Relatrice
Silvia LADDOMADA
Vorrei rivolgere oggi un
invito a riflettere su alcune emozioni che abbiamo vissuto in questi
ultimi tre mesi, e su alcune consapevolezze che abbiamo acquisito.
Siamo nella fase 2, diciamo.
Le raccomandazioni alla
prudenza sono sprecate. Lo vediamo, in giro c’è gente che non
rispetta le norme elementari, c’è chi sostiene che è stata tutta
una farsa, che non c’è niente da temere.
Ci vuole davvero del coraggio,
per sostenere queste idee.
La vita deve riprendere, è
vero. Pensiamo ai disagi economici di molte categorie di lavoratori e
lavoratrici. Si teme che se non siamo morti di coronavirus, potrebbe
accadere che si debba morire di inedia, di fame. E questo è molto
pericoloso, per le conseguenze sociali che ne deriverebbero.
Ricordate la canzone di Rita
Pavone, “La pappa col pomodoro”? Ad un certo punto diceva “ La
storia del passato ormai ce l’ha insegnato, che un popolo affamato
fa la rivoluzion”. Ma non è di questo che dobbiamo parlare
stasera.
Io condivido l’idea che ora
si debba non riprendere, ma rinascere, dando importanza a tutto
quello che nobilita la nostra umanità. Il dott. Lazzaro, riferendo
un racconto del libro “Il cammino dell’uomo” di Martin Buber,
ha detto che un giorno Dio va nel giardino e chiede “Uomo dove sei?
A che punto sei nella tua vita?"
Bene, lo scopo è quello di
far emergere quelle forze latenti insite in noi, quella carica di
umanità che ci porta verso l’altro e verso l’alto.
Ritorniamo indietro col
pensiero, rivediamo noi e la nostra vita alla fine di febbraio.
Pensavamo che i nemici capaci di disturbare la nostra vita fossero
l’immigrazione, la recessione, l’inquinamento, il terrorismo.
Invece siamo stati costretti ad affrontare un nemico invisibile e
terribile: un microorganismo, un virus, il coronavirus, che ha
bruscamente trasformato la nostra quotidianità. La metafora bellica
si è imposta rapidamente: è guerra?, non è guerra? Stranamente,
però, a differenza di quanto accade in un conflitto armato, la
nostra umanità si è manifestata con gesti di solidarietà e
fratellanza. Di fronte alle devastazioni, al contagio che dilagava,
che sorpassava confini regionali, e poi nazionali, e poi
continentali, questa morte con la falce a tracolla, dalle fattezze
medievali che seminava terrore a livello planetario, abbiamo capito
che eravamo tutti uguali, non esistevano più confini, muri, eravamo
noi, essere umani, ad affrontare nella stessa barca un’emergenza
sanitaria epocale, un mare tempestoso con una riva sempre più
lontana.
Abbiamo scoperto di essere
capaci di un raccoglimento stretto, inusuale, che ci obbligava a
unirci ai pensieri e ai sentimenti di tutti.
La vita improvvisamente è
rimasta sospesa. Uno, due, tre...stella, tutti fermi, ricordate il
gioco dei bambini?
Sono rimasti sospesi i
progetti che avevamo in cantiere prima della crisi, è rimasta
sospesa la nostra capacità di fare progetti nuovi. Noi, gente
stanca, occupata, frettolosa, senza pazienza, con una vita che
correva come un fiume, senza mai incontrare intralci, abbiamo
improvvisamente capito che gli intralci fanno parte della vita. Ci è
mancato improvvisamente quello che prima avvertivamo come dispersivo
e travolgente: la frenesia degli spostamenti, la molteplicità dei
contatti, degli incontri. Siamo stati costretti a vedere la vita da
un divano. Prima poteva essere una prospettiva desiderabile, poi ci è
sembrata una condanna senza appello. Improvvisamente l’imperativo
categorico è stato: «io resto a casa». Sono venute meno le
relazioni di affetto, di amicizia, di conoscenza. Preclusi gli
incontri, le passeggiate, niente visita a genitori, a figli, a
coniugi lontani. Niente bar, niente cinema, niente teatro, palestra,
ipermercato, sport. Una semplice uscita è stata condannata come
possibile, involontario pericolo di contagio. Le piazze sono
diventate vuote e surreali, le città sembravano spettrali. Tutto era
deserto. E’ stato drammatico quando il virus ci ha impedito di
andare a mostrare l’affetto per chi era ammalato, affidandoci alle
cure eroiche degli operatori sanitari. Nessuna possibilità di
accompagnare i propri cari che hanno lasciato questo mondo. Per loro
solo una veloce benedizione religiosa.
