lunedì 26 novembre 2018

LETTURA ATTIVA: Madame Bovary di Gustave Flaubert

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Madame Bovary si colloca in un momento particolare della cultura del 1800.


Il romanzo viene pubblicato nel 1857 (stesso anno della pubblicazione dei “Fiori del Male” di Baudelaire). La cultura romantica era in crisi, erano in crisi gli ideali, le virtù, i valori assoluti.

Stava nascendo un nuovo movimento: il Positivismo, che nella narrativa (Naturalismo e Verismo italiano) si proponeva la descrizione realistica di un ambiente e l’oggettività scientifica dell’indagine psicologica dei personaggi.

La scienza era il motore del progresso della società e il metodo scientifico doveva essere esteso a tutti i campi del sapere, anche all’arte e alla narrativa.

Quindi il romanzo di Flaubert rivelò subito il suo carattere innovativo e antiromantico. L’ambiente decritto minuziosamente, la realtà quotidiana fatta di particolari, di oggetti, di gesti.

Da questa realtà emerge la psicologia dei personaggi, in particolare i sogni e le fantasie della protagonista, Emma Bovary.

Attraverso la descrizione del reale, l’autore fa emergere lo spazio interiore dei personaggi.

La pubblicazione di “Madame Bovary” costò allo scrittore un processo per “offese alla morale pubblica e religiosa”, da cui però fu assolto.

Era il primo caso di censura di un’opera letteraria da parte dell’autorità; sotto accusa era l’adulterio della protagonista e soprattutto l’atteggiamento del narratore, che non interveniva con opportuni giudizi di condanna. Al contrario, sembrava giustificare la condotta del personaggio.

La vicenda, che occupò anche le pagine dei giornali, contribuì alla popolarità dell’autore; la critica letteraria si divise nel giudizio sull’opera, ma ben presto arrivarono i riconoscimenti.

L’opera apriva la strada a quasi tutte le esperienze narrative di fine Ottocento.

In realtà siamo difronte ad un modo oggettivo di raccontare, e questa è la novità. Personaggi, situazioni non sono presentati, interpretati e commentati dall’autore. Egli non lascia trasparire la sua visione del mondo e della vita. Le vicende vivono “da sole”, grazie alla precisione, all’efficacia del linguaggio. La scelta di un narratore che non interviene, che si limita a registrare con fedeltà quanto accade, è un aspetto decisivo del realismo di Flaubert che egli stesso ha teorizzato, indicandolo come atteggiamento di “impersonalità del narratore”. I fatti vengono raccontati attraverso i sentimenti, gli occhi, le sensazioni della protagonista.

“L’artista nella sua creazione deve essere come Dio nella creazione, sì che ovunque lo si senta, ma non lo si veda. E’ tempo di dare all’arte la precisione delle scienze fisiche”, dice Flaubert.

L’opera è un’analisi fredda della vanità e della dissoluzione della vita borghese, colta da Flaubert nei suoi aspetti più desolanti e meschini, e descritta come una condizione immodificabile, da cui è impossibile uscire.

La critica alla società borghese, la denuncia delle sue convenzioni, della sua ipocrisia, sono condotte con assoluta assenza di partecipazione alla vicenda, che sottolineano ancora di più l’interesse di denuncia feroce.

La protagonista è una signora di provincia che mal sopporta il succedersi regolare della vita quotidiana e ne sogna l’evasione, ma non è capace di andare al di là del sogno, dell’immaginazione.

Si scontrano la realtà degradata e volgare del mondo borghese e l’aspirazione a un mondo superiore che, per Flaubert, non è un valore autentico, ma al contrario, è il desiderio sempre frustrato di qualche altra cosa, destinato a non soddisfarsi mai.

Agli occhi della protagonista, questo scontro con la realtà sempre più insignificante e volgare è la causa di una sofferenza, di una insoddisfazione lacerante, quella che la porta alle fantasticherie, alle letture solitarie, infine all’adulterio, da cui spera la liberazione dalla noia del matrimonio e della provincia, al suicidio finale di fronte al fallimento di quello che aveva creduto il vero scopo della sua vita.

Col successo del romanzo, si diffuse anche un neologismo (una parola nuova): il bovarismo, la malattia di Emma, ovvero il conflitto insanabile tra una vita ideale, costruita sui libri e sui sogni, e la grigia verità del quotidiano, che approda alla scoperta della noia e del vuoto dell’esistenza. Il bovarismo è, in pratica, l’eterno conflitto tra la banalità della vita quotidiana e i sogni e le ambizioni di ciascuno di noi.


..." Alle tre, cominciò il ballo figurato con sorprese.9 Emma non sapeva ballare il valzer:10 tutti lo ballavano, anche la signorina d’Andervilliers e la Marchesa; erano rimasti soltanto gli ospiti del castello, circa una dozzina di persone. Uno dei ballerini, tuttavia, che tutti chiamavano familiarmente Visconte, con un panciotto molto aperto che sembrava modellato sul petto, andò una seconda volta a invitare la signora Bovary, assicurandola che l’avrebbe guidata e che se la sarebbe cavata bene.
Cominciarono pian piano, poi andarono più in fretta. Giravano: tutto girava attorno a loro, le lampade, i mobili, le pareti e il pavimento, come un disco su un perno. Nel passare vicino alle porte, la gonna d’ Emma s’avvolgeva ai calzoni di lui; le gambe entravano le une nelle altre; egli abbassava lo sguardo verso di lei, ella lo alzava verso di lui; si sentiva presa da un torpore, e si fermò. Ripresero, e, con un movimento più rapido, il Visconte, trascinandola, disparve con lei sino in fondo alla galleria, dove, ansimante, ella fu lì lì per cadere, tanto che, per un attimo, gli appoggiò la testa sul petto. Poi, girando sempre, ma più lentamente, egli la ricondusse a sedere; ella si arrovesciò contro la parete, parandosi gli occhi con la mano.


