domenica 17 giugno 2018

Centenario prima guerra mondiale-"Il conflitto attraverso la poesia di Trilussa"

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      RELATRICI: ANNA PRESCIUTTI - NADIA BUMBI





Il secolo breve è passato, rapido e denso.

Di qui a cent’anni, diceva Trilussa, qualcuno s’imbatterà in qualcosa che farà ricordare un avvenimento lontano, codificato nei libri di storia, reso oggettivo e purificato da ogni emozione dalle parole asettiche e fredde dello storico: la guerra, quella che poi sarà detta “la grande guerra”, la “strana guerra” combattuta lassù ai confini di un’Italia che cercava di trovare una connotazione territoriale.

Qualcosa che apparirà come un “montarozzo” nella terra scavata dalla zappa del contadino intento nel suo lavoro.


“Fra cent’anni”
 Da qui a cent'anni, quanno
ritroveranno ner zappà la terra
li resti de li poveri sordati
morti ammazzati in guerra,
pensate un po' che montarozzo d'ossa,
che fricandò de teschi
scapperà fòra da la terra smossa!
Saranno eroi tedeschi,
francesci, russi, ingresi,
de tutti li paesi.
O gialla o rossa o nera,
ognuno avrà difesa una bandiera;
qualunque sia la patria, o brutta o bella,
sarà morto per quella.

Ma lì sotto, però, diventeranno
tutti compagni, senza
nessuna diferenza.
Nell'occhio vôto e fonno
nun ce sarà né l'odio né l'amore
pe' le cose der monno.
Ne la bocca scarnita
nun resterà che l'urtima risata
a la minchionatura de la vita.
E diranno fra loro: - Solo adesso
ciavemo per lo meno la speranza
de godesse la pace e l'uguajanza
che cianno predicato tanto spesso!


Il poeta romano, disincantato, usa il suo solito linguaggio popolano, per definire i resti ammucchiati di persone morte per una bandiera, una patria. Non “la Bandiera” o “la Patria”, ma una delle tante bandiere e patrie che hanno mandato al macello i figli, generazione persa. Tra le ossa ammucchiate, i teschi sussurreranno tra loro, consapevoli di aver creduto alla “minchionatura” della vita e di essere ora tutti compagni. Forse.




Trilussa aveva ragione. 


 Ora veramente sono passati cento anni e molte agenzie educative o associazioni pubbliche e private si sono attivate per ricordare la I guerra mondiale. Anzi, la sua fine.


Noi oggi la ricordiamo attraverso gli occhi e il linguaggio di un poeta che sa unire il disincanto alla pietà, rifuggendo da ogni considerazione politica, dalla tracotanza del patriottismo. Lui non vede l’Italiano, o il Francese, o il Tedesco. O l’ “Ingrese”.


Lui vede solo l’Uomo. Un uomo sprecato nel fango, nel sangue, nel gas; e sì che sarebbe potuto diventare un lavoratore, un intellettuale, un padre, un nonno…


Trilussa usa un liLa speculazzione delle parole”nguaggio che potremmo definire romanesco medio, comprensibile, il dialetto (non quello greve del Belli, per esempio) della borghesia piccola piccola che fatica, ma desidera tanto, emanciparsi.

Il “dialetto italianizzato” di Trilussa ha aiutato i romani a conoscere la lingua che poteva unificare la giovane nazione ancora in fieri. Non dovremmo fargliene una colpa: il poeta voleva comunicare. Per intenderci, tra Belli e lui, c’è la differenza che corre tra l’umanità romana di Anna Magnani e quella di Alberto Sordi o Carlo Verdone. La prima è stata sempre uguale a se stessa, i suoi personaggi rappresentano una condizione sociale e solo quella. Gli altri riflettono la “tipizzazione” di un’umanità nella quale tutti possono riconoscersi.


Il romanesco italianizzato di Trilussa gli ha permesso di farsi comprendere da tutti i suoi lettori.


L’utilizzo del regno animale, poi, è stato il mezzo che gli ha consentito di parlare liberamente del “bestiario” umano e, soprattutto, di farsi accettare senza problemi anche da coloro che con ironia garbata mette alla berlina.

Per parlare del pontefice Benedetto XV che aveva cercato in tutti i modi di evitare l’ “inutile strage”, Trilussa usa l’immagine del ragno che pazientemente tesse la tela e scrive:

“Er ragno bianco”


Un Ragno Bianco fece un bastimento:
piantò du zeppi in croce
drento una mezza noce,
filò la tela, che servì da vela,
entrò ner mare e se n’annò cór vento.
Un’Ostrica, che vidde la partenza,
je disse: — Dove vai, povero Ragno?
Io te vedo e te piagno! Che imprudenza!
Nun vedi er celo? Pare
che manni a foco er mare:
in ogni nuvoletta
c’è pronta una saetta,
c’è un furmine che casca
framezzo a la burrasca.
Come cammini, senza direzzione,
tu ch’hai perso la bussola e nun ciai
nemmanco la risorsa der timone?
— Eppuro — disse er Ragno sottovoce —
un’unica speranza che me resta
è de potè sarvà da la tempesta
er tesoro che tengo ne la noce.
Io nun so dove vado e quanno arivo,
ma porto, per incarico speciale,
er seme de quell’arbero d’Ulivo
che ce darà la Pace Universale.