Questa pestilenza, che
camminava invisibile di giorno e di notte, ci ha chiesto di non
toccarci, di non stringerci la mano, di restare lontani gli uni dagli
altri. Ma anche queste precauzioni non sempre sono bastate a
rassicurarci. A seconda delle notizie ascoltate dai mass media, e a
seconda del nostro stato d’animo, abbiamo sperato, ci siamo
disperati, siamo stati fatalisti.
L’indeterminatezza
temporale, il non sapere quando sarebbe finita l’emergenza, ha
creato una specie di spaesamento.
Abbiamo dovuto imparare ad
auto strutturare il tempo, che di solito è scandito dall’esterno.
Eppure in questo essere
sospesi tra obbligata solitudine e desiderata socializzazione, in
questo restare a casa, abbiamo sentito molto il bisogno di essere
parte di un’unica realtà di relazioni.
Ci siamo preoccupati della
salute degli altri e dei risvolti di un’emergenza sanitaria
planetaria.
Il telefono e la rete sono
stati gli strumenti che ci hanno permesso di tenere vive le
relazioni, per non lasciare posto a sentimenti di isolamento e di
abbandono. Attraverso il digitale abbiamo alimentato gli incontri
interpersonali; abbiamo inviato messaggi, battute, vignette e video
estemporanei; abbiamo moltiplicato le video chiamate, per salutarci,
per fare cin-cin davanti allo schermo.
Nell’emergenza abbiamo dato
il meglio.
E’ stata l’occasione per
condividere la quotidianità dei figli. Ci siamo reinventati la vita
in casa, in pochi metri, abbiamo condiviso gli spazi, abbiamo fatto
qualcosa insieme, dalla cucina al disegno, al canto, al bricolage.
Abbiamo sperimentato la presenza di tutta la famiglia, in cui si può
anche dire di no, ma in un contesto in cui c’è tempo per
recuperare la relazione.
Molti genitori si sono
impegnati per consentire la didattica a distanza dei propri figli.
Molti giovani hanno seguito le lezioni on line. Gli anziani sono
diventati più digitali, per comunicare con figli e nipoti.
E non abbiamo avuto paura del
silenzio. Si può restare in silenzio, magari davanti alla finestra a
pensare, ad ascoltare il silenzio: pensare ci rende più umani, più
consapevoli, più intelligenti.
E poi, nella memoria di tutti,
resterà quel “andrà tutto bene”, scritto su bandiere
improvvisate, disegnato dai bambini, rilanciato dai social. In questo
tragico momento gli Italiani hanno dimostrato la capacità di
resilienza. Dice una pubblicità: “Se non c’è la strada, gli
Italiani sanno inventarsene una”.
L’Italia che resiste ha
scelto due luoghi: le finestre o i balconi e i social network. Dai
balconi i famosi flasc-mob: ad una certa ora si sentiva cantare
l’Inno di Mameli, oppure si applaudiva in solidarietà col
personale sanitario, che si consumava di fatica negli ospedali,
prestando servizio nelle aree critiche.
O ancora si sono visti
ondeggiare la luce dei cellulari o i lumini. La gente si è
affacciata, ha cantato, suonato, ha alzato il volume dello stereo. E’
stato un modo per dire “ci siamo”, anche se a distanza, anche se
dal luogo di confino delle pareti domestiche.
Spesso, attraverso la
televisione, ha cantato e ha pregato tutta la nazione, o forse tutto
il mondo. Come dimenticare la preghiera del Papa nel deserto di una
piazza S. Pietro, su cui il cielo lasciava scorrere le sue lacrime di
pioggia?
Non era mai accaduto prima.
Tutto questo testimoniava la
gravità del momento, certo, ma è servito a raccogliere la gente, a
dare coraggio, a stimolare un sentimento e una fiducia che sembravano
incerti.
E’ stato esaltato il
patriottismo, l’orgoglio di essere parte di una comunità, un
chiudersi stretti per proteggerla. Siamo stati invitati, mentre
risuonava l’Inno, a sventolare il Tricolore, una testimonianza di
italianità, un comune sentimento di condivisione della nostra
identità.
E poi abbiamo abbiamo fatto
echeggiare le note delle canzoni «Nel blu dipinto di blu»,
«Azzurro», «La Canzone del Sole». «Tre brani, dice Paolo
Giordano, che rappresentano tre generazioni. “Nel blu” è stato
il brano che ha celebrato la rinascita dell’italianità dopo la
guerra. “Azzurro” ha accompagnato l’Italia a vivere i decenni
del benessere, prima delle contestazioni del 1968 e la “Canzone del
Sole” ha traghettato i ragazzi degli anni ‘60 fino al ‘90.