Quando li riaprì, una dama, seduta su uno sgabello in mezzo al salone, aveva dinanzi tre ballerini inginocchiati: scelse il Visconte e il violino riprese.
Tutti li guardavano: passavano e ripassavano, ella con il corpo immobile e il mento abbassato, ed egli sempre nella stessa posa, il corpo eretto, il gomito arrotondato, la bocca sporgente. Quella sì che sapeva ballare il valzer! Continuarono a lungo, e stancarono tutti gli altri.
Si chiacchierò ancora per qualche minuto, e, dopo gli addii o, piuttosto, il buon giorno, gli ospiti del castello andarono a coricarsi.
Charles saliva, aggrappandosi alla ringhiera, con le ginocchia che gli s’insaccavano nel corpo. Era stato, per cinque ore di seguito, in piedi davanti alle tavole da gioco, guardando giocare a whist, senza capirci nulla. Quando pertanto poté levarsi le scarpe, emise un gran sospiro di soddisfazione.
Emma si buttò uno scialletto sulle spalle, aprì la finestra e s’affacciò….

9. ballo figurato con sorprese: danza con la quale si concludeva spesso il ballo e che consisteva in una danza figura inframmezzata da scene mimate.10. valzer: era, all’epoca, considerato più audace delle altre danze, in quanto il cavaliere sorregge la dama cingendole la vita. Emma, più provinciale della sua ospite, non lo sa ancora ballare.



... La signora Bovary, con la schiena voltata, teneva il viso appoggiato contro un vetro; Léon aveva il berretto in mano, e se lo batteva leggermente contro la coscia. «Sta per piovere,» disse Emma. «Ho il mantello,» rispose lui. «Ah!» Ella si voltò, col mento abbassato e la fronte in avanti. La luce vi scivolava come su un marmo, fino alla curva delle sopracciglia, senza che si potesse arguire che cosa Emma guardasse all’orizzonte, né che cosa pensasse entro di sé. «Allora, addio!» sospirò Léon. Ella rialzò il capo con un movimento brusco: «Sì, addio... andatevene!» Si avvicinarono l’uno all’altra: egli tese la mano, lei esitò. «All’inglese, dunque» disse ella, abbandonandogli la propria e sforzandosi di ridere. Léon la sentì tra le dita, e la sostanza stessa di tutto il proprio essere gli parve discendesse in quel palmo umido. ' Poi aprì la mano: gli occhi s’incontrarono, ed egli scomparve. …


.... Rodolphe non si voltava. Ella lo rincorse, e, chinandosi sulla sponda, tra i cespugli: «A domani!» esclamò. Egli era già di là dal fiume, e camminava rapido per la prateria. Dopo alcuni minuti, Rodolphe si fermò, e, quando la vide nell’abito bianco svanire a poco a poco nell’ombra come un fantasma, ebbe una tale palpitazione di cuore, che si appoggiò a un albero per non cadere. «Che imbecille sono!» esclamò, spaventosamente bestemmiando. «Non conta: era un’amante squisita!»
E, subito, la bellezza d’Emma, con tutti i piaceri di quell’amore, gli riapparvero. Dapprima s’intenerì, poi si ribellò contro di lei. «Ma certo! È proprio così!» esclamava gesticolando; «espatriare, caricarmi di una bambina, non posso di sicuro, io!» Si diceva queste cose per farsi più forza. » «E le complicazioni, poi, la spesa... Ah! no? no, mille volte no! sarebbe una bestialità madornale.»


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martedì 20 novembre 2018

CENTENARIO PRIMA GUERRA MONDIALE - "Pagine di Storia..."

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  MIO NONNO (Piero Sicuro) di Carosino

      Pensiero della Nipote Piera Zaccaria (a destra il marito Cosimo Clemente)
    



Foto, Cartolina e medaglie di Piero Sicuro(Coll. Clemente)




Croce di guerra e attestato di Piero Sicuro

Regio Decreto rilasciato a Piero Sicuro

                                                                      LA RELAZIONE

La relatrice prof.ssa Silvia Laddomada

Dopo il racconto dei fatti storici, con focalizzazione sulle vicende italiane, nella seconda parte sono stati letti documenti e discorsi relativi alla posizione dell’Italia, sia di esponenti politici neutralisti che intervenisti , come Giolitti, Salandra, Papini.

“…..Io avevo la convinzione che la guerra sarebbe stata lunghissima, perché si trattava di debellare i due imperi militarmente più organizzati del mondo…. Una guerra lunga avrebbe richiesto colossali sacrifici finanziari, specialmente gravi e rovinosi per un Paese come il nostro, ancora scarso di capitali e con molti bisogni...Atteso l’enorme interesse dell’Austria di evitare la guerra con l’Italia, e la piccola parte che rappresentavano gli italiani irredenti in un impero di cinquantadue milioni di popolazione,si avevano le maggiori probabilità che trattative bene condotte finissero per portare all’accordo...” (Giovanni Giolitti)

“….La gran maggioranza della popolazione, sparsa per casolari, o aggruppata in piccoli aggregati di casa, dedita al lavoro dei campi o alla pastorizia, ha scarsissima cultura; ha una coscienza politica rudimentale; ed è ignara dei superiori interessi e dei grandi ideali della nazione. Concepisce perciò la guerra come un malanno simile alla siccità, alla carestia, alla peste… La gran massa della popolazione è quasi tutta avversa a ogni specie di guerra: la moltitudine desidera la pace...” (Antonio Salandra).

