pensare ai movimenti d'avanguardia: dadaismo, surrealismo, futurismo con le loro stravaganze linguistiche e teoriche).

In Italia il Decadentismo si é sviluppato lentamente, perché il rispetto per la tradizione classica era molto sentito, e Carducci ne era il grande portavoce.

Benedetto Croce rifiutava l'arte dei movimenti d'Avanguardia, la considerava "la fabbrica del vuoto".

In Italia, poi, dato il senso di equilibrio dello spirito italiano, non si sarebbe mai esaltata l'irrazionalità e l'io, in maniera esasperata.

E' stata però accettata l'idea che l' Arte é espressione del mondo interiore dell'artista, che l'arte é autonoma, che l'arte non ha finalità educative.

La ventata di Decadentismo é servita quindi a sprovincializzare la letteratura italiana, a inserirla nel circuito della letteratura europea.

Una voce decadente, in Italia, é quella di Giovanni Pascoli.

Lo conosciamo come il poeta delle piccole cose, il poeta del fanciullino. Un poeta intimistico, solitario, che rifiuta le relazioni sociali, che reprime le relazioni sentimentali.

Un uomo incapace di vivere, perché crede che tutto é mistero nell'universo, che gli uomini sono creature fragili, soggette al dolore, alla morte.

Una visione dolorosa, pessimistica della vita.

Una visione derivante da esperienza personali.

Era nato a S.Mauro di Romagna (Forlì),nel 1855; il padre era amministratore della tenuta dei principi di Torlonia.

Aveva 12 anni, 4° di 10 figli, quando morì il padre, ucciso da due sicari, la notte del 10 agosto, mentre tornava dalla fiera di Cesena.

Non fu possibile individuare gli assassini, ma in famiglia erano convinti che fossero sicari di un tale che voleva sostituire il padre del poeta nell'amministrazione della tenuta.

Ci furono processi vari, si pensò che potessero essere contrabbandieri scoperti dal sig. Pascoli, si indagò su questo signore, che poi divenne amministratore davvero, ma non fu trovato colpevole.

Il poeta racconta questo episodio in una poesia "la cavallina storna".

"O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna..."

Il poeta racconta che la cavallina tornò a casa e la madre disperata chiese (dopo l'uccisione del padre Ruggero), chi potesse essere l'assassino, fece tanti nomi, e quando pronunciò il nome di quel signore, la cavallina spaventata, lanciò un nitrito doloroso. Addirittura si dice che il poeta ogni anno, il 10 agosto, mandava un bigliettino listato a lutto a questo signore, che però non gli rispose mai.

Un tragico evento per la famiglia che segnò il poeta per sempre.

Seguirono altri lutti, morì una sorella, due fratelli, la madre, in pochissimo tempo.

Il poeta studiava, grazie alle borse di studio, che gli consentivano anche di aiutare la famiglia, che procedeva a fatica.

Frequentò l'Università a Bologna, facoltà di Lettere classiche (latino e greco).

Nel suo animo si rafforzava l'idea che nella vita c'é malvagità, dolore e ingiustizia, convinzione dettata dai torti subiti dalla sua famiglia.

Durante gli anni universitari, assetato di giustizia, aderì alle idee socialiste di Andrea Costa, partecipò a manifestazioni anarchiche, a difesa di Giovanni Passannante, che aveva attentato alla vita del re Umberto I.

Fu arrestato nel 1879 per questa adesione alle manifestazioni, e trascorse in carcere più di tre mesi.

Un'esperienza dolorosa che lo rese ancora più disperato, tanto da desiderare di farla finita.

(Una poesia, LA VOCE, riporta questo doloroso stato d'animo: "Una notte, su la spalletta/ del Reno, coperta di neve, /dritto e solo (passava in fretta / l'acqua brontolando. Si beve?) dritto e solo, con un gran pianto /d'aver a finire così, / mi sentii d'un tratto d'accanto / quel soffio di voce, Zvanì. Ma voleva dirmi, lo capiva - no... no... dì le devozioni).

Una notte dalle lunghe ore/ (nel carcere!) che all'improvviso / dissi: Avresti molto dolore, tu / se non t'avessero ucciso / ora, o babbo!...che agli uomini, la mia vita, volevo lasciargliela lì/...risentii la voce smarrita / che disse in un soffio...Zvanì / Voleva dirmi, io capiva /Piuttosto dì un requie per noi!"