Sintesi del nostro costume, scintille che hanno saputo accendere il
patriottismo e il bisogno di essere parte della stessa comunità. E’
stata una risposta simbolica a un momento di difficoltà.
La dimostrazione, al di là di
qualche filo di retorica, che nel momento del bisogno, i simboli
della propria collettività diventano i collanti indispensabili per
affrontare la crisi».
Ora che siamo nella seconda
fase, non dovremo dimenticare i buoni sentimenti e le buone azioni.
Usare le mascherine, lavarci le mani, mantenere le distanze fisiche,
non sociali, versare nei contenitori giusti mascherine e guanti, non
deve stancarci, lo faremo per rispetto nei nostri confronti e nei
confronti degli altri.
Usiamo in modo consapevole la
libertà, diamo un senso al nostro incontrarci, domani al nostro
abbracciarci. La libertà, un valore che la nostra cultura
occidentale ha conquistato e di cui ora, che ci è stata sottratta,
riconosciamo il valore. Riscopriamo con cura il fascino della
socialità, che la relazione virtuale non potrà mai darci. Quella
relazione virtuale sempre più presente nella vita delle nuove
generazioni.
Riscopriamo i nostri valori:
“fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e
conoscenza” (Ulisse nell'Inferno). La conoscenza, la cultura, le
virtù elevano l’uomo dalle brutture, e la consapevolezza della
imperfezione della natura umana ci porta a riconoscere il limite
dell’onnipotenza dell’uomo.
Dice lo studioso Stenio
Solinas che “ fino al 1980 imperava l’homo oeconomicus, poi è
arrivato il narcisista, non tanto perché il mondo è lo specchio del
suo io, ma perché vive perseguitato dall’ansia, in uno stato di
inquietudine, di insoddisfazione, perché condannato a un eterno
presente non in grado di soddisfarlo. Venuto meno il tempo dell’etica
del lavoro e della fiducia nel progresso sociale, questo nuovo uomo
psicologico è in balia di un individualismo fine a se stesso,
afferma un’umanità senza più ostacoli da superare, in giro per il
mondo, dove non ci sono più limiti, né confini, del tutto
soddisfatto della propria centralità, convinto di una crescita
continua in linea con un progresso scientifico in grado di assicurare
ogni cura, di sconfiggere qualsiasi malattia, di prolungare
indefinitamente la propria vita terrena.
Una società che non sa cosa
farsene degli anziani inutili, andati in pensione prima di esaurire
le loro capacità lavorative, una società che mette in risalto in
ogni occasione la sensazione della loro superfluità. Come abbiamo
sperimentato in questi mesi.
Le vittime sono stati gli
anziani, non perché avessero più possibilità di venir contagiati;
in loro l’infezione si manifestava in modo più grave, perché
c’erano condizioni di malattie prima del contagio, la loro
condizione di fragilità riduceva la capacità di reagire. Quanti di
loro hanno lasciato questo mondo, chiusi in bare accatastate in carri
militari e finiti nei crematori.
Valutata l'esperienza degli
anziani, la società odierna attribuisce importanza alla forma
fisica, alla destrezza, all'elasticità nello stare al passo con le
idee nuove.
Una società che ha perso
l’idea del passato, non ha interesse per il futuro, non trasmette
perché non tramanda, vive in una sorte di eterna
giovinezza-attualità. Abbiamo un’etica della comodità e il culto
dell’edonismo e dell' autorealizzazione”.
Abbiamo invece capito in
questi mesi quanto sia fragile e precaria la nostra esistenza.
Abbiamo raggiunto una maggiore consapevolezza della realtà, certo,
un maggior livello culturale, sappiamo che la pandemia è dovuta a un
virus, non parliamo di untori, nè siamo superstiziosi. Come ai tempi
della peste del Boccaccio nel 1300 o del Manzoni nel 1600, anche noi
però, per debellare un virus siamo rimasti a casa, ci siamo lavati
le mani spesso, portiamo la mascherina, manteniamo le distanze.
In un'epoca in cui la scienza
ci aiuta a oltrepassare i confini della terra e la tecnologia
raggiunge traguardi impensabili, abbiamo capito quanto siano fragili
le conquiste di questo mondo e quanto sia matrigna la natura, diceva
Leopardi, che da sempre domina l’uomo.
Ripensare il mondo, questo
serve dopo un'epidemia.