mercoledì 10 maggio 2017

DIVINA COMMEDIA – PURGATORIO- canti 1-3: MANFREDI

Print Friendly and PDF
Il prof. Pietro Speziale, nominato vice Direttore dell'Università "Minerva"


 

RELAZIONE DI

 

 

Silvia LADDOMADA



Il Purgatorio nella religione cristiana è un luogo di purificazione dei peccati “veniali”. Tra il 2° secolo e il 4° dopo Cristo, i Padri della Chiesa riflettendo sulla sorte delle anime nel periodo tra la morte individuale e il giudizio finale, ritennero che alcune potessero essere salvate, subendo una prova, espiando le loro colpe. Ambrogio, Gerolamo, Agostino, Gregorio Magno elaborarono l’idea di un aldilà intermedio, come lo sono alcuni peccati, intermedi tra la purezza dei santi e dei giusti e l’imperdonabile colpevolezza dei peccatori infernali. Si tratta di peccati lievi, quotidiani, abituali, definiti poi “veniali”. Solo nel 1274, con il Concilio di Lione, la Chiesa ha confermato nella cristianità occidentale questa fede nel Purgatorio, questa credenza in un regno per quelle anime che devono purificarsi delle loro colpe, prima di raggiungere il Paradiso. Uno stato intermedio che può essere abbreviato dai suffragi, dalle preghiere, dall’aiuto spirituale dei viventi. Il Purgatorio di Dante Alighieri rappresenta l’elevazione dell’anima da una dimensione umana a una ormai divina.
Al buio e all’aura morta dell’Inferno, corrisponde qui un paesaggio naturale, che ispira la pace, che trasmette un senso di letizia e di serenità. La caratteristica di questo regno è il canto: le anime intonano salmi penitenziali e inni di ringraziamento al Signore. C’è in questa Cantica un tipo diverso di poesia, non le passioni, le vendette delle anime infernali; questo è il regno dei ricordi, degli affetti, delle nostalgie, delle amicizie e delle memorie giovanili, della cortesia cavalleresca, ma soprattutto è il momento della misericordia ricevuta, della luce del perdono di Dio, perché sono anime che prima di morire si sono riconciliate con Dio. Dante immagina questo regno come una montagna altissima che si erge verso il cielo, su un’isola dell’Oceano Atlantico (le Canarie?), dove aveva puntato la sua nave Ulisse, spinto dal desiderio di appagare la sua sete di conoscenza, agli antipodi del luogo in cui la caduta di Lucifero aveva prodotto il cono infernale. Alla base di questa montagna c’è una spiaggia, dove si raccolgono le anime, portate da un angelo nocchiero dalle foci del Tevere.

La montagna è divisa in tre sezioni: anti-purgatorio, purgatorio e paradiso terrestre. Le pareti formano sette cornici o balzi, corrispondenti ai sette vizi capitali: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola e lussuria. Le anime si fermano, se necessario, in ogni cornice, in base ai peccati commessi in vita. E poi salgono verso il Paradiso. La gravità dei peccati diminuisce man mano che si sale verso la cima, e la pena è sempre più lieve. Il disordine dell’amore è la causa delle diverse colpe e relative pene (vale anche qui la legge del contrappasso). L’amore, non quello naturale, ma quello determinato dall’intelligenza, può essere rivolto verso il male del prossimo (superbia, invidia, ira); può essere troppo tiepido verso Dio (accidia); può essere indirizzato eccessivamente verso i beni terreni (avarizia e prodigalità, gola e lussuria). Nell’anti-purgatorio ci sono i negligenti, coloro che aspettarono l’ultimo momento della loro vita per pentirsi.

Essi sono: scomunicati, che devono rimanere in Anti-purgatorio 30 volte il tempo che durò la scomunica; i pigri, i morti di morte violenta, i prìncipi negligenti, che devono rimanere in Anti-purgatorio tanto tempo quanto quello vissuto in terra. Sulla sommità del monte c’è il Paradiso terrestre. Giunte qui, le anime si immergono nei fiumi Lete e Eunoè, il primo serve a cancellare la memoria dei peccati commessi, l’altro serve a risvegliare la memoria del bene fatto. Ai piedi di questa montagna giungono Dante e Virgilio, sbucando da sottoterra, aggrappati al corpo di Lucifero. Il cielo è di un azzurro zaffiro, limpido fino all’orizzonte. Dante lo guarda estasiato e nel volgere lo sguardo scorge un vecchio, degno di rispetto, con barba lunga brizzolata, come i capelli, che scendevano sul petto in due ciocche. E’ Catone, custode del Purgatorio. Un personaggio storico. Catone l’uticense (nato a Utica, Africa) fu uno dei protagonisti della vita politica romana dell’età di Cesare, passato alla storia per la sua grande austerità e il suo rigore morale, difensore delle istituzioni repubblicane, si uccise per non sottomettersi alla tirannia di Cesare.
Un suicidio giudicato da Dante, ma anche dai letterati latini, non un gesto egoistico, finalizzato ad affermare se stesso, ma un modo per rifiutare il male e salvaguardare la libertà morale, oltre che politica. Catone chiede se sono dannati fuggiti dall’Inferno o se si tratta di nuove leggi celesti. Virgilio chiarisce il dubbio: il viaggio di Dante è voluto dall’Alto, e lo invita a lasciarlo passare, pronunciando quei versi famosi: “ Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”. Ottenuto il permesso Virgilio lava il viso di Dante, sporco di caligine infernale, simbolicamente Virgilio cancella le sofferenze che Dante si porta dietro dopo il viaggio nell’Inferno. Mentre i due pellegrini cercano di trovare un sentiero poco ripido per salire, arriva un gruppo di anime; Dante riconosce un suo amico Casella, e lo invita a cantare, come ai vecchi tempi. Ma Catone sgrida le anime, non possono distrarsi, devono correre a purificarsi. Dante e Virgilio spaventati non sanno come fare per salire, ma ecco, appare un gruppo di anime che camminano molto lentamente; sono gli scomunicati.
Virgilio si incoraggia, invita Dante ad andare incontro a loro e chiedere aiuto. Ma quelle anime si stringono una affianco all’altra, come pecorelle mansuete, che “ciò che fa la prima le altre fanno, addossandosi a lei, s’ella s’arresta, … e lo ‘imperchè non sanno”. Quando le prime vedono l’ombra di Dante proiettata, “trasser sé in dietro alquanto, e tutti li altri che venieno appresso, non sappiendo ‘l perché, fenno altrettanto”. Virgilio chiede da quale parte cominciare a salire e loro col dorso della mano indicano la direzione. Ma all’improvviso un’anima si rivolge a Dante, e chiede di essere riconosciuta: è Manfredi, figlio di Federico II di Svevia. Diventò re dell’Italia meridionale e del Regno di Sicilia nel 1258 dopo la morte del padre. Era capo dei ghibellini italiani, ostile al potere temporale della Chiesa, per cui era stato scomunicato dal papa Innocenzo IV.