La voce della mamma che lo invita a prendersi cura della famiglia, a non aggiungere un altro dolore.


Dopo l'esperienza del carcere, abbandonò la politica militante e propose un socialismo umanitaristico, invitando gli uomini alla solidarietà fra classi sociali, alla concordia, alla fratellanza: "Vorrei che pensaste con me che il mistero nella vita é grande, e che il meglio che ci sia da fare é quello di stare stretti più che si possa agli altri, che hanno il medesimo mistero, affanno e speranza".

Riprese quindi gli studi, si laureò e insegnò latino e greco negli istituti liceali a Matera, a Pisa, a Livorno, a Massa e infine ritornò a Bologna, a insegnare la letteratura italiana come docente universitario, ricoprendo la carica che era stata del Carducci.

Decise quindi di far vivere con sè le sorelle Ida e Maria (Mariù) trasferendosi a Castelvecchio di Barga (Lucca), nel tentativo di ricostruire idealmente quel "nido" familiare che i tanti lutti avevano disgregato.

Un "nido" del quale facevano parte i vivi e idealmente i morti, legati ai vivi dai fili di una misteriosa presenza.

Un legame quasi morboso con le sorelle, che avevano per lui quasi una funzione materna. Un rapporto ambiguo, che lo portò a crisi depressive, quando la sorella Ida si sposò, come se avesse profanato l'intimità del nido.

Intanto Pascoli segue anche le vicende politiche del suo tempo, ma molte cose le interpreta secondo il suo stato d'animo.

All'inizio del '900 c'era in Italia molta povertà, il 50% di famiglie contadine. L'emigrazione restava l'unica speranza di riscatto. Dai porti di Genova e Napoli, su "carrette" pericolose, si partiva per "la Merica", la terra del sogno, del nuovo mondo.

Agli occhi del poeta l'emigrazione aveva effetti devastanti: disgregava il nido famigliare.

Per cui Pascoli ebbe una ventata nazionalista. Quando il governo italiano, guidato da Giolitti, per favorire le mire espansionistiche della borghesia, si lanciò nell'avventura coloniale, conquistando la Libia, nel 1911, ( si diceva per offrire "un posto al sole" ai poveri italiani costretti a emigrare), Pascoli, incrociando le sue ideologie umanitarie, con la sua esperienza personale, riteneva che l'Italia, povera, proletaria, avesse il dovere di procurare ai cittadini meno abbienti terra e lavoro. Egli tenne un discorso a Barga "La Grande proletaria si é mossa".

"Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori, ora essi saranno agricoltori nel terreno della patria, non dovranno abiurare il nome della patria, ma coltiveranno terreni, costruiranno o case, ponti, vedendo in alto, agitato, il nostro tricolore".

A causa di un tumore allo stomaco, morì nel 1912.

Lo studio di Pascoli a Castelvecchio

 

Un uomo di cultura, che aveva vissuto in maniera disperata le disgrazie famigliari, che era stato avvilito da una filosofia che annullava i valori e comunicava angoscia, non poteva reagire urlando, come i rappresentanti dell'Avanguardia europea.

Con essi Pascoli non ebbe alcuna relazione, eppure le innovazioni linguistiche, i temi trattati, la poetica proposta fanno di Pascoli il rinnovatore della letteratura italiana e la radice della poetica di Futuristi, Dadaisti, Surrealisti, che si sono affermati dopo di lui.

Tema centrale della sua poesia é il nido-casa, come luogo di protezione, il nido-culla, come regressione verso l'infanzia, il nido vuoto delle presenze familiari, a cui si accompagna spesso l'immagine del cimitero.

Accanto al nido, le rondini che attraversano il cielo, i rintocchi delle campane, che riportano alla dolcezza dell'infanzia, o richiamano pensieri tristi di morte.

Poi i fiori, mai visti come trionfo della natura, ma visti come simbolo di solitudine, di fragilità, come annunciatori di dolore, come ornamento alle tombe dei propri cari.

Sullo sfondo restano indistinte le campagne romagnole, con la loro nebbia, la loro umidità, il cielo incerto, i temporali improvvisi.

