mercoledì 27 gennaio 2021

DANTE ALIGHIERI E LA CULTURA DEL SUO TEMPO

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 RELATRICE: SILVIA LADDOMADA


Abbiamo tracciato un rapido percorso biografico di Dante Alighieri, lo abbiamo visto impegnato nella vita politica di Firenze del 1300.

Ma le beghe politiche erano allora più feroci di oggi.

Dal 1295 ricoprì diverse cariche fino al culmine del 1300, quando diventa priore.

Pochi mesi, ma abbastanza per assurgere ai vertici del potere e per esserne tragicamente travolto.

Ma in che epoca é vissuto Dante?

Nel Medio Evo, nell'età di mezzo tra l'età classica e l'età moderna.

Un'età permeata di spirito religioso, una concezione della vita che considera l'uomo strumento nelle mani di Dio, per attuare un disegno tracciato dalla teologia cristiana: il trionfo del Bene, la vittoria sul Maligno.

Diversa sarà la visione dell'età moderna: l'uomo artefice del proprio destino, l'uomo libero, collaboratore di Dio, non strumento.

Dante appare come l'interprete e il celebratore dei valori politici, religiosi e morali del Medio Evo.

Valori ormai in crisi, ma che per Dante, potrebbero essere ristabiliti, se solo le massime istituzioni medievali, Impero e Papato, rientrassero nei loro ruoli.

La sua opera é una sintesi della cultura medievale. Nei suoi scritti sono presenti tutte le ispirazioni: quella laica e quella religiosa, quella colta e quella popolare.

Dante sperimenta tutti i generi e tutti gli stili della letteratura delle origini.

Aveva studiato le discipline scolastiche di allora (le arti liberali del Trivio e del Quadrivio).

I suoi riferimenti culturali erano i classici latini, erano i filosofi greci Platone e Aristotele, attraverso le riletture di S. Agostino e S. Tommaso.

Ma leggeva anche le liriche provenzali, i romanzi cavallereschi, letture tanto in voga nelle corti del tempo.

Dante é il padre della nostra letteratura, nella poesia e nella prosa.

L'esordio poetico avviene, precocemente, verso gli anni '80 del 1200.

Componeva versi poetici con altri poeti fiorentini e toscani, scambiando con loro rime espresse in un linguaggio realistico, giocoso, a volte scurrile.

Un apprendistato, che gli offre gli strumenti linguistici, preziosi per il pluralismo e pluristilismo di cui darà prova nella sua produzione.

Si cimenta nella poesia d'amore, in linea col canone lirico giunto in Toscana, come eredità della poesia siciliana. Tramite l'amico Guido Cavalcanti si avvicina allo Stilnovismo, di cui è capo Guido Guinizelli.

La concezione dell'amore espressa dagli Stilnovisti era del tutto nuova. Nella lirica provenzale o trobodorica la donna era cantata e apprezzata per la sua bellezza fisica, era la signora irraggiungibile, e l'uomo era il vassallo, lo spasimante che doveva promettere amore fedele, senza aspettarsi, ovviamente, nulla in cambio.

L'amore provenzale era cantato anche dai poeti della Scuola Siciliana. In Toscana, che aveva ereditato la produzione siciliana e i suoi canoni letterari, fu elaborata una nuova teoria, un nuovo stile, lo Stilnovo, appunto. Si afferma la teoria della gentilezza, cioè della nobiltà d'animo, come condizione indispensabile per vivere l'esperienza privilegiata dell'amore.

La donna non è più la signora, la castellana. La donna non è più idealizzata, ma spiritualizzata. E' una donna-angelo, un tramite tra l'uomo e Dio. Alla donna è rivolta la lode, l'ammirazione per la sua bellezza spirituale, per le sue virtù. L'uomo è ricompensato dalla beatitudine che lei diffonde.

In questo genere letterario si inserisce la "Vita Nova" di Dante, nata quindi nel raffinato ambiente letterario fiorentino. Una raccolta di liriche e di commenti in prosa, per raccontare il suo amore per Beatrice, un amore che aveva rinnovato la sua vita. Beatrice, una donna "venuta dal ciel in terra a miracol mostrare". Quella Beatrice che nel Paradiso sarà la guida di Dante, quale simbolo della Grazia, della Fede, della Teologia. Di Beatrice le cronache dicono che era figlia di Folco Portinari, e moglie di Simone dei Bardi. Per Dante è stata simbolo di virtù e perfezione.

La giovane è morta prematuramente e Dante ha composto la Vita Nova due anni dopo la sua morte (1292). Per molti studiosi, critici e criticoni, tranquilli! Dante aveva 3 figli ed era sposato con Gemma Donati, pensate, sorella di quel Corso Donati, amico di Dante poi capo dei Guelfi Neri. (Tanto gentile).

Dopo la composizione della "Vita Nova", Dante cade in uno stato di crisi, in uno stato di confusione intellettuale, che verrà rappresentata con l'immagine della selva oscura nella Divina Commedia. Per il giovane Dante non più l'amore, ma la filosofia rappresenta il percorso verso la vera conoscenza di Dio.

Verso i 30 anni Dante si dedica agli studi filosofici, si orienta verso la corrente razionalistica, mettendo in dubbio le Verità di fede cristiana.

Accetta di entrare nella vita politica, in seguito alla modifica degli Ordinamenti di giustizia, che non permetteva ai nobili di accedere alle cariche pubbliche.