“… Noi cattolici siamo per la neutralità e crediamo sia un delitto contro la Patria quello di gonfiare la portata dei nostri interessi lesi, al solo scopo di spingere il Paese in avventure da cui non potrebbe ritrarre che sventure nuove e nuove rovine...” (Osservatore romano)

“...Compagni, non è più tempo di parlare, ma di fare. Se l’incitare alla violenza i cittadini è considerato come crimine, io mi vanterò di questo crimine. Ogni eccesso della forza è lecito, se vale a impedire che la Patria si perda...” (Gabriele D’Annunzio).

“...Dei malvagi e degli idioti non mi curo. Restino nel loro fango i primi, crepino nella loro nullità intellettuale gli ultimi. A voi, giovani d’Italia, io lancio il mio grido augurale, sicuro che avrà nelle vostre file una vasta risonanza di echi e di simpatie….. Oggi una parola paurosa e fascinatrice:guerra!...” (Benito Mussolini)

“…. Ci voleva, alfine un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto; e una rossa svinatura per la vendemmia di settembre….. Siamo troppi. La guerra… fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutare la vita… Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura: La guerra è spaventosa, e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruttrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi… (Giovanni Papini)


Ci si è poi soffermati sulla sofferenza del “fante” e sulla dura vita in trincea. Sono stati trasmessi alcuni video storici di archivio e sono stati ascoltate canzoni di guerra di orchestre e di gruppi alpini.
Il prof. Pietro Speziale
Molto significativo il contributo dell’amico Pietro Speziale, che ha letto alcune poesie sulla Guerra scritte dal Maestro Giovanni Luigi Casavola e alcune pagine del diario di guerra del concittadino Michele De Lucreziis (nato il 19 ottobre 1885, morto sul campo, colpito da una pallottola nemica, sul Monte Pasubio il 16 novembre 1917). 

Tra gli interventi è stata molto gradita la lettura di una poesia, dedicata al nonno, da parte di una socia dell’Università, Piera Zaccaria, la quale ha anche fatto visionare a tutti i presenti le medaglie ed i relativi decreti di riconoscimento assegnati al nonno.
Il prof. Carmine Prisco ha letto alcuni canti di guerra, la signora Nadia Bumbi ha letto alcune pagine del romanzo “Un anno sull’altipiano” di Emilio Lussu e il poeta Giacomo Salvemini ha letto alcune poesie di Giuseppe Ungaretti e di Andrea Zanzotto.
A conclusione tutti i presenti hanno intonato la “Leggenda del Piave” mentre su un’asta oscillava la bandiera italiana.
Il prof. Carmine Prisco
Soci dell'Università

IL FANTE E LA TRINCEA

In trincea la vita scorreva con una monotonia insopportabile, interrotta solo dal grido che tutti temevano, lanciato a giorni alterni dagli ufficiali dell’uno o dell’altro schieramento:”All’attacco!”. Questo grido era il segnale dell’assalto alla baionetta, un rito tanto inutile quanto sanguinoso, che falciava ogni giorno centinaia di vite umane…..
Lettura di Nadia Bumbi
Lettura di Giacomo Salvemini

Soci dell'Università
Soci dell'Università

La fanteria doveva arrampicarsi lungo le pareti del fossato, salire allo scoperto e gettarsi contro le protezioni di fili spinato delle trincee nemiche, sotto il fuoco di sbarramento delle mitragliatrici. Quelli che non restavano impigliati tra i fili spinati e non venivano colpiti dovevano gettarsi nei fossati nemici e colpirne i difensori con la baionetta, ingaggiando una lotta corpo a corpo. Se superavano gli avversari delle prime file, dovevano subire il contrattacco delle seconde e terze file che in genere ricacciavano i superstiti nella posizione di partenza.
Così milioni di soldati morirono giorno dopo giorni nel corso di quattro (o cinque) lunghissimi anni.
Nelle trincee i fanti vivevano in condizioni prive di igiene, senza potersi mai lavare né cambiare. Erano esposti al caldo, al freddo, alla pioggia, al vento e al bombardamento dell’artiglieria avversaria.

Rimanere feriti o ammalarsi non era una bella esperienza, anche se, verso la fine della guerra, divenne la speranza di tutti, perché era l’unico modo per essere allontanati dalla trincea. Chiunque venisse ferito, doveva aspettare la notte, per essere prelevato dai barellieri, i quali dovevano attraversare “la terra di nessuno”, col rischio che qualcuno sparasse. Molti, purtroppo, che si sarebbero potuti salvare, morirono dissanguati. Da considerare anche la frustrazione dei chirurghi: molti feriti, rimasti nel fango, contraevano il tetano, e non c’era modo di salvarli.
Un altro nemico del fante in trincea erano i pidocchi. Li avevano tutti, sebbene si rapassero i capelli, ma spesso questi insetti non si limitavano a procurare prurito, ma generavano il tifo, una malattia che a quei tempi aveva un esito quasi sempre mortale.
Infine c’era lo stato di shock, una malattia psichica sconosciuta che derivava dal panico e dall’orrore per ciò che si era visto; chi ne era colpito ( lo “scemo di guerra”) era completamente disorientato, sordo agli ordini, a volte paralizzato. Molti ufficiali lo scambiavano per vigliaccheria e si
rifiutavano di far ricoverare chi ne era colpito. In molti fanti lo stato di shock era diventato una condizione permanente; vivevano in una totale indifferenza; non reagivano agli ordini e, quando veniva lanciato l’attacco, restavano fermi nelle trincee, sebbene la pena per questo comportamento fosse la fucilazione.
Dopo anni di trincea i fanti presentavano quei sintomi che i generali usavano definire “morale basso delle truppe”. Molti tentavano la diserzione, altri ricorsero alle automutilazioni, in molti casi ci fu l’ammutinamento di interi reparti.
Comunicato del gen. Cadorna: ”….Ricordo che non vi è altro mezzo idoneo per reprimere reati collettivi che quello di fucilare immediatamente i maggiori colpevoli e, allorché l’accertamento delle identità personali dei responsabili non è possibile, rimane ai comandanti il diritto e il dovere di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte...”(provvedimento della decimazione).

