mercoledì 6 aprile 2016

Print Friendly and PDF

Canto I dell'Inferno




« Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura!

Tant' è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch'i' vi trovai, dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

Io non so ben ridir com' i' v'intrai, tant' era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai.

Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto, là dove terminava quella valle che m'avea di paura il cor compunto,

guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de' raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle.

Allor fu la paura un poco queta, che nel lago del cor m'era durata la notte ch'i' passai con tanta pieta.

E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l'acqua perigliosa e guata,

così l'animo mio, ch'ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva.

Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta, sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.

Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta, una lonza leggiera e presta molto, che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto, anzi 'mpediva tanto il mio cammino, ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.

Temp' era dal principio del mattino, e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle ch'eran con lui quando l'amor divino

mosse di prima quelle cose belle; sì ch'a bene sperar m'era cagione di quella fiera a la gaetta pelle

l'ora del tempo e la dolce stagione; ma non sì che paura non mi desse la vista che m'apparve d'un leone.

Questi parea che contra me venisse con la test' alta e con rabbiosa fame, sì che parea che l'aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch'uscia di sua vista, ch'io perdei la speranza de l'altezza.

E qual è quei che volontieri acquista, e giugne 'l tempo che perder lo face, che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace, che, venendomi 'ncontro, a poco a poco mi ripigneva là dove 'l sol tace.

Mentre ch'i' rovinava in basso loco, dinanzi a li occhi mi si fu offerto chi per lungo silenzio parea fioco.

Quando vidi costui nel gran diserto, «Miserere di me», gridai a lui, «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

Rispuosemi: «Non omo, omo già fui, e li parenti miei furon lombardi, mantoani per patrïa ambedui.

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto figliuol d'Anchise che venne di Troia, poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia? perché non sali il dilettoso monte ch'è principio e cagion di tutta gioia?».

«Or se' tu quel Virgilio e quella fonte che spandi di parlar sì largo fiume?», rispuos' io lui con vergognosa fronte.

«O de li altri poeti onore e lume, vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore, tu se' solo colui da cu' io tolsi lo bello stilo che m'ha fatto onore.

Vedi la bestia per cu' io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».

«A te convien tenere altro vïaggio», rispuose, poi che lagrimar mi vide, «se vuo' campar d'esto loco selvaggio;

ché questa bestia, per la qual tu gride, non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;

e ha natura sì malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, e dopo 'l pasto ha più fame che pria.

Molti son li animali a cui s'ammoglia, e più saranno ancora, infin che 'l veltro verrà, che la farà morir con doglia.

Questi non ciberà terra né peltro, ma sapïenza, amore e virtute, e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

Di quella umile Italia fia salute per cui morì la vergine Cammilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Questi la caccerà per ogne villa, fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno, là onde 'nvidia prima dipartilla.

Ond' io per lo tuo me' penso e discerno che tu mi segui, e io sarò tua guida, e trarrotti di qui per loco etterno;

ove udirai le disperate strida, vedrai li antichi spiriti dolenti, ch'a la seconda morte ciascun grida;

e vederai color che son contenti nel foco, perché speran di venire quando che sia a le beate genti.

A le quai poi se tu vorrai salire, anima fia a ciò più di me degna: con lei ti lascerò nel mio partire;

ché quello imperador che là sù regna, perch' i' fu' ribellante a la sua legge, non vuol che 'n sua città per me si vegna.

In tutte parti impera e quivi regge; quivi è la sua città e l'alto seggio: oh felice colui cu' ivi elegge!».

E io a lui: «Poeta, io ti richeggio per quello Dio che tu non conoscesti, a ciò ch'io fugga questo male e peggio,

che tu mi meni là dov' or dicesti, sì ch'io veggia la porta di san Pietro e color cui tu fai cotanto mesti».

Allor si mosse, e io li tenni dietro. »





