I suoi scontri con la Chiesa continuarono con gli altri papi, fino a quando il papa Clemente IV chiamò il principe francese Carlo D’Angiò per cacciare gli Svevi dall’Italia. Lo scontro tra Carlo D’Angiò e Manfredi avvenne a Benevento nel 1266: Manfredi morì e le sue ossa furono disperse in terra sconsacrata per volere del pontefice. Dante resta sbalordito nel guardarlo, lo colpisce la bellezza del viso e la raffinatezza del portamento, ma due grosse ferite deturpano quella bellezza; un grosso taglio al sopracciglio e uno alla sommità del petto. Egli chiede a Dante di riferire a sua figlia Costanza che egli non è un dannato, che egli si è pentito in fin di vita, e che aspetta le sue preghiere per accorciare la sua pena “ Orribil furono li peccati miei, ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei”. In questi versi vi è uno dei temi centrali dell’intera Cantica: soltanto la misericordia divina permette alle anime di salvarsi, nonostante quello che gli uomini possono pensare. Ai tempi di Dante si pensava che la scomunica della Chiesa implicasse una condanna all’Inferno. Se il papa avesse compreso questo aspetto della natura divina, questa infinita misericordia di Dio per l’anima che si pente, non avrebbe disperso le sue ossa, custodite sotto il mucchio di pietre. Cioè lo stesso Roberto D’Angiò fece seppellire sul campo di battaglia il re Manfredi e, secondo il costume militare, ogni soldato francese aveva onorato il re, gettando al passaggio una pietra sul cadavere.
Ma il papa ordinò al vescovo di Cosenza di trasportare il corpo, a ceri spenti, fuori dal regno di Napoli, lungo il fiume Garigliano, abbandonandolo alle sferzate di pioggia e vento. Dal punto di vista politico, la figura di Manfredi testimonia l’ammirazione di Dante per l’istituzione imperiale e la sua condanna del potere temporale della Chiesa, un potere illegittimo rispetto al potere ricevuto da Dio di essere guida spirituale dell’umanità. Ma a questo motivo si affianca una pesante critica alla pretesa della Chiesa di farsi tramite della salvezza dell’anima. Con la storia di Manfredi (scomunicato per ragioni politiche) Dante vuol far capire che solo Dio può decidere di assolvere o meno qualcuno dai suoi peccati. Manfredi confessa che “ orribil furon i peccati…” ma aggiunge che la misericordia di Dio è infinita, a patto che l’uomo gli apra il cuore e conservi la speranza di potersi salvare.
La triste e gloriosa vicenda di Manfredi dimostra che egli è stato vittima della cattiveria umana (profanazione del corpo), vittima della presunzione, di chi pretende di legare la volontà di Dio ai propri decreti umani; vittima di una Chiesa che confonde livello terreno e livello spirituale, poiché era lui il legittimo titolare del regno di Napoli, reclamato a torto dai papi. Un destino che non indebolisce la bellezza del giovane re, bello, biondo e di gentile aspetto, come viene ricordato Davide nella Bibbia, “Fulvo, di bell’aspetto e gentile di viso” (libro di Samuele). Bello e valoroso, caduto in battaglia, era stato onorato dai suoi nemici, che l’avevano seppellito sotto “la grave mora”. La sua bellezza è anche bellezza interiore: avrebbe potuto insultare i suoi nemici, il vescovo, il papa, ma Dante lo inserisce nell’atmosfera distaccata e beata del Purgatorio.   E’ stato perdonato da Dio, ha perdonato anche lui. Questo, dice Dante, è l’individuo che i papi definirono un diavolo in terra. Davanti all’Eterno, perché odiare qualcuno? L’odio è un sentimento disumano, assurdo.                
Questo è l’insegnamento di questo 3° canto del Purgatorio.

                                                    
TESTO:

PURGATORIO- 3° CANTO                     (LETTURA DI GIACOMO SALVEMINI)

Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,

i’ mi ristrinsi a la fida compagna:
e come sare’ io sanza lui corso?
chi m’avria tratto su per la montagna?

El mi parea da sé stesso rimorso:
o dignitosa coscienza e netta,
come t’è picciol fallo amaro morso!

Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che l’onestade ad ogn’atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta,

lo ‘ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi ‘l viso mio incontr’al poggio
che ‘nverso ‘l ciel più alto si dislaga.

Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
rotto m’era dinanzi a la figura,
ch’avea in me de’ suoi raggi l’appoggio