Dal "Diario di Guerra" di Michele De Lucreziis (cittadino crispianese a cui è stata intitolata una via).

"29.8.1917 - Il Primo battaglione del 157 Fanteria, mantiene quel tratto di linea che va dal Dente al Corno del Pasubio, la 3a compagnia ha il cosiddetto Cappello del Carabiniere, un cucuzzolo con due vallette laterali, nella Val Caprara, una facile via d'accesso pel nemico che tentasse di venire in forze, per cui è posizione da difendere fino all'ultimo uomo e vi sono i reticolati da gettare nei camminamenti perchè nessuno esca dalla trincea, ed il servizio vi è rigoroso specie di notte. Non mi pareva vero di trovarmi così vicino al nemico il quale nella notte si sentiva lavorare sul suo Dente e da esso rotolava giù detriti e ciottoli tolti a qualche galleria che andava scavando nell'interno. E mi davano un senso di misteriosa stranezza quelle vedette riparate dietro un mucchio di sassi e incappucciate, con l'occhio a scrutare nel buio o nella nebbia dinanzi e con l'orecchio teso a tutti i rumori; la parola d'ordine da esse richiesta al passaggio di chiunque, e poi nella galleria del corpo di guardia quei visi di soldati insonniti rischiarati da una lucerna fioca, alcuni sonnecchiavano seduti, altri fumavano, qualcuno chiacchierava con stanchezza, mentre dei minatori nel fondo della caverna facevano sentire i colpi monotoni e cadenzati del piccone. Veniva poi il giorno, si usciva all'imbocco della caverna a vedere il cielo e godere un po'
 di sole; verso mezzogiorno portavano da mangiare in una cesta per me e per l'altro aspirante con cui ero in servizio, e si pranzava in fondo alla galleria dove i minatori avevano smesso di lavorare in una specie di nicchia di circa un metro cubo seduti su delle casse vuote di bombe e rischiarati da una lucerna fatta con una bomba Sipe vuota. Eravamo dunque ritornati all'età della pietra, fra i trogloditi! Ma perchè ci si trovava in quella caverna? E, come mai si era balzati d'un tratto tanti secoli indietro? Tutto mi pareva stranezza e mistero, e avevo delle sensazioni nuove come se fossi rinato ad un'altra vita, in altra epoca remotissima, fra una generazione ancora molto primitiva".


*Da "Giovanni Casavola e la sua Poesia" di Pietro Speziale 


Riscossa

Sorgi, o Italia, ai tumulti cruenti

    che il tuo fato novello t'impose,

    fra le gare di libere genti,

    coronata dall'Alpi nevose,

    sorgi e salpa coll'anima altera

    sul tuo mar che fremente ti serra:

    nel fragor de la vindice guerra

    la tua Stella a brillare tornò!

 ......



Vittoria

 ......

Fummo divisi e deboli,

    l'amor ci unì più saldi:

    dal Piave i fanti balzano

    col cor di Garibaldi...



Fuor dall'Italia, o barbari!

    sul sacro suol risuona,

    la baionetta luccica,

    oltre il Danubio sprona.


......


* Giovanni Casavola, padre di "don Manlio", fu Maestro, Segretario comunale, Esperto in materia giuridica, economica ed amministrativa. Morì il 27 marzo del 1932, all'età di 72 anni.


SU "NOTIZIE, EVENTI ASSOCIAZIONE " (sito Minerva): "Indimenticabile Gianni Brera"
 

sabato 10 novembre 2018

LA PRIMA GUERRA MONDIALE

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LA GRANDE GUERRA                                                                              700 MILA MORTI ITALIANI DAI 20 AI 40 ANNI
RELAZIONE DELLA                       PROF.SSA SILVIA LADDOMADA





 
La grande guerra è stata un’inutile strage come la definì il Papa Benedetto XV fin dal 1914, il papa sconosciuto che rimase inascoltato ma che tanto si adoperò per i prigionieri e le loro famiglie. Anche se non abbiamo vissuto quegli eventi, ne siamo figli, sia per storia famigliare che collettiva. Quella guerra ha segnato drammaticamente l’immaginario, la cultura, la politica e la storia del nostro Paese. Centinaia di migliaia di vittime, mutilati, feriti, invalidi; ancora più terribile la sorte dei prigionieri che non ebbero dal Governo nessun sostegno materiale, perché considerati vili disertori. Consideriamo anche la sorte dei soldati impazziti al fronte, gli scemi di guerra. Uomini tornati dal fronte con gravi disturbi mentali.
Per molto tempo si è attribuita la causa del disagio non alla guerra, ma a devianze, a degenerazioni in individui già predisposti; si pensava che i comportamenti isterici fossero frutto di simulazioni, messe in atto per non combattere ed essere congedati, curati con ipnosi, scosse elettriche, che li facevano sprofondare ancora di più nella pazzia. Quella dei traumi psichici conseguenti alla guerra fu una pagina presto chiusa e rimossa. Si calcola però che circa 40.000 uomini con disturbi mentali finirono in manicomi statali, molto più alto è il numero di chi fece ritorno a casa e in quelle condizioni venne accolto. 