Pascoli osserva e offre frammenti poetici, brevi componimenti che sono dei quadretti di vita campestre, in cui gli elementi non sono ben definiti, hanno contorni sfumati, come le tele degli impressionisti.

Questa é poesia di memoria autobiografica, rievocata con struggente commozione. Oltre a descriverle in modo indefinito, il poeta carica ogni cosa di significati simbolici; ogni cosa allude al nido, all'infanzia, ai morti, alla morte in genere.

In psicologia si parla di "regressione verso l'infanzia", dovuta ai traumi subiti e alla paura di incontrare ancora malvagità e ingiustizia.

In un saggio critico "Il fanciullino" Pascoli espone la sua poetica.

Se la scienza non aiuta a conoscere la realtà, il mistero, bisogna ricorrere all'intuizione: attraverso improvvise intuizioni si possono scoprire le corrispondenze tra le cose. (Baudelaire, Rimbaud).

Pascoli dice che solo il poeta sa cogliere questo legame, perché il poeta ascolta la voce del fanciullino che ha dentro.

Un fanciullo che guarda le cose in modo particolare, che sa cogliere il senso più profondo in modo intuitivo ed emotivo.

Non siamo noi dai piccoli, ma é una condizione interiore; noi possiamo crescere, invecchiare, ma il fanciullo rimane sempre piccolo.

Lo spunto deriva da un passo di un dialogo filosofico di Platone, il Fedone. Socrate sta parlando dell'immortalità dell'anima, e un discepolo Cebes, gli confida che lui ha paura della morte, come se ci fosse in lui un fanciullo che ha paura di queste cose.

Leggiamo alcune parti di questo saggio.

Prima di analizzare alcune poesie, parliamo del linguaggio del Pascoli.

Il poeta non descrive, suggerisce. Egli usa sempre un tono colloquiale, mescolando termini classici, termini tecnici, scientifici, descrive piante, fiori e animali, come se avesse fatto studi di botanica e zoologia.

Usa anche il dialetto dei contadini, sentito nella campagna romagnola dell'infanzia. Un linguaggio suggestivo, per esprimere in tanti modi la sua angoscia, e quella della sua generazione, di fronte al mistero della vita.

Usa molte figure retoriche ( analogie, metafore, allitterazioni), una in particolare l'onomatopea: usare suoni linguistici capaci di imitare i rumori naturali, (gre-gre, chiù, don-don).

C'é un uso suggestivo di consonanti e vocali nel verso, per cu si produce un suono capace di riprodurre un'azione, un rumore (sciabordare, tintinnio, crepitio).

Ricordiamo, infine, che Pascoli non é stato solo il poeta-fanciullo, ma in molti componimenti ha celebrato miti ed eroi dell'antichità classica, rivisitati in forma moderna e riletti come uomini con le loro debolezze e dubbi.

X AGOSTO

La terra, tra tanti mondi sereni é l'unica a essere sede del male, per la malvagità dei suoi abitanti. Sofferenza e ingiustizia, questi i sentimenti che il poeta comunica.

NOVEMBRE

Un quadretto paesaggistico. All'inizio una giornata luminosa: sembra primavera. Ma alcuni elementi rivelano il disinganno: i rami secchi, le foglie che cadono leggere a terra alludono alla precarietà della vita. Alla fine un messaggio di morte. Dall'illusione della primavera si passa alla realtà dell'inverno.

E' l'estate dei morti (legame tra S.Martino-novembre-morte).

In tante poesie si parla di temporali, che alludono a interiori tempeste psicologiche, a minacce sospese.

IL LAMPO

Si riportano gli affetti di sgomento, di incubo che provoca un naturale fulmine di notte.

Apparizione e sparizione istantanea, immagine di una realtà disgregata, guardata con gli occhi spaventati del poeta-fanciullo.

TUONO

L'angoscia del vivere. Solo il nido é un rifugio.

IL LIBRO

Il libro in cui sono descritte le ragioni delle cose, da millenni. Il libro é aperto dinanzi agli occhi degli uomini. L'uomo lo sfoglia, ma il libro resterà misterioso.


LAVANDARE

Un quadretto impressionistico, un paesaggio avvolto nella nebbia, un aratro abbandonato in un campo arato a metà. Le lavandaie sciacquano i panni e cantano un canto popolare di nostalgica tristezza, qualcuno se n'è andato, lasciando sola la donna.

