martedì 24 maggio 2016

XIII° Canto dell'Inferno e Relazione di S. Laddomada

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G.Stradano, La selva dei suicidi(1587)


Testo XIII° Canto dell'Inferno

           (Pier della Vigna)


Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco:

non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.

Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.

E ’l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se’ nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre

che tu verrai ne l’orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».

Io sentia d’ogne parte trarre guai,
e non vedea persona che ’l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai.

Cred’io ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi
da gente che per noi si nascondesse.

Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’hai si faran tutti monchi».

Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».

Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,

sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.

«S’elli avesse potuto creder prima»,
rispuose ’l savio mio, «anima lesa,
ciò c’ha veduto pur con la mia rima,

non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.

Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».

E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’io un poco a ragionar m’inveschi.

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,

che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi:
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.

La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,

infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.

Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.

E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ’nvidia le diede».

Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,
disse ’l poeta a me, «non perder l’ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».

Ond’io a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora».

Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia

di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s’alcuna mai di tai membra si spiega».

Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.

Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.

Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.

Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.

Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.

Qui le trascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta».

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi,

similemente a colui che venire
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire.

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogni rosta.

Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte

le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo.

Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena.

In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.

Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea,
per le rotture sanguinenti in vano.

«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».

Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo,
disse «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».

Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c’ha le mie fronde sì da me disgiunte,

raccoglietele al piè del tristo cesto.
I’ fui de la città che nel Batista
mutò il primo padrone; ond’ei per questo

sempre con l’arte sua la farà trista;
e se non fosse che ’n sul passo d’Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,

que’ cittadin che poi la rifondarno
sovra ’l cener che d’Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.

Io fei gibetto a me de le mie case».






Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno...

"... Uomini fummo, e or sem fatti sterpi:
ben dovrebb'esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi" ...
"... L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto..."





 
      

 RELAZIONE DI SILVIA LADDOMADA



    



  




Siamo nel 7° cerchio, dove sono condannati i violenti, distribuiti in tre gironi: i violenti contro il prossimo (tiranni, assassini), contro se stessi e contro i propri beni (suicidi e scialacquatori) e contro Dio (bestemmiatori), e le sue manifestazioni: natura (sodomiti) e arte (usurai).
Le anime di coloro che hanno usato violenza contro gli altri, versando il loro sangue, sono grandi personaggi del passato, tiranni sanguinari, sovrani, ma ci sono anche signori delle città italiane, contemporanei di Dante.
Essi sono immersi in un fiume di sangue bollente, il Flegetonte, che circonda il girone.
Contrappasso per analogia: in vita hanno versato il sangue degli altri, ora sono immersi in un fiume di sangue bollente, dal quale non possono uscire.
Sulle sponde di questo fiume ci sono gruppi di centauri, mitici esseri metà cavallo e metà uomo (allegoria dell'umanità che domina l'istinto animale o allegoria della violenza, realizzata mediante l'intelligenza).
Questi centauri sono pronti a scagliare frecce contro le anime che tentano di uscire dal sangue.
I dannati sono immersi in base alla gravità delle loro colpe (i tiranni fino agli occhi, gli omicidi fino alla gola, i predoni fino al petto o alla caviglia).
Virgilio chiede al capo dei centauri, Chirone, di permettere a Dante che “non è spirto che per l'aere vada”, di attraversare il fiume, per continuare il viaggio voluto da Dio.
Chirone li affida al centauro Nesso, per cui Dante e Virgilio salgono in groppa al centauro e questi li lascia al di là del fiume in una selva.
Per dare al lettore l'idea di questa selva intricata, Dante la paragona alla boscaglia in cui si rifugiano gli animali selvatici, nella zona della Maremma Toscana tra il paese toscano di Cecina(Li) e il borgo laziale di Corneto.
La selva è piena di alberi nodosi e spettrali, su cui crescono non frutti ma spine piene di “tosco”, cioè di veleno.
Su questi alberi sono appollaiate le Arpie, ripugnanti mostri mitologici, dal corpo di uccello rapace e dal volto di donna, tormentati da fame insaziabile.
(Simbolo della rapina che i suicidi hanno fatto della loro vita o simbolo del rimorso tormentoso che colpisce le loro anime).
Mostri di cui Virgilio nel suo poema, Eneide, aveva raccontato, quando Enea approdato in Sicilia, vide la sua tavola insozzata da queste figure mostruose, una delle quali predisse ai troiani pene e sventure prima di terminare il viaggio.
Dante in questa selva non vede nessuno, però sente gemiti e lamenti e immagina che provengano da anime nascoste tra quegli alberi cespugliosi.
Virgilio gli suggerisce di staccare un ramoscello e appena Dante l'ha fatto, dalla pianta esce del sangue e si ode una voce addolorata che invoca pietà per la sua triste sorte. 
Virgilio si scusa spiegando che era l'unico modo per convincere Dante che delle anime potessero essere trasformate in piante, e lo invita a rivelare il suo nome. 
Si tratta di Pier Della Vigna, cancelliere dell'imperatore Federico II, il quale racconta che al culmine del suo prestigio, i cortigiani invidiosi, lo accusarono di tradimento e lo fecero cadere in disgrazia.
Per la vergogna egli si suicidò.
Mentre Dante e Virgilio, ascoltano il racconto, si odono dei rumori ed essi vedono due anime che corrono, inseguite da cagne nere fameliche.
Sono due scialacquatori, violenti contro i propri beni, (un giovane senese e un giovane padovano, noti per sperpero di denaro e dei propri beni); uno dei quali, nascondendosi in un cespuglio viene comunque raggiunto e sbranato, provocando tante sofferenze alla pianta, in cui è tramutato un altro anonimo suicida (giudice), che si dichiara originario di Firenze e prega i poeti di raccogliere ai piedi del cespuglio i rami rotti.
Non dice Dante chi sia questo suicida, ma incontrare un fiorentino che si impicca in casa, è un chiaro riferimento alla violenza delle fazioni che sconvolgeva la vita civile di Firenze.
Pier Della Vigna era un poeta della scuola siciliana, fondata da Federico II a Palermo, nel ventennio del suo regno (1230-1250). 
Nella corte del re si radunavano tutti i poeti e letterati del centro-sud della penisola per cantare l'amore alla maniera dei trovatori provenzali; cantavano “l'amor cortese”, la donna come un essere irraggiungibile, esaltata per la sua bellezza fisica, la lealtà e la dedizione assoluta del poeta all'amata. 
Molti intellettuali oltre ad essere poeti erano anche funzionari della moderna monarchia del Sud Italia, creata da Federico II.
In particolare Pier Della Vigna (di Capua), era notaio, poi giudice della Magna Curia dell'impero e poi cancelliere e uomo di fiducia, anche personale, del sovrano, un potere senza limiti.
Dopo la sconfitta di Federico nella battaglia di Cremona nel 1248 (la guerra condotta dall'Imperatore contro i comuni italiani del Nord), Pier Della Vigna fu accusato di tradimento, portato in carcere a San Miniato e poi accecato con un ferro rovente.
Si suicidò poi a Pisa, sfracellandosi la testa contro il muro.
Molti cronisti del tempo parlarono di accuse infondate, e lo stesso Dante condivide questa opinione.
Un altro personaggio verso cui Dante prova tanta pietà; egli non parla, se non per dire che non può parlare: si commuove di fronte a un funzionario fedele, che si suicida perché ingiustamente accusato di tradimento.
In quanto uomo onesto egli ha sofferto senza colpa e Dante capisce il suo gesto, ma non lo giustifica.
Questo 13° canto è uno dei più drammatici della Commedia, in esso viene affrontato un tema di grande impatto umano e teologico, il suicidio.
A differenza dei filosofi classici, che arrivavano a legittimare il suicidio a considerarlo una manifestazione di grandezza d'animo (Catone, nel Purgatorio), per la religione cattolica il suicidio è una grande ingiuria nei confronti dell'amore di Dio. 
Ma quello che interessa a Dante non è tanto la condanna del peccatore, ma il tentare di capire come possa un uomo essere ingiusto con se stesso.
Per questo egli si serve di una figura nota per la sua moralità: un innocente, condannato ingiustamente, che con il suo gesto diventa colpevole verso se stesso.
C'è forse qualcosa che Dante sente di avere in comune col poeta, entrambi furono letterati impegnati nella vita civile e politica, vittime dell'invidia dei contemporanei e condannati da coloro a cui avevano dedicato la vita: Federico II per Pier Della Vigna e Firenze per Dante.
Ma Dante non ha ceduto alla tentazione del suicidio, ha preferito la strada dell'esilio. 
La tragica scelta del funzionario siciliano non impedisce a Dante di cantarne la grandezza morale, ma non può perdonare, perché Dio non perdona questo peccato, tant'è che con il Giudizio Universale i suicidi non rientreranno in possesso dei loro corpi ma, unici tra tutti i dannati, riporteranno le loro spoglie nella selva, per appenderle agli alberi. Il corpo rigettato starà per l'eternità davanti agli occhi dell'anima, che ancora lo vorrebbe ma non può.


Nel suo colloquio con Dante, Pier Della Vigna usa un linguaggio prezioso, elaborato, retorico, parla di se', delle cariche avute, dei suoi onori, ci trasporta nella splendida corte di Federico II e poi con tristezza ricorda il rovesciamento della sua fortuna: l'invidia dei cortigiani malevoli, che come una meretrice insinuò sospetti nel cuore di Federico che lo allontanò dalla corte, sconvolgendo il suo animo e portandolo al gesto estremo. Un linguaggio delicato, rispettoso, che Dante fa usare all'anima, quasi un omaggio alla figura di questo letterato, maestro nello stile, che alla fine sembra gioire per aver incontrato Dante, da cui spera di essere riabilitato, ricordando, una volta tornato sulla Terra, la sua fedeltà a Federico.















venerdì 20 maggio 2016

RELAZIONI DEL DOTT. GIANCARLO ARGESE E DI ELEONORA MASSAFRA

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La direttiva Bail – In

 

                                                                               

di Giancarlo ARGESE 

 



       
                                                                  

La direttiva BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive) introduce in tutti i paesi europei «regole armonizzate» per prevenire e gestire le crisi delle banche e delle imprese di investimento, partendo dal presupposto che il costo della crisi va sostenuto all’interno delle banche stesse, come accade normalmente nelle altre imprese. Dal 1 gennaio 2016 in Italia è stata introdotta la direttiva così detta Bail – In. Il Consiglio dei Ministri ha recepito a fine 2015 la direttiva europea BRRD e quindi anche il cosiddetto bail in. Voluta nel giugno 2013, nei giorni della crisi di Cipro e delle sue banche, introduce in tutti i paesi europei regole armonizzate per prevenire e gestire le crisi delle banche. Il bail in, in italiano "salvataggio interno".
Ma vediamo cosa dice, soprattutto sul
bail in, la direttiva. La direttiva BRRD fornisce alle cosiddette “autorità di risoluzione”, ruolo che in Italia è svolto dalla Banca d’Italia, di preparare piani di risoluzione che individuino le strategie e le azioni da intraprendere in caso di crisi. Le tre fasi previste dalla direttiva e svolte dalla Banca ‘Italia sono :
1) pianificare la gestione delle crisi;
2) intervenire per tempo, prima della completa manifestazione della crisi (rimuovere i vertici e avviare le operazioni di risanamento);
3) gestire al meglio la fase di “salvataggio interno”, (secondo il principio che chi detiene strumenti più rischiosi contribuisce maggiormente al risanamento).
Per il finanziamento delle misure di risoluzione è prevista la creazione di fondi alimentati da contributi versati dagli intermediari. Si ricorre alla risoluzione quando una banca è in dissesto, quando misure alternative di natura privata come la ricapitalizzazione non evitano in tempi brevi il dissesto e quando la liquidazione non salvaguarderebbe la stabilità sistemica e l’interesse pubblico.Sottoporre una banca a risoluzione, unica alternativa alla liquidazione disciplinata dal Testo unico bancario, significa avviare un processo di ristrutturazione gestito da autorità indipendenti. Questi manager, grazie all’utilizzo di tecniche e poteri contemplati dalla direttiva BRRD, puntano a evitare interruzioni nella prestazione dei servizi essenziali offerti dalla banca (come depositi e servizi di pagamento), a ripristinare condizioni di sostenibilità economica della parte sana della banca e a liquidare le parti restanti.
Le quattro fasi del risoluzione sono:
1)vendere una parte dell’attività a un acquirente privato;
2) trasferire temporaneamente le attività e passività a un’entità (bridge bank) costituita e gestita dalle autorità per proseguire le funzioni più importanti, in vista di una successiva vendita sul mercato;
3)trasferire le attività deteriorate a un veicolo (bad bank) che ne gestisca la liquidazione in tempi ragionevoli;
4)applicare il bail-in, ossia svalutare azioni e crediti e convertirli in azioni per assorbire le perdite e ricapitalizzare la banca in difficoltà o una nuova entità che ne continui le funzioni essenziali.
Con il termine bail in si definisce la svalutazione di azioni e crediti e la loro conversione in azioni per assorbire le perdite e ricapitalizzare la banca in difficoltà (o una nuova entità che ne continui le funzioni essenziali).
Dal bail-in sono escluse alcune passività:1) i depositi di importo fino a 100mila euro (protetti dal sistema di garanzia dei depositi);
2) passività garantite come
covered bonds e altri strumenti garantiti;
3) passività derivanti dalla detenzione di beni della clientela (come ad esempio
il contenuto delle cassette di sicurezza) o in virtù di una relazione fiduciaria (come i titoli detenuti in un conto apposito);
4) passività
interbancarie (ad esclusione dei rapporti infragruppo) con durata originaria inferiore a 7 giorni;
5) passività derivanti dalla
partecipazione ai sistemi di pagamento con una durata residua inferiore a 7 giorni;
6)
debiti verso dipendenti, debiti commerciali e quelli fiscali purché privilegiati dalla normativa fallimentare. Sono completamente esclusi dall’ambito di applicazione e non possono quindi essere né svalutati né convertiti in capitale: i depositi protetti dal sistema di garanzia dei depositi di importo fino a 100.000 euro; le passività garantite, inclusi i covered bonds e altri strumenti garantiti; cassette di sicurezza o i titoli detenuti in un conto apposito; le passività interbancarie con durata originaria inferiore a 7 gg; i debiti verso i dipendenti, i debiti commerciali e quelli fiscali purché privilegiati dalla normativa fallimentare. Tutti gli strumenti finanziari, depositati presso il conto titoli delle banche soggette a bail-in, ma con emittente diverso dalla banca in questione, non rischiano niente: questi investimenti non sono soldi della banca, quindi non entrano in alcun modo nella procedura di ristrutturazione o insolvenza.








 

TRAGEDIA E COMMEDIA NEL MONDO GRECO

di Eleonora MASSAFRA
TRAGEDIA
La tragedia nasce intorno al 536/35 nell’anno della 61° olimpiade, e ad essere rappresentate erano alcune vicende del mito come quelle che riguardavano il ghenos, la famiglia.
E’ indubbio che in alcune tragedie rappresentate ci sono dei chiari riferimenti politici e sociali che riguardavano il periodo storico in cui esse erano rappresentate, così come è indubbio che l’epoca in cui erano rappresentate influenzava la rappresentazione.
Del complesso studio sull’origine della tragedia nel mondo greco antico si sono occupati illustri autori del passato e autori contemporanei che avvalendosi di fonti antiche come il lessico Suda e delle testimonianza di autori come Aristotele, hanno formulato diverse ipotesi.
La prima ipotesi è che la tragedia sia nata dal Ditirambo, il canto corale in onore di Dioniso. Secondo questa teoria il solista del coro, che ricopriva il ruolo più importante nel dialogo, si sarebbe pian piano staccato per diventare il protagonista della narrazione, dando vita alla tragedia.
La seconda ipotesi, invece, vede la nascita della tragedia dalla satira; cioè dal genere comico con temi scherzosi e brevi, si passa a quelli sempre più seri. Questo passaggio ha influenzato anche il cambiamento del metro, con cui erano composti i versi e cioè dal tetrametro al giambo, che è il metro utilizzato nei versi parlati.
La tragedia è un genere strutturato secondo uno schema ben preciso in cui si distinguono alcune parti: prologo, parodo, episodi, stasimi, esodo.

ARISTOTELE, Poetica, 12, 1452b
Prologo è tutta la parte di tragedia prima dell’ingresso del coro, episodio tutta la parte di tragedia compresa tra canti corali interi, esodo l’intera parte di tragedia cui non segue canto del coro. Quanto alla parte corale, parodo è la prima esibizione dell’intero coro, stasimo un canto del coro senza anapesti e trochei, kommòs è un canto di lamento eseguito in comune dal coro e dalla scena.”
Il prologo veniva ulteriormente classificato sulla base di alcune scene, durante le quali, un attore poteva entrare o uscire, in base a questo si calcolava se il prologo avesse una, due o tre scene.
Le tragedie dei più grandi e famosi esponenti del mondo teatrale greco, cioè Eschilo, Sofocle e Euripide, sono distinguibili anche dalle differenze nel numero delle scene del prologo. Eschilo ha prologhi a una o tre scene, mai a due e preferisce il monologo piuttosto che il dialogo a due, perché soprattutto in Eschilo il prologo ha una funzione informativa strettamente necessaria alla comprensione immediata della situazione scenica.
Anche Sofocle usa prologhi a una o tre scene e all’interno di essi anticipa temi che saranno trattati durante la rappresentazione. A differenza di Eschilo preferisce il dialogo al monologo.
Euripide è l’unico dei tre che utilizza prologhi a due scene in cui i personaggi non sono quelli principali ma altri. Questi danno notizie a volte eccessive rispetto agli eventi che si svolgeranno, talvolta il prologo di Euripide anticipa la fine della tragedia.
La parodo è la prima esibizione del coro, esso entra in scena marciando a ritmo dell’ aulos, il doppio flauto e intonando versi cantilenati. L’ingresso avviene secondo alcune modalità, o perché semplicemente è previsto e dunque il pubblico si aspetta il suo ingresso, oppure perché è stato chiamato in causa dall’attore, può entrare per portare una notizia o perché incuriosito da un evento che si sta svolgendo in quel momento.
Gli  episodi sono le parti dialogate tra gli attori, tradizionalmente l'attore era uno solo e dialogava con il coro, poi con Eschilo sarebbe stato introdotto un secondo attore e con Sofocle un terzo: al numero massimo di tre attori potevano esserne aggiunti degli altri, muti e in veste di comparse. Il dialogo si svolge attraverso tre modalità, la resis, la stichomuthía e la monodìa.
La resis è il discorso informativo, entro cui troviamo un personaggio che porta la notizia, ad esempio un messaggero angelico, un servo.
La stichomuthía è il dialogo linea per linea tra gli attori, cioè un vero botta e risposta l’uno contro l’altro con un verso a testa.
La monodia è il canto in versi lirici, in questo caso l’attore canta invece di recitare.
Gli stasimi sono degli intermezzi destinati a separare tra loro gli episodi, i canti del coro, dove questo commenta, illustra e analizza la situazione che si sta sviluppando sulla scena.
L'esodo è la parte conclusiva della tragedia, che finisce con l'uscita di scena del coro. Spesso, nell'esodo si fa uso del deus ex machina, ovvero un personaggio divino che viene calato sulla scena mediante una macchina teatrale per risolvere la situazione quando l'azione è tale che i personaggi non hanno più vie d'uscita.
COMMEDIA
La commedia greca è più antica della tragedia, fu portata in scena per la prima volta durante le feste dionisiache. Viene attribuita principalmente ad Aristofane che risulta essere il principale autore perché di lui ci sono giunte 11 commedie intere. La struttura della commedia è simile a quella della tragedia, ciò che cambia sono i temi, che risultano più scherzosi, a volte grotteschi.
Come genere letterario, la commedia ha conosciuto tre diverse fasi, la prima fase è detta arcaia cioè la commedia antica, la seconda è la mese cioè la commedia di mezzo, e l’ultima la nea è la commedia nuova.
Nell’arcaia distinguiamo due filoni: uno impegnato e uno di evasione, quello impegnato era caratterizzato dall’attacco politico personale attinente all’attualità e il costume, quello di evasione era meno aggressivo e si ispirava alla favola popolare, al racconto mitologico, al folclore dove dominano tematiche utopiche ambientate in luoghi fantastici.
La mese o commedia di mezzo si afferma in un periodo politico in cui la polis perde importanza e dunque anche i temi trattati man mano si chiudono nel privato trattando argomenti meno impegnati con personaggi di basso ceto sociale, le parti del coro si riducono sempre di più ma le maschere grottesche continuano a riscuotere successo.
La nea, la commedia nuova si sviluppa durante la piena crisi della polis avvenuta dopo la sconfitta di Atene nel 404 e la vittoria di Filippo di Macedonia. Scompare completamente la visione della polis tradizionale, esse viene intesa come una città cosmopolita; questa nuova visione influenza anche la produzione letteraria e infatti nella nea troviamo temi universali come il destino, l’avarizia, l’amore. Scompaiono del tutto i temi politici, il mito e perfino il coro si riduce ad una apparizione di poco conto.