Per questo per prendere le distanze dal carico emotivo di quegli sguardi assenti e per poter ricominciare a vivere dopo il trauma collettivo dell’esperienza bellica, la gente cominciò a chiamare quei giovani con un termine feroce e ingiusto: “scemi di guerra”. Sì, la grande guerra significò anche questo: una devastazione intima che cambiò il paesaggio della mente."Il cervello sciaguattava nella scatola cranica, come l'acqua agitata in una bottiglia". La guerra ha colpito chi l'ha combattuta, ma ha colpito anche le famiglie a cui queste persone sono state sottratte per essere restituite cadaveri, o non essere restituite affatto, o restituite con devastazioni fisiche e psicologiche inimmaginabili. Non si conosce con precisione il numero delle vittime, e questo dà il segno della brutalità, della violenza della guerra. Una guerra che registrò 17 milioni di morti, tra caduti in battaglia e dispersi.
Oltre 10 milioni i feriti e gli invalidi mutilati, sia militari che civili, morti in seguito ad attacchi bellici, per cattiva nutrizione,, per malattie dovute alle penose condizioni di vita, negli anni di guerra. I morti italiani furono circa 700 mila, una generazione di giovani dai 20 ai 40 anni. Fu una guerra di massa, ma anche una morte di massa. Fu la più terribile esperienza dei soldati sul campo di battaglia.
Gli eserciti mobilitarono decine di milioni di uomini, per la maggior parte contadini, che sapevano parlare solo il dialetto. Il proletariato urbano non veniva mandato al fronte, perchè doveva lavorare nelle fabbriche militari... Contadini che per la prima volta venivano a contatto con luoghi, persone e idee nuove... Contadini che non avevano nessun orgoglio, nessuna sicurezza e che "muti" passarono il Piave, come dice la celebre canzone... Contadini che si sentivano "non italiani", che conoscevano la Patria sotto forma di uno Stato lontano e vessatorio (solo tasse)...Questi poveri fanti spesso non avevano un'idea precisa sui motivi per cui si combatteva e si moriva. La guerra appariva loro come una dura necessità, qualcosa a cui non era possibile opporsi. La paura si impossessava di loro. 

Qualcuno non si presentava alla chiamata alle armi, oppure non tornava più al fronte dopo una licenza a casa, o addirittura si ricorreva all'autolesionismo: ci si infliggeva, cioè, delle ferite o delle mutilazioni, per essere dispensati dal servizio in prima linea. Bastarono pochi mesi di guerra nelle trincee per far svanire anche l'entusiasmo con cui molti giovani "interventisti" avevano affrontato il conflitto .
Le trincee, simbolo macabro della grande guerra: lunghi corridoi scavati nel terreno, disposti in più linee, protetti da filo spinato e da mitragliatrici nascoste in postazioni mimetizzate. Ben presto nelle stesse trincee si moltiplicavano i casi di diserzione, di ammutinamento, nonostante disertori e ribelli venissero condannati a morte per fucilazione. Di fronte alla disperazione delle truppe, i comandi infatti rispondevano con durezza e arroganza: negavano le licenze a chi ne aveva diritto, punivano il soldato che aveva perso il cappello in battaglia, si assegnavano a vicenda le medaglie, senza mai essere andati in prima linea.

Vigeva il sistema delle decimazioni: si individuavano i non coraggiosi e si fucilava un soldato su dieci, estraendo a sorte il nome. In molti tratti del fronte, le due trincee nemiche della prima linea distavano poche decine di metri; le sentinelle italiane potevano guardare negli occhi quelle austriache e sentire le loro voci. Come si combatteva: un lungo bombardamento preparatorio con i cannoni (che colpivano a Km di distanza) era il segnale che l'attacco stava per avvenire. Quando l'artiglieria puntava sulle retrovie nemiche, iniziava l'assalto della fanteria. I fanti, imbevuti di alcool, grappa o cocaina, scattavano fuori dalle trincee e correvano verso quelle nemiche, cercando di oltrepassare i reticolati sotto il fuoco delle mitragliatrici e dei cannoni, ed entravano nella "terra di nessuno", un'area piena di fango e pozzanghere, di crateri provocati dalle granate, di alberi spezzati e frantumati, di cadaveri abbandonati. Sapevano benissimo di andare al massacro. Arrivati a contatto col nemico, dovevano combattere corpo a corpo alla baionetta. E così ogni assalto era davvero un massacro.

Il fronte italiano


I fatti storici

Attentato a Sarajevo
All’inizio del Novecento l’Europa appare sempre più illuminata dal progresso, vive la sua belle époque. Durò poco questa effervescenza, le rivalità tra gli Stati, la produzione di armi facevano intendere che le questioni si sarebbero risolte non più diplomaticamente ma con la forza. Del resto gli artisti d’avanguardia avevano parlato di angosce esistenziali, di crisi d’identità, anticipando quelle lacerazioni interiori che avrebbero travolto milioni di uomini sparsi nel mondo. Gli Stati europei si erano divisi in due blocchi: triplice alleanza nel 1882 (Germania, Austria e Italia) e triplice Intesa nel 1907( Francia, Inghilterra e Russia). I trattati impegnavano gli Stati all’aiuto reciproco in caso di attacco. Si aspettava l’occasione. E l’occasione si presentò il 28 giugno 1914, allorché l’arciduca austriaco Francesco Ferdinando, erede al trono di Austria, si recò in Bosnia per conoscere le terre da poco annesse.
Qui a Saraievo fu assassinato da un giovane nazionalista serbo Gavrilo Princip. L’Austria dichiarò guerra alla Serbia il 14 luglio,perché si sapeva che la Serbia voleva fare della penisola balcanica un grande stato indipendente dall’Austria.
Si attivò subito il sistema delle alleanze: a favore della Serbia l’Intesa e a favore dell’Austria la Triplice Alleanza.
L’Italia rimase neutrale, perché riteneva che l’esercito italiano non fosse preparato, si era appena usciti dalla guerra in Libia, in cui si diceva, avevamo conquistato “uno scatolone di sabbia”. Molti ritenevano che la questione riguardasse l’Austria, altri pensavano di ricorrere alla diplomazia. Ben presto però l’opinione pubblica fu influenzata da accese manifestazioni di piazza, animate da D’Annunzio, da Marinetti, con discorsi patriottici e nazionalistici. Si chiedeva di entrare in guerra contro l’Austria, per liberare dal suo dominio il Trentino, la Venezia Giulia, l’Istria e la Dalmazia, completando così le guerre del Risorgimento. 