Che con triste ironia si paragona all'aratro.

 

IL FANCIULLO MUSICO

Cap. 1

È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che per primo in sé lo scoperse, ma lacrime ancora e tripudi suoi. 

Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena meraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell'età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell'angolo d'anima d'onde esso risuona. E anche, egli, l'invisibile fanciullo, si perita vicino al giovane più che accanto all'uomo fatto e al vecchio, ché più dissimile a sé vede quello che questi. Il giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; ché ne sdegna la conversazione, come chi si vergogni d'un passato ancor troppo recente. Ma l'uomo riposato ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e l'armonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, come d'un usignuolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora.


Cap. 3

Ma è veramente in tutti il fanciullo musico? Che in qualcuno non sia, non vorrei credere né ad altri né a lui stesso: tanta a me parrebbe di lui la miseria e la solitudine. 

Ma io non amo credere a tanta infelicità. In alcuni non pare che egli sia; alcuni non credono che sia in loro; e forse è apparenza e credenza falsa. Forse gli uomini aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni e operazioni; e perché con le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia. Ma i segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dei.

Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d'amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l'amore, perché accarezza esso come sorella (oh! Il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve) , accarezza e consola la bambina che è nella donna. Egli nell'interno dell'uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell'uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell'anima di chi più non crede, vapora d'incenso l'altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce.

E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: Impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. 

C'è dunque chi non ha sentito mai nulla di tutto questo? Forse il fanciullo tace in voi, professore, perché voi avete troppo cipiglio, e voi non lo udite, o banchiere, tra il vostro invisibile e assiduo conteggio. 

Fa il broncio in te, o contadino, che zappi e vanghi, e non ti puoi fermare a guardare un poco; dorme coi pugni chiusi in te, operaio, che devi stare chiuso tutto il giorno nell'officina piena di fracasso e senza sole.
Ma in tutti è, voglio credere.

 

GIOVANNI PASCOLI


X AGOSTO

San Lorenzo, Io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.


Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.


Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!


LAVANDARE

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese,
quando partisti, come son rimasta,
come l’aratro in mezzo alla maggese.


NOVEMBRE

Gemmea l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E' l'estate
fredda, dei morti.


IL LAMPO

E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d'un tratto;
come un occhio, che,largo,esterrefatto,
s'aprì si chiuse, nella notte nera.


IL TUONO


E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d'arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s'udì di madre, e il moto di una culla.


IL LIBRO

Sopra il leggìo di quercia è nell’altana,
aperto, il libro. Quella quercia ancora,
esercitata dalla tramontana,

viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico. Eccolo: aperto,
6sembra che ascolti il tarlo che lavora.

E sembra ch’uno (donde mai? non, certo,
dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
delle montagne e il vento del deserto,

sorti d’un tratto...) sia venuto, e lento

sfogli — se n’ode il crepitar leggiero —
le carte. E l’uomo non vedo io: lo sento,
invisibile, là, come il pensiero...


II

Un uomo è là, che sfoglia dalla prima
carta all’estrema, rapido, e pian piano
va dall’estrema, a ritrovar la prima.


E poi nell’ira del cercar suo vano
volta i fragili fogli a venti, a trenta,
a cento, con l’impazïente mano.

E poi li volge a uno a uno, lentamente,

esitando; ma via via più forte,
più presto, i fogli contro i fogli avventa.

Sosta... Trovò? Non gemono le porte
più; tutto oscilla in un silenzio austero.
Legge?... Un istante; e volta le contorte
pagine, e torna ad inseguire il vero.


III

E sfoglia ancora; al vespro, che da nere
nubi rosseggia; tra un errar di tuoni,
tra un alïare come di chimere.

E sfoglia ancora, mentre i padiglioni
tumidi al vento l’ombra tende, e viene
con le deserte costellazïoni
la sacra notte. Ancora e sempre: bene
io n’odo il crepito arido tra canti
lunghi nel cielo come di sirene.


Sempre. Io lo sento, tra le voci erranti,
invisibile, là, come il pensiero,
che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti,
sotto le stelle, il libro del mistero.



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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