Il poeta non evita argomenti scabrosi che possono metterlo in difficoltà, ma la sua ironia elegante lo fa passare indenne, forse, anche dal solo sospetto di critica.


“La madre panza”

Vedete quel’ometto sur cantone
che se guarda la panza e se l’alliscia
con una specie de venerazzione?
Quello è un droghiere ch’ha mischiato spesso
er zucchero còr gesso
e s’è fatta una bella posizzione.
Se chiama Checco e è un omo che je piace
d’esse lasciato in pace.
Qualunque cosa che succede ar monno
poco je preme: in fonno
nun vive che per quella
panzetta abbottatella.


E la panza j’ha preso er sopravvento
sur core e sur cervellom tant’è vero
che, quanno cerca d’esternà un pensiero
o deve espone quarche sentimento,
tiè d’occhio la trippetta e piano piano
l’attasta co’ la mano
perché l’ajuti ner raggionamento.

Quanno scoppiò la guerra l’incontrai.
Dico: - Ce semo… - Eh, - fece lui – me pare
che l’affare se mette male assai.
Mò stamo a la finestra, ma se poi
toccasse pure a noi?
Sarebbe un guajo! In tutte le maniere,
come italiano e come cittadino
io credo d’avè fatto er mi’ dovere.
Prova ne sia ch’ho proveduto a tutto:
ho preso l’ojo, er vino,
la pasta, li facioli, er pecorino,
er baccalà, lo strutto…. –

E con un’aria seria e pensierosa
aggricciò l’occhi come pe’ rivede
se nun s’era scordato quarche cosa.
Perché, Checco, è così: vô la sostanza,
e unisce sempre ne la stessa fede
la Madre Patria co’ la Madre Panza.



La speculazzione delle parole”

Una Gallina disse a un Gatto nero:
— So' tre giorni che cerco mi' marito...
Chissà com'è finito!
Pe' di' la verità ce sto in pensiero... —
Er Gatto corse subbito in cucina,
e, ner sentì ch'er pollo era già stato
bello che cucinato,
ritornò addietro e disse a la Gallina:
— Vostro marito passerà a la Storia:
perché fece una morte propio bella,
arabbiato in padella,
framezzo ar pomidoro de la gloria!
J'hanno tirato er collo, questo è vero,
ma lui rimane sempre tale e quale
un martire der Libbero Pensiero
che se sacrificò per l'Ideale...
Anzi, lo stesso coco
che l'ha tenuto ar foco, m'ha ridetto
che, fra l'antre onoranze, tra un par d'ore
sarà commemorato in un banchetto
con un discorso de l'Ambasciatore...
Io stesso, come Gatto, penserò
a sistemaje l'ossa... —


La vedova, commossa, ringrazziò...



Trilussa, famoso già agli inizi della guerra, non abbandonò le frequentazioni delle sue osterie e questo gli permise di tastare il polso della popolazione che, pur non vivendo il dramma di combattimenti e bombardamenti, tuttavia soffriva per la lontananza dei propri cari al fronte e per il timore della loro sorte.


E’ del 1914 la poesia “Ninna nanna”: l’Italia ancora non è entrata in guerra, ma la lucidità del poeta lo porta a riconoscere una sofferenza uguale a tutti gli uomini e l’ipocrisia celata dietro i toni trionfalistici
 
"Ninna nanna de la guerra"

Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna,
dormi dormi, cocco bello,
se no chiamo Farfarello,
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone
Gujermone e Cecco Peppe
che s'aregge co' le zeppe:

co' le zeppe de un impero
mezzo giallo e mezzo nero;
ninna nanna, pija sonno,
che se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno,
fra le spade e li fucili
de li popoli civili.

Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che comanna,
che se scanna e che s'ammazza
a vantaggio de la razza,
o a vantaggio de una fede,
per un Dio che nun se vede,

ma che serve da riparo
ar sovrano macellaro;
che quer covo d'assassini
che c'insanguina la tera
sa benone che la guera
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le borse.

Fa la ninna, cocco bello,
finché dura 'sto macello,
fa la ninna, che domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima,
boni amichi come prima;

so' cuggini, e fra parenti
nun se fanno complimenti!
Torneranno più cordiali
li rapporti personali
e, riuniti infra de loro,
senza l'ombra de un rimorso,

ce faranno un ber discorso
su la pace e sur lavoro
pe' quer popolo cojone
risparmiato dar cannone.




Del 1916 è “Natale de guerra”. Qui sono più evidenti l’amarezza e la consapevolezza che il mondo è tragicamente cambiato. E le certezze del Bambinello vengono spente dalle desolate risposte della Madre.