Così il governo e il Re, all’insaputa del Parlamento, strinsero un patto segreto con l’Intesa, il patto di Londra, che impegnava l’Italia ad entrare in guerra contro l’Austria. Il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra, destinazione delle truppe il nord est, concentramento al Piave. La guerra travolse tutti gli Stati europei ed extraeuropei, su cui si estendeva il dominio coloniale delle potenze in guerra. Si pensava che tutto si sarebbe risolto in pochi mesi, “ a Natale tutti a casa”, si diceva. La guerra invece durò quattro anni, e si combatté nelle trincee, profondi camminamenti scavati nel terreno, per una lunghezza di centinaia di Km.
Gli italiani combatterono sull’altopiano del Carso e lungo l’Isonzo, al confine col Trentino fino alle Alpi Carniche. Ben 11 battaglie, sanguinose, rese ancora più atroci da massicci attacchi austriaci, che organizzarono una spedizione punitiva nei confronti dell’Italia, traditrice. Fu conquistata Gorizia, ma nel 1917 ci fu la grave sconfitta a Caporetto (dodicesima battaglia dell'Isonzo), che riportò gli italiani sulle posizioni di partenza del Piave. Il generale Cadorna attribuì la colpa alla vigliaccheria dei fanti, ma in realtà non c’era un razionale coordinamento tra gli apparati militari. Per cui Cadorna si dimise e Armando Diaz lo sostituì, riuscendo a riaccendere l’amor di patria nell’animo ormai distrutto dei soldati. Dal Piave ripartì la riscossa: "resistere" divenne l'imperativo di tutta la nazione.
Ritirata di Caporetto
Cambiò l'immagine della guerra: i soldati non erano più impegnati a inseguire l'avversario in territorio straniero, ma difendevano il proprio territorio dall'invasione. Il 1917 fu un anno particolare. La Russia uscì dal conflitto, perché impegnata nella rivoluzione comunista al suo interno. Gli Stati Uniti entrarono in guerra, accanto all’Intesa. La causa? la guerra sottomarina della Germania contro l’Inghilterra, una guerra che impediva i rifornimenti all’Inghilterra, provenienti dall’America e indeboliva l’Intesa. In realtà una sconfitta dell’Intesa avrebbe annullato i crediti degli americani impegnati a dare prestiti e rifornimenti agli Alleati. E così si giunse alla fine: 1918. Gli Alleati (Francesi, Inglesi e Americani) sconfissero la Germania.

Altare della Patria, dove riposano le spoglie del milite ignoto
L’Italia fu protagonista di un gesto di particolare significato ideale e propagandistico: il volo su Vienna, compiuto da una squadriglia guidata da D'Annunzio il 9 agosto '18. Dagli aerei fece cadere sulla città dei messaggi che preannunciavano il crollo dell'Austria e l'imminente vittoria italiana. Così recitava l'inizio di uno di quei volantini: "Viennesi! Imparate a conoscere gli Italiani. Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i colori della libertà". Il 24 ottobre l'Italia vinse la battaglia decisiva a Vittorio Veneto, sfondò le difese austriache e il 3 novembre 1918 gli eserciti italiani entrarono a Trento, mentre le flotte sbarcavano a Trieste; il 4 novembre, a Villa Giusti, una villa veneta vicino Padova, fu firmata la resa dell’Austria. Quindi l’Italia, la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti sono i vincitori della 1^ Guerra. Ci furono accordi di pace. L’Italia ottenne il Trentino, il Sud Tirolo (Alto Adige) fino al Brennero, Trieste, l’Istria e la città di Zara in Dalmazia. Non ottenne Fiume, né il protettorato su Valona, in Albania. Non avendo potuto dare un nome a tutte le migliaia di corpi dei Caduti, le autorità italiane decisero di scegliere un soldato sconosciuto e di onorarlo con una sepoltura nell'Altare della Patria del Vittoriano a Roma. Nel 1921 fu istituita una commissione che si recò sui luoghi delle Battaglie e raccolse i corpi di 11 soldati sconosciuti. Fu poi chiamata la madre di un Caduto, Maria Bergamas, che indicò una bara tra tutte, e quella fu reasportata, con un treno speciale a Roma per esservi sepolta.
E' seguito un interessante dibattito con qualificati interventi di approfondimenti.


SU "MINERVANEWS" LA CONFERENZA DI CRISTELLA

venerdì 2 novembre 2018

Minerva: il sapere: non con, ma come arma

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                                                                          Sala Consiliare Crispiano: 

Inaugurazione  anno accademico 2018-2019 Università "Minerva".



Nella foto:(da six) - il sindaco Luca Lopomo, l'assessore Aurora Bagnalasta, il relatore Michele Cristella e la direttrice dell'Università Silvia Rosa Laddomada.

Relazione all’inaugurazione di
Minerva Associazione di Volontariato
Università del tempo libero e del sapere”

