mercoledì 9 giugno 2021

LA DIVINA COMMEDIA: INFERNO MALEBOLGE (canti 16°, 17°, 18°)

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Relatrice SILVIA LADDOMADA

Virgilio e Dante continuano il loro percorso lungo l'argine del sabbione rovente del 7° cerchio, dove hanno incontrato i sodomiti e si sono intrattenuti col maestro Brunetto Latini.

Ad un tratto 3 sodomiti, attratti dalla foggia del vestito di Dante, capiscono che é un fiorentino e gli chiedono di parlare con loro.

Siccome devono sempre correre, sono costretti a procedere come "in un girotondo" per poter parlare col poeta.

Sono tre rinomati cittadini fiorentini, di parte guelfa, vissuti nella seconda metà del 1200, che avevano operato per il bene e la grandezza di Firenze, vittime della colpa di sodomia.

Ma nella Divina Commedia Dante separa sempre il comportamento morale dei personaggi dal loro operato.

Quindi colloca nel 7° cerchio i suoi concittadini, ma questo non gli impedisce di apprezzare le nobili qualità di queste persone e di altre che sono state tanto onorevoli.

Uno di loro, Jacopo Rusticucci, chiede a Dante se a Firenze c'é ancora "cortesia e valore".

Il poeta risponde che purtroppo c'é una nuova classe sociale, proveniente dal contado, attaccata al commercio e all'ambizione di ricchezza"

La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni".


Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l’un l’altro com’al ver si guata.


O Firenze i nuovi venuti che ti hanno invasa e i loro rapidi guadagni hanno in te prodotto orgoglio e intemperanza così grande, che già se ne duoli.

Questo gridai io a fronte alta. A questa mia esclamazione i tre, sentita questa risposta, si guardarono l'un l'altro con stupore e con dolore, dinanzi alla sicura affermazione del loro concittadino.

I tre fiorentini sodomiti
 

 

 

Le anime, nell'aldilà, possono prevedere il futuro, ma non sanno nulla del presente. In questa occasione Dante aggiunge questo particolare alla condizione delle anime, ma sopratutto lancia la sua invettiva, il suo giudizio negativo su Firenze.

Sembra maturata la grande occasione che permette a Dante, forte delle profezie ricevute, di giudicare la sua odiata-amata Firenze. La sua ira non l'affida alla voce altrui (Ciacco, Farinata, Brunetto), ora la sua indignazione sembra una solenne denuncia dei mali di Firenze, una protesta coraggiosamente espressa, una nota autobiografica. "Così gridai con la faccia levata", a fronte alta, appunto.

Continuando la discesa, Dante e Virgilio giungono sull'orlo di un baratro, dove si getta il Flegetonte, come una rumorosa cascata.

Da questo baratro si solleva una creatura mostruosa, che sembra volare nell'aria, o meglio, nuotare come un palombaro.

E' Gerione, custode dell' 8° cerchio, in cui sono condannati i fraudolenti, coloro che hanno ingannato il prossimo.

Gerione é un personaggio mitologico, nella classicità é un mostro a tre teste e 6 braccia. Dante rielabora l'immagine e lo rende ancora più mostruoso: il Gerione di Dante ha il viso umano, il corpo di serpente, le zampe di leone e la coda di scorpione.

E' l'allegoria della frode, del tradimento, sia contro chi si fida che contro chi non si fida.

Ha la falsa faccia dell'uomo giusto, tipica di chi vuole ingannare. La faccia di chi vuol salvare l'apparenza della sua natura insidiosa. Sarà Gerione a trasportarli nell' 8° cerchio.

Ma, mentre Virgilio cura le trattative per il trasporto, Dante si ferma a guardare i violenti contro l'arte, "gli usurai", accovacciati per terra nel sabbione, che si abbandonano a un pianto violento e disperato e tentano di ripararsi dalle fiamme che cadono dal cielo, con le mani, simili a cani alle prese con mosche e pulci.

Sono le anime di coloro che preferiscono il guadagno dell'usura al lavoro dignitoso e onesto.

Ognuno di loro fissa un sacchetto, appeso al collo, su cui é disegnato il proprio stemma famigliare. Dante non riconosce nessuno, ma nota le insegne di alcuni nobili famiglie: sui sacchetti appesi al collo é disegnato un leone, una scrofa, un'oca, 3 capre.

Lo stemma di famiglia, una vanità del passato é ora un rimprovero perenne, sembra essere diventato il marchio del loro degrado.

E' una visione avvilente, sono anime immeritevoli di stima, Dante non rivolge loro la parola e si affretta a raggiungere il maestro.