"Natale de guerra"

Ammalappena che s'è fatto giorno
la prima luce è entrata ne la stalla
e er Bambinello s'è guardato intorno.
- Che freddo, mamma mia! Chi m'aripara?
Che freddo, mamma mia! Chi m'ariscalla?

- Fijo, la legna è diventata rara
e costa troppo cara pè compralla...
- E l'asinello mio dov'è finito?
- Trasporta la mitraja
sur campo de battaja: è requisito.
- Er bove? - Pure quello...
fu mannato ar macello.

- Ma li Re Maggi arriveno? - È impossibbile
perché nun c'è la stella che li guida;
la stella nun vò uscì: poco se fida
pè paura de quarche diriggibbile... -

Er Bambinello ha chiesto: - Indove stanno
tutti li campagnoli che l'antr'anno
portaveno la robba ne la grotta?
Nun c'è neppuro un sacco de polenta,
nemmanco una frocella de ricotta...

- Fijo, li campagnoli stanno in guerra,
tutti ar campo e combatteno. La mano
che seminava er grano
e che serviva pè vangà la terra
adesso viè addoprata unicamente per ammazzà la gente...
Guarda, laggiù, li lampi
de li bombardamenti!
Li senti, Dio ce scampi,
li quattrocentoventi
che spaccheno li campi? -

Ner dì così la Madre der Signore
s'è stretta er Fijo ar core
e s'è asciugata l'occhi cò le fasce.
Una lagrima amara pè chi nasce,
una lagrima dòrce pè chi more.


Si palesa ormai la tragedia dei reduci. Di coloro che ritornano, scampati alla morte, ma segnati profondamente nel corpo nello spirito nella mente.


"L’Omo nudo"

Appena scoppiò l'obbice, un sordato,
nun se sa come, se trovò in un fosso
senza camicia addosso,
nudo com'era nato.
Provò a sentì, s'accorse d'esse sordo,
provò a parlà, s'accorse d'esse muto.
— Perché sto qui? — pensò — ce so' venuto
o me cianno mannato? Nun ricordo...
Chi so'? che fo? co' chi me so' sbattuto?
Quale sarà la cara Patria mia
ch'ha trovato giustissima la guerra?
È l'Italia, la Francia o l'Inghirterra?
la Russia, la Germania o la Turchia?
Perché la fanno? pe' riavé una terra
o pe' li prezzi de la mercanzia?...


Oggi che l'odio è quasi obbrigatorio
io nun odio nessuno!
Se ce fosse quarcuno
che me ne dasse un antro provisorio
forse risentirei tutto l'amore
che ciavevo ner core... —


Pensò, cercò, ma visto ch'era inutile
pijò una corda e s'impiccò a un cipresso.
E fece bene: l'omo senza Patria
diventa l'assassino de se stesso


Abbiamo conosciuto un Trilussa inedito; sicuramente è più noto per le sue fulminanti poesie brevi, le sue Favole, i suoi sonetti. Anche se qualcuno lo ha accusato di non prendere mai posizione - Trilussa è passato indenne anche dal fascismo e dalla Seconda Guerra mondiale, pur non avendo mai preso né la “tessera” di fascista né quella di antifascista -, ha affidato le sue considerazioni amare e disincantate alle sue poesie, quelle che gli valsero il 1 dicembre 1950, a venti giorni dalla morte, la carica di Senatore a vita per meriti artistici e letterari.


"Bonsenso pratico"

Quanno, de notte, sparsero la voce
che un Fantasma girava sur castello,
tutta la folla corse e, ner vedello,
cascò in ginocchio co' le braccia in croce.
Ma un vecchio restò in piedi, e francamente
voleva dije che nun c'era gnente.

Poi ripensò: "Sarebbe una pazzia.
Io, senza dubbio, vede ch'è un lenzolo:
ma, più che di' la verità da solo,
preferisco sbajamme in compagnia.

Dunque è un Fantasma, senza discussione".
E pure lui se mise a pecorone.



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Prima di ricordare insieme i tristi anni del 1° conflitto mondiale, abbiamo pensato di alleggerire l'angoscia di questo racconto a puntate, che stiamo sviluppando, ricorrendo a un famoso ed elegante poeta del primo Novecento, il romano Trilussa, il cui vero nome era Carlo Alberto Salustri.
Nato nel 1871, Trilussa era un poeta affermato quando scoppiò la guerra: un evento che lo colpì profondamente. Molto note sono le "favole", scritte in dialetto romano, esse hanno come protagonisti gli animali, ognuno dei quali incarna un tipo umano. L'uso del dialetto, come tutte le espressioni popolari, consente di percepire con immediatezza quello che si vuole comunicare.
Nelle sue favole, relative alla guerra, il poeta non esalta né condanna la guerra; con il suo stile scanzonato  e malinconico, con il suo ironico scetticismo, Trilussa ci riporta in quel tempo drammatico, cogliendo con lungimiranza le situazioni politiche, le emozioni umane, ma soprattutto la follia di una religione della patria, fondata sul sacrificio eroico dei soldati.
 

                              Silvia Laddomada





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