Stare insieme:
dare uno e ricevere cento
La circolarità del dono




Michele Cristella

Buona sera
Permettetemi una considerazione personale. Non so quanti, ma certamente alcuni di voi hanno ripetuto la domanda di don Abbondio a se stesso: chi è questo Michele Cristella? Da dove sbuca?
Un po’ di millenni fa, il tempo passa a millenni, Silvia raccontava sul Corriere del giorno i giorni di Crispiano ed io li titolavo e impaginavo. E spesso mi chiedevo come una professoressa, a sera, talvolta anche a tarda sera, con la testa ingombra delle baraonde studentesche, avesse ancora la lucidità di scrivere un articolo compiuto e preciso.
Poi conobbi il marito Michele e seppi che la espressiva e felice definizione di Crispiano come “Il paese delle cento masserie” fosse sua e in me lo ammirai perché né aveva chiesto i diritti d’autore, né se ne vantava.
Poi l’evolversi della vita interruppe le nostre telefonate; ma da un comune amico, Nunzio Tria, anch’egli, con le sue poesie, maestro di penna, Silvia seppe che presiedevo, pro tempore, un’associazione di e per anziani, che era anche una sua intenzione e mi ha chiesto di esporre la mia esperienza e le mie considerazioni.
L’associazione che presiedo si chiama Utep (Università territoriale per l’educazione permanente) ed è un filone della Cgil, ma apolitica, pensata 30 anni fa dal segretario Bruno Trentin, che aveva visto in anticipo la situazione d’oggi, in cui gli anziani sarebbero diventati più numerosi dei giovani, con molto tempo libero, molta efficienza e la testa pensante.
Allora vigeva una eloquente immagine circa gli anziani: dare sì più anni alla vita, ma soprattutto più vita agli anni. Gli anni della vita sono aumentati grazie all’igiene, alla medicina, all’istruzione, alla consapevolezza dello scorrere del tempo e alla molteplicità degli interessi. Ed oggi ci troviamo un’anzianità che non è vecchiaia. Potremmo dire che è un’adultità più saggia, quindi più lungimirante e più prudente, che sta a suo agio fin negli ottanta. Per usare una distinzione latina: abbiamo saltato la senectus, cioè la vecchiaia consapevole, per entrare poi nella vetustas, quando ci sorprenderà una qualche inabilità.
E dunque questi anziani siamo una forza sociale. Fino a qualche tempo fa l’anziano aveva un rispetto sacrale, gli si riconosceva la sapienza dell’esperienza. Poi, quando il divario generazionale divenne molto ampio, è stato trattato da residuato. Ora, però, l’anziano, non solo in Italia, è latore di due poteri decisivi: lucidità mentale e soldi, entrambi indispensabili perché gli odierni adulti sono frastornati dal consumismo e perché per i giovani il soldo è insufficiente rispetto alle offerte per una vita beata, ai tempi della giovinezza di molti di noi, da vitelloni.


Quindi, oggi il mestiere principale degli anziani è quello di baby sitter e finanziatori dei nipoti adolescenti e spesso ancora di figli. Molti frequentano i social, cioè sono al passo con i tempi. Molti ex artigiani continuano a lavorare. E così molti liberi professionisti. Siamo, gli anziani, una risorsa, anzi una miniera da cui la società può attingere tutto l’occorrente. Ma…
Ma non dobbiamo estraniarci, e farci estraniare, nel nostro piccolo giardino. I nostri muscoli, il principale dei quali è il cervello, rallentano; occorre, quindi tenerli in costante allenamento. Con passeggiate, fisiche e mentali, nelle strade e con la comprensione degli eventi piccoli e grandi. È facile camminare nel nostro paesello, ma oggi anche il mondo è un villaggio, chiamato globale da Marshall McLuhan, studioso delle comunicazioni di massa. E, vi dirò, lo era anche prima, quando uno scrittore latino, Rutilio Namanziano, disse che Roma aveva trasformato in mondo ciò che prima era una città.

Le associazioni come la nostra sono tanti piccoli villaggi globali.
Vi porto l’esperienza dell’associazione che presiedo da sei anni, ma che quest’anno ha festeggiato il suo 18 anno. Un’associazione che raggiunga questo traguardo è un’associazione in ottima salute, e di lungo avvenire.
Un breve cenno dovuto all’organizzazione: l’associazione deve darsi una sua propria dirigenza: presidenza e vice presidenza, direttore dei corsi, chi coordini le lezioni, tesoriere, consiglieri, fatta di volontari per lo più pregati di dedicare il loro tempo all’associazione. E, se possibile, un mecenate, oggi detto sponsor, noi ne abbiamo uno, alquanto generoso. È molto importante la corresponsabilizzazione nello svolgimento dei compiti di ciascuno. La linea guida dev’essere che tutta la dirigenza deve saper fare tutto, in modo da non avere vuoti di gestione.
Il dott. Cristella con Laddomada
Ed ecco le lezioni. Dal lunedì al venerdì, cinque giorni a settimana, ci riuniamo ogni pomeriggio per tre ore e abbiamo a disposizione 15 materie guidate da professionisti in pensione o in attività e da tre gentili signore fra il 4 e il 5, un’avvocatessa, un architetto e una giornalista. Due attività, diciamo così, sono leggere: ballo e attività motoria; due sono artistiche: canto e teatro; quest’estate abbiamo rappresentato in musical e in abiti di scena, una celeberrima commedia dell’antichità, Lisistrata, di Aristofane, che narrava lo sciopero dell’amore da parte delle donne contro i mariti sempre guerra fra loro, mentre il letto restava vuoto, e i comici drammi di ciascuna delle parti. Per i canti andiamo dal coro del Nabucco, alle canzoni popolari dei nostri avi. E poi abbiamo, letteratura e storia, lettura, storia delle parole, quindi dell’evoluzione del costume, medicina spiegata: tipo: dottò, mio cognato non io, ha questi sintomi, storia del diritto e delle religioni, storia del territorio e dei suoi monumenti, geografia visiva, informatica e découpage, un mix di scultura e pittura e abilità manuali, con me, giornalista, spiegazione e conversazione dell’attualità e un giornalino.
Sono tutte materie di conversazione, fra docenti e discenti e di abilità per gli allievi.
Il valore della conversazione aperta l’ha definito meglio di tutti San Tommaso d’Aquino: circulus et calamus fecerunt me doctorem, cioè lo studio e la conversazione mi hanno fatto dottore. E le nostre associazioni hanno un di più della conversazione: hanno la possibilità di stare insieme in aula, a cena, in un pullman e in luoghi sconosciuti: usiamo le cene prefestive, per festeggiare come famiglia allargata, ma molto allargata, un evento sociale e religioso e usiamo il turismo didattico, anche questo con pranzo insieme. Natale, Pasqua e chiusura d’anno vengono festeggiati con dolciumi fatti in casa, e anche qualche limoncello casalingo. E compleanni e onomastici con una guantiera di dolcetti e due o tre bottiglie di spumante. E per l’8 marzo le nostre docenti ci raccontano di donne benefattrici dell’umanità.