Sulle spalle di Gerione, i due poeti giungono nell' 8° cerchio, il cerchio di "Malebolge", termine inventato da Dante.

Dopo il gruppo di anime incontinenti, cioè incapaci di dominare le passioni, dopo gli eretici, dopo i violenti contro il prossimo, contro se stessi, contro Dio, la natura e l'arte, Dante incontra ora i peccatori di frode, di inganno, nei confronti di chi non si fida. Nel nono e ultimo cerchio incontrerà i traditori di chi si fida.

Il cerchio di Malebolge é costituito da pietre di color ferrigno, come tutta la parete dell' Inferno. Al centro di questo campo maledetto, si apre un pozzo immenso: il lago ghiacciato di Cocito, dove si é riversato il Flegetonte, fiume di sangue bollente ora solidificato. Lo spazio tra l'orlo del pozzo e la parete infernale é circolare e il suo fondo é diviso in 10 fossati, o bolge.

Dalla parete nell'Inferno partono tante sporgenze di roccia che convergono verso il centro, verso il pozzo e fanno da ponte su ogni bolgia.

Per rendere meglio l'immagine, Dante fa riferimento ai castelli medievali, circondati dai fossati e provvisti di ponti levatoi. Per cui, come dalle soglie delle fortezze partono i ponti levatoi, così dalla parete esterna partono degli scogli che s'incurvano sulle bolge (quindi i fossati) e terminano sul margine del pozzo.

Custodi di questo cerchio sono i diavoli, non più rappresentati come mostri pagani, ma come i diavoli raffigurati nelle tele medievali, con le corna e la coda.

In queste bolge Dante colloca i seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, cattivi consiglieri, seminatori di scandali e scismi, falsari e alchimisti.

Le anime di questo cerchio non ispirano nessuna pietà umana. Dante esprime tutto il suo disprezzo verso peccati avvilenti e degradanti e verso personaggi meschini. In Malebolge la colpa non ha nessuna scusa, perchè non si accompagna a qualche giustificato sentimento. Dante si chiude nel gelo dell'indifferenza e dell'orrore, senza scrupoli ed esitazioni. I personaggi sono tutti smascherati spietatamente e con pieno distacco. In queste bolge buio, peccato, viltà e odori nauseabondi si confondono, generando un'estetica del brutto, di cui Dante è creatore.

In questo cerchio cambia il registro linguistico, evidenziato da uno stile comico, realistico, fondato su termini umili, popolari, volgari e scurrili, e su rime aspre e dure.

Dante e Virgilio, scesi con uno scossone dal dorso di Gerione, cominciano il loro percorso mantenendosi lungo la parete infernale e guardano a destra i peccatori della 1^ bolgia: i seduttori che hanno ingannato donne indifese e i ruffiani, costretti a marciare in senso opposto, frustati dai diavoli cornuti; immagine che traduce, in termini popolari, l'idea ossessiva della tentazione e della colpa.

I Seduttori
Tra i seduttori Dante colloca un personaggio del suo tempo e uno mitologico. Tra di loro Dante individua e riconosce un nobile guelfo bolognese, Venedico Caccianemico, il quale accortosi dello sguardo di Dante, abbassa la testa, credendo di sottrarsi al riconoscimento. Ma Dante lo smaschera. E' inutile nascondersi. E l'anima confessa che si trova lì perchè aveva spinto la sorella a soddisfare le voglie di un marchese estense, per motivi politici.

E poi si giustifica pure, dicendo che nella bolgia ci sono più bolognesi di quanti ce ne siano vivi in Bologna.

Ma subito interviene un diavolo a fustigarlo, dicendo "via, ruffian, qui non sono femmine da conio" (via ruffiano, qui non ci sono femmine da ingannare").

Virgilio lo invita poi a guardare, tra le anime, un personaggio della mitologia: Giasone. 

E ’l buon maestro, sanza mia dimanda, 
mi disse: «Guarda quel grande che vene, 
e per dolor non par lagrime spanda:

quanto aspetto reale ancor ritene!        

(Guarda quel grande che avanza e che nonostante l'angoscia, subisce la pena come se non l'avvertisse, senza spargere lacrime. E quanta regale fierezza conserva nell'aspetto).

Un atteggiamento simile lo aveva mostrato Capaneo (violento contro gli dei, cerca anche nell'Inferno di sfidare la volontà divina, cercando di non giacere supino, sul sabbione, come gli altri dannati, sotto le fiamme di fuoco che scendono dall'alto, bruciandoli).

Dobbiamo notare che di solito i personaggi mitologici che Dante colloca nell' Inferno hanno sempre una regale fierezza, un fascino proveniente dall'età delle favole.

Dante riconosce loro una dignità che non hanno gli altri peccatori.

Ha incontrato Giasone. E' quel personaggio mitologico che con la spedizione degli Argonauti riuscì a riprendere, dalla Colchide il vello d'oro del montone, che apparteneva al tempio di Delfi. Nell'impresa era stato aiutato da Medea, che aveva tradito suo padre per aiutare Giasone a conquistare il vello.

Ma lui l'aveva sedotta e abbandonata. Colpa per la quale Giasone é condannato tra i seduttori.

Sempre costeggiando la parete rocciosa, Dante e Virgilio giungono in prossimità della seconda bolgia. Qui vi sono gli adulatori, i lusingatori. Dante sente dei lamenti, dei rumori, simili a quelli che si sentono quando qualcuno mangia con ingordigia, come maiali che grufolano. Avanzando un pò sullo scoglio che fa da ponte, Dante scorge nel buio della fossa, le pareti ricoperte di muffa nauseabonda.

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso 
vidi gente attuffata in uno sterco 
che da li uman privadi parea mosso.                    

E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, 
vidi un col capo sì di merda lordo, 
che non parea s’era laico o cherco.                             

Quei mi sgridò: «Perché se’ tu sì gordo 
di riguardar più me che li altri brutti?». 
E io a lui: «Perché, se ben ricordo,                              

già t’ho veduto coi capelli asciutti, 
e se’ Alessio Interminei da Lucca: 
però t’adocchio più che li altri tutti».                             

Ed elli allor, battendosi la zucca: 
«Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe 
ond’io non ebbi mai la lingua stucca».                       

Vede gente "attuffata nello sterco", anime che si percuotono da sole, così come in vita hanno accarezzato gli altri con le parole, ora sono untuosi di merda, come untuosi erano stati i complimenti verso gli altri. Tra le anime lorde di sterco, Dante riconosce Alessio Interminelli, un nobile cavaliere guelfo di Lucca, noto per le sue abitudini a condire ogni discorso con adulazioni, complimenti, per la semplice e personale soddisfazione di farli, a differenza, invece dei ruffiani, che imbrogliano per conto di altri.

Quella degli adulatori, é una vera bolgia infernale. Il linguaggio volgare, plebeo, la rima aspra; tutto evidenzia la degradazione dell'uomo, avvilito e sommerso nei suoi rifiuti. Nell'immaginare questa fossa Dante si é rifatto certamente a quegli affreschi o mosaici medievali, che raffigurano peccatori e diavoli nel giorno del giudizio universale, immagini che suscitano ribrezzo e ammoniscono i viventi.

Nel caso di Interminelli, Dante precisa che incontrandolo nell'Inferno egli non é più quel cavaliere dai capelli curati, ora é privo di individualità, é un volgare personaggio, colto col capo lordo di merda, nel fondo di una bolgia, consapevole che la sua colpa, la lusinga facile, lo ha abbruttito in quel modo.


(Se ricordate, anche Filippo Argenti, immerso con gli iracondi nel fango dello Stige, apostrofato da Dante, aveva reagito, rischiando di far rovesciare la barca traghettata da Flegiàs. Qui, invece, non c'é nessuna reazione. Nell'immondizia in cui giace, Interminelli non ha nessuno scatto ribelle, se non la confessione della colpa e il gesto bestiale con cui si batte la zucca, la testa, cosi ignobilmente imbrattata).

Ma non basta.

Virgilio invita Dante a guardare un altro personaggio, questa volta tratto dalla mitologia: la meretrice Taide, resa celebre da una commedia del poeta latino Terenzio (Eunuco).   

Appresso ciò lo duca «Fa che pinghe», 
mi disse «il viso un poco più avante, 
sì che la faccia ben con l’occhio attinghe                   

di quella sozza e scapigliata fante 
che là si graffia con l’unghie merdose, 
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.                        

Taide è, la puttana che rispuose 
al drudo suo quando disse "Ho io grazie 
grandi apo te?": "Anzi maravigliose!". 

E quinci sien le nostre viste sazie».       
                     

Una cortigiana greca al seguito di Alessandro Magno, che lusinga con erotiche provocazioni il suo amante, qui descritta come una donna sudicia e scarmigliata " che si graffia con l'unghie merdose". Alla fine é Virgilio che chiude. "E quinci siano le nostre viste sazie".

( E di questo luridume ci basti quanto abbiamo visto.)



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