Divina Commedia
 

Presentazione dell'Autore e dell'Opera

                               di Silvia Laddomada



Dante nasce a Firenze nel 1265 e muore a Ravenna nel 1321.
Il suo interesse per la vita della città di Firenze e il suo impegno politico cominciarono all'età di 30 anni. Nel 1300 viene nominato Priore della città, è la più alta carica pubblica del Comune di Firenze. Ma  il 1330 è un anno decisivo della sua vita, è il momento della sua massima ascesa alla vita politica ma è anche il momento in cui maturano  gli eventi che gli costeranno la condanna e l'esilio. Firenze è una città comunale che si autogoverna, come tante città del nord, che  dopo la guerra con Federico Barbarossa avevano ottenuto  l'autonomia dall'Impero. A Firenze, però, ci sono due fazioni, due partiti, i Guelfi Bianchi e i Guelfi Neri, che si odiano e si distruggono a vicenda. I Guelfi Bianchi erano inclini a un equilibrio tra le prerogative del Papa, che aveva potere temporale, e  quelle dell'Imperatore. Dante è a capo dei Guelfi Bianchi. Il Papa Bonifacio 8° , con la complicità dei Neri, cerca di controllare la vita politica della colta e ricca Firenze. Dante si oppone.
Nel 1301 Firenze invita Carlo di Valois, fratello del re di Francia  Filippo il Bello, a fare da mediatore tra il Papa e la città. In realtà Carlo di Valois arriva come braccio armato del papa, con cui ha stipulato un accordo per dare il potere ai Neri . Il governo dei Bianchi viene destituito e i capi vengono mandati al confino. Dante, che era andato a Roma per parlare col papa, viene trattenuto  con l'inganno e non può più ritornare a Firenze, anzi gli viene chiesto di pagare una grossa multa  perchè accusato di baratteria di uso illecito di denaro pubblico. Dante si rifiuta di pagare, consapevole della sua onestà e dirittura morale, per cui i Neri procedono confiscandogli i beni e condannandolo al rogo per contumacia.
Così nel 1302 comincia la durissima stagione dell'esilio, ospite dei Signori d'Italia (come sa di sale lo pane altrui), ospite degli Scaligeri di Verona, di molte famiglie del Nord e infine ospite di Novello da Polenta, signore di Ravenna, dove muore nel 1321, e qui viene sepolto nella chiesa oggi dedicata a s. Francesco.
Vent'anni di esilio. E' in questo periodo  che Dante compone diverse opere, tra cui il poema Divina Commedia, di contenuto morale, filosofico e teologico. Commedia perchè usa un  linguaggio medio  e non quello tragico , cioè solenne dei grandi trattati. Divina è un aggettivo che aggiunse Boccaccio, per il contenuto spirituale dell'opera.
Tre volumi, cantiche (Inferno, Purgatorio, Paradiso); cento canti.                
 E' un viaggio immaginario nell'Aldilà, compiuto nell'arco di una settimana, dall'8 al 15 aprile del 1300, settimana santa, anno santo.
Il poeta ha 35 anni, e il viaggio è allegorico, è simbolico. è il suo itinerario spirituale. Siamo in un momento di crisi sociale e morale: il papa ha un potere politico, l'Imperatore è assente, l'ingiustizia e la disonesta trionfano, in tutta la Chiesa c'è avidità di denaro, di possesso di beni materiali, c'è corruzione politica, lotte tra partiti, malvagità, traviamento dei costumi. Uno stato di degrado che porta la società ad allontanarsi dalla fede; lo stesso dante ha un momento di smarrimento, di buio,dal quale però si riprende e quasi investito di una missione profetica, si propone di riportare l'umanità sulle retta via.
Non si rivolge agli uomini con un discorso filosofico, ma decide di scrivere un racconto esemplare: gli uomini hanno bisogno della ragione,  per individuare il male e allontanarsene, e della fede, per ritrovare la grazia di Dio.
Con questo viaggio, Dante si propone di indicare agli uomini la dritta via, che l'umanità ha smarrito, e di mostrare loro con un racconto allegorico, che il male commesso nel mondo si tramuta in pena eterna , a meno che non ci sia un ravvedimento, un pentimento, anche in fin di vita. (Manfredi nel Purgatorio "la misericordia di Dio ha sì gran braccia che prende tutto ciò che si rivolge a lei") .
Nel suo viaggio Dante incontra personaggi famosi dell'antichità, personaggi mitologici ma anche persone note della sua epoca, della sua città, che egli mostra puniti o premiati dalla giustizia divina, proponendo così dei modelli di comportamento per i suoi contemporanei.
Essendo un'opera di significato morale e teologico, e evidente che Dante si sia documentato. Le fonti, quindi.  Confluisce in questo poema la poesia  latina , quella volgare francese e italiana, la filosofia antica, quella della Scolastica, la tradizione Patristica, il vecchio e Nuovo testamento, l'astronomia e l'astrologia.
Dante immagina che le anime, pur essendo puri spiriti, patiscano sofferenze, a volte anche disgustose, come se avessero un corpo fisico. La pena  assegnata  dalla giustizia divina è in rapporto al peccato commesso, secondo la legge del contrappasso. (patire il contrario). Esempio: i golosi, amanti di cibi appetitosi, ora sono immersi nel fango e squartati da Cerbero; gli indovini che volevano prevedere il futuro, hanno la testa girata verso le spalle e camminano all'indietro (contrappasso per contrapposizione); i consiglieri fraudolenti, che in vita agirono di nascosto, ora sono nascosti in una fiamma  che li ricopre completamente. (contrappasso per analogia).

L'Inferno è immaginato come un cono rovesciato, il cui vertice coincide col centro della Terra, dove si trova Lucifero, angelo ribelle che fu scaraventato dal Paradiso.  La Terra, per l'orrore e il ribrezzo verso quest'angelo,    si è ritirata, creando la voragine infernale, e finendo dall'altra parte del globo, sotto forma di monte (Purgatorio) .
All'interno di questo luogo buio, le anime dei peccatori, traghettate dal demone Caronte, attraverso il fiume Acheronte, vengono giudicate da Minosse, mitico re di Creta,  e assegnate ai vari gironi, nove in tutto, immaginati tutti come superfici rotonde ( il passaggio da uno all'altro è possibile attraverso un dirupo scosceso).
All'ingresso dell'Inferno Dante colloca gli ignavi, coloro che in vita non si sono adoperati nè per fare il bene, nè per evitare il male. Non sono graditi nè ai demoni, nè agli angeli, sono nell'Antinferno.
Nel primo cerchio c'è il Limbo, , dove si trovano le anime dei grandi uomini che non hanno conosciuto Cristo e  i non battezzati.
Dal secondo al quinto cerchio ci sono gli "incontinenti", coloro che non seppero dominare i loro vizi (lussuria, gola, avarizia e prodigalità, ira, accidia).
Il sesto cerchio racchiude le anime degli eretici.
Nel settimo cerchio si trovano i violenti, divisi in gironi, in gruppi. Violenti contro il prossimo,  contro se stessi e contro Dio, l'arte e la Natura).
L'ottavo cerchio è quello delle Malebolge, il cerchio dei fraudolenti, degli ingannatori di chi non si fida: ruffiani, seduttori, lusingatori, simoniaci, indovini e maghi, barattieri, ipocriti, ladri, falsi consiglieri, seminatori di discordie e scismatici, falsari).
Il nono cerchio, il peggiore, il lago ghiacciato di Cocito,  racchiude le anime dei fraudolenti, degli ingannatori di chi si fida: traditori dei parenti, della patria, degli ospiti, dei benefattori.
Al centro del lago c'è Lucifero  con tre facce, che dilania i grandi traditori dell'Impero (Bruto e Cassio) e di Cristo (Giuda).
Per dare voce e immagine  a tutto questo universo, nei suoi aspetti umani e divini, Dante non usa un linguaggio unico e omogeneo, egli sceglie per il poema sacro il plurilinguismo e il pluristilismo, mescola gli stili, amplia il lessico, accosta al dialetto fiorentino altre forme  dialettali, di varia provenienza, inventando, quasi, una lingua  che poi diventerà la base lessicale  dell'italiano che parliamo ancora. Dante, sommo poeta, padre della lingua italiana.

Primo canto
Il quadretto realistico che Dante descrive nel primo canto è semplice: il poeta si è smarrito in una selva, in un bosco buio, senza sentieri, senza via d'uscita. All'improvviso vede una luce che illumina le pendici di un colle; basta seguire il sentiero in salita, pensa, e spariranno la paura e l'angoscia del buio del bosco. Ma ecco un animale selvatico che lo ostacola, una lonza (un ghepardo); è quasi alba, Dante prosegue, ma c'è ancora una belva, un leone e poi avanza una terribile e famelica lupa. Dante quasi vorrebbe tornare indietro, ma improvvisamente appare Virgilio, sommo poeta latino, un mito per Dante, che lo consola e gli promette che un bravo veltro , un cane da caccia, rimanderà indietro quelle belve. Ma se vuole arrivare lassù, alla luce di quel colle, Dante deve accettare di fare un lungo viaggio. Lo accompagnerà il suo maestro, Virgilio.

Questo canto è ricco di simboli: la selva rappresenta il luogo dell'errore, del peccato, della perdita dei valori, della crisi morale. E' il sonno della ragione, non ci si rende conto di come si sia scivolati nel male.
Il colle, rivestito dai raggi è la Verità, che si può raggiungere con la ragione, ma soprattutto con la fede.
Le tre belve rappresentano i te vizi maggiori che attanagliano l'animo umano: la lonza è la lussuria, la disonestà, la corruzione dei costumi;  il leone è la superbia, la sfrontatezza di chi detiene il potere, calpestando leggi e diritti altri; la lupa è l'avidità, il desiderio di possesso delle ricchezze, il desiderio di beni terreni.
Queste tre belve rappresentano bene la società agli inzi del 1300, e Firenze in modo particolare. Si auspica l'arrivo di un veltro per rimuovere gli ostacoli. Chi sarà? Forse Dante pensava a un nuovo papa, a un signore italiano, a un imperatore onesto.
Virgilio rappresenta la retta ragione, che riconosce i propri limiti e riconosce il Bene da conquistare. Ma non basta l'intenzione per salvarsi; occorre conoscere più a fondo le radici del bene e del male.
Il peccatore deve fare un viaggio interiore, dovrà conoscere le pene dell'Inferno, conseguenza di una vita sbagliata, dovrà sentire il bisogno di purificarsi, pentirsi (Purgatorio) e dovrà aspirare a una sfera di valori che trascendono la materia, l'istinto. Valori che conferiscono una superiore dignità al vivere umano. Una volta consapevole di  questo bisogno, l'uomo potrà, con la fede e la grazia, raggiungere la luce di quel colle (Paradiso).

Nessun commento:

Posta un commento