Ma sappiamo con quali esiti.

Dante diventa un esule. Si deve rassegnare a una vita errabonda, sempre ospite di Signori italiani, più o meno potenti, presso cui svolge diversi incarichi.

L'esilio, con le sue lacerazioni, amplia la veduta di Dante e arricchisce la sua cultura, sollevandolo a una dimensione meno limitata di quella municipale fiorentina.

Sono anni fecondi sul piano letterario, come se cercasse di compensare la frustrazione politica e umana.

La scrittura letteraria diventa veicolo di idee, di concetti filosofici.

Nel 1304 compone "Il Convivio", un banchetto di sapienza ai non letterati, per appagare la loro fame di conoscenza.

Un trattato enciclopedico, rimasto incompleto, su svariati argomenti.

Ma non é scritto in latino, come tante enciclopedie medievali, ma in volgare, per raggiungere i lettori comuni, il pubblico medio delle città.

Per la prima volta il volgare viene esteso a una trattazione di elevato impegno letterario, per dimostrare tesi culturali, filosofiche o scientifiche.

Ecco Dante, padre della prosa italiana.

Dante riflette sul ruolo del volgare, per la diffusione del sapere laico tra il popolo. Dante ha compreso che la lingua volgare, la lingua del popolo, può diventare lingua letteraria nel panorama linguistico italiano.

Petrarca, in una lettera a Boccaccio, é stato il primo a definire Dante, "padre della lingua italiana".

Per difendere la dignità e il ruolo della lingua italiana, Dante compone nel 1305 il trattato "De vulgari eloquentia".

Si rivolge questa volta a un pubblico di dotti, e sostiene, in latino, che il volgare é una lingua adeguata a scrivere alti argomenti.

Una tesi del genere suonava strana all'epoca, presso gli intellettuali, abituati a pensare che il volgare, parlato ormai dalla gente, fosse privo di dignità artistica.

Dante si sforza di smontare questo pregiudizio e lo dice in latino, facendo capire che ai dotti egli si rivolge.

Non si limita a difendere il volgare, ma lo dimostra nella pratica, citando i versi dei poeti in volgare vissuti prima di loro, citando i poeti siciliani, gli stilnovisti, i poeti toscani.

Saranno questi poeti, dice Dante, i maestri della nuova lingua, i creatori del volgare illustre; una lingua perfetta, non per come é usata quotidianamente, ma per come gli scrittori sapranno elaborarla.

La Toscana era ormai la regione guida dell'Italiano letterario, per la centralità geografica, per la ricchezza della vita economica, sociale e culturale.

Naturalmente il volgare doveva essere depurato da residui popolari, vocaboli rozzi, costruzioni intricate, accenti campagnoli, che non potevano essere usati in contesti più elevati.

Una lingua che doveva essere cardinale, illustre, regale e curiale.

Cardinale - Punto di riferimento, cardine, fra altri dialetti.

Illustre - destinato alla cultura.

Regale - da usare nelle regge, nelle corti papali e non.

Curiale - da usare nelle sedi di governo, in politica.

Dante auspicava che Comuni, Signorie, ducati, regni minori parlassero in Italia lo stesso idioma. Non c'erano le condizioni storiche, mancava un sovrano che coordinasse tutti .

Però esisteva, in Italia, una ideale comunità costituita da persone, che fisicamente dispersi, potevano parlare questa lingua comune.

Occorreva quindi che l'Italia non fosse divisa tra piccoli signori, in lotta tra loro. Occorreva ripristinare un'autorità centrale.

Pur essendo in esilio, Dante guardava ancora all'Impero, come Istituzione centrale.

Quando nel 1308 l'Imperatore Enrico 7° di Lussemburgo scese in Italia, per ripristinare nel Paese le proprie prerogative politiche ed economiche, Dante sperò nella sua utopia.

Fu questa speranza che alimentò l'opera politica "De monarchia", scritta nel 1213.

Purtroppo l'Imperatore morì improvvisamente a Siena e così il sogno di Dante rimase irrealizzabile.

Nell'opera politica, scritta in latino, Dante sostiene che occorre un solo principe per la pace e la prosperità nel mondo.

L'autorità universale é quella dell'Imperatore, il cui ruolo deve essere riconosciuto da tutti e soprattutto dalla Chiesa, che aveva anche potere temporale, cioè politico.

Ecco perchè contestava il papa Bonifacio 8°, che come politico aveva sostenuto i Guelfi Neri a Firenze, favorendone l'ascesa nel governo della città e provocando l'esilio di Dante.

In questo trattato Dante affronta il tema dei rapporti tra Impero e Chiesa.

Spetta all'Impero governare il mondo, la Chiesa deve esercitare solo il potere spirituale.

Le due Istituzioni sono i due Soli, i due astri che devono illuminare il mondo.

Ma ormai siamo alla soglia dell'età moderna.

Tanto gentile e tanto onesta pare

Tanto gentile e tanto onesta pare è un sonetto di Dante Alighieri contenuto nel XXVI capitolo della Vita Nova, uno dei più chiari esempi dello stile della loda

«Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua devèn, tremando, muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare.

ella si va, sentendosi laudare,
benignamente e d'umiltà vestuta,
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender no la può chi no la prova;

e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: Sospira.»


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