In seconda fila il dott. Franco Presicci "inviato speciale di Minerva News"
Mi piace ricordare due nostri momenti-clou: il 18 compleanno dell’Associazione, festa e pienone; e l’incontro con il vescovo di Castellaneta, Claaudio Maniago: oggi, ormai, soltanto i vescovi sono i dirigenti sociali in grado di assolvere con dignità al loro compito.
Nulla lega persone estranee fra loro più del condividere spazi e necessità, legame che si trasforma in amicizia e in solidarietà fra i soci e dei soci verso il resto del paese e del paese che si gloria della nostra presenza.
Nell’avviarmi alla conclusione una confessione. Queste parole devono molto all’antica dea alla quale avete voluto dedicare la vostra associazione: Minerva, la dea con la lancia, cioè il sapere non con, ma come arma. Il sapere come capacità di scelta e come dissuasione, difesa inespugnabile per i troppi ciarlatani in circolazione.
Infine una confessione. Qualche settimana fa ho concluso la mia prolusione all’inaugurazione del 19° anno della nostra Utep con questo pensiero: Il nostro stare insieme è un dono ricambiato: noi dobbiamo essere orgogliosi e gelosi del nostro stare insieme perché siamo tutti debitori di tutti: ciascuno di noi dà uno, cioè se stesso, e riceve 50, cioè la conoscenza e l’amicizia di tutti gli altri.
Questo pensiero sembra la scoperta dell’acqua calda, è un pensiero semplice e visibile, iconico dicono quelli che parlano difficile. E in ciò consiste la sua profondità. È sì un pensiero semplice, ma io ho impiegato sei anni di presidenza, cioè di immedesimazione con l’associazione, per vederlo e definirlo. E goderne.
L’associazione, dunque, circolarità del dono.
Grazie del vostro cortese e paziente ascolto.
Crispiano, 30/10/2018



 
LA PRESENTAZIONE DELLA DIRETTRICE PROF.SSA SILVIA LADDOMADA
buona sera a tutti. Ringrazio il sindaco Luca Lopomo per la presenza e per l'ospitalità offertaci nella sala consiliare; ringrazio l'assessore alla cultura e servizi sociali Aurora Bagnalasta per la sua gentile disponibilità nei nostri confronti.
Io sono la direttrice dell'università del sapere e del tempo libero, un'università popolare, che opera all'interno dell'Associazione di volontariato Minerva.
Qui con noi il prof. Michele Cristella, presidente dell'Università territoriale di educazione permanente di Laterza, accompagnato dalla direttrice dei corsi universitari e da altri responsabili della stessa Università.
Il prof. Cristella é anche giornalista ed é una persona di grande valenza culturale nella nostra provincia ionica.
La nostra Università inizia quest'anno il quinto anno di attività culturale.
Il nostro obiettivo non é l'organizzazione di corsi; il paese é pieno di corsi, organizzati da Associazioni, Parrocchie, enti sociali.
Noi miriamo alla promozione culturale, attraverso percorsi disciplinari, aperti ad ogni settore del sapere.
Personalmente avevo da tanto tempo coltivato in me il desiderio di promuovere, sul territorio, un centro di informazione culturale, auspicando di coinvolgere in questa accademia studiosi ed educatori, pronti ad offrire le proprie competenze e la propria cultura al servizio della comunità, offrendo valide occasioni per socializzare, ma soprattutto per offrire un proficuo confronto culturale tra maestri e allievi, per sederci tutti al banchetto del sapere, come dice il sommo poeta Dante nel suo Convivio.
Un po' di memoria storica.
Già con l'Amministrazione Laddomada ci si era attivati per la istituzione, all'interno delle attività della Biblioteca Natale, di una università popolare.


La proposta ricevette il consenso unanime del Consiglio comunale. La delibera del 5 aprile 2013 non é stata però attuata.
Nell'estate del 2014, alle 10 collaboratrici, impegnate nella Biblioteca, non fu più rinnovata la convenzione, per volontà dell'amministrazione Ippolito, subentrata a quella di Laddomada.
Di conseguenza, d'accordo con tutte loro, abbiamo concretizzato l'istituzione dell'associazione di volontariato Minerva, che si occupa dei ragazzi fino alle scuole elementari, ed offre loro momenti ludici, laboratori, escursioni, feste con famiglie, e assistenza ai compiti scolastici.
Agli adulti ci siamo proposti di offrire l'esperienza di una università popolare, una novità per Crispiano, che intende così proseguire l'opera meritoria, di promozione culturale, già validamente condotta per decenni dalla Biblioteca Natale.
Saluto ancora tutti i presenti, e in particolare l'amico Franco Presicci, che vive a Milano, già redattore del quotidiano "Il Giorno", che in questi anni collabora con minerva, pubblicando i suoi articoli sul sito Minerva news.
Saluto anche Nunzio Tria, noto poeta d'Avanguardia, e attuale tutor del gruppo teatrale dell'università di Laterza.
Chi volesse sapere qualcosa in più di noi ci trova su facebook: Minerva Crispiano e sul sito online wwwassociazioneminerva.org

L'articolo di Franco Presicci sulla cerimonia di inaugurazione alla quale è intervenuto il dott. Michele Cristella è stato pubblicato su questo stesso sito alla voce "Minerva news" (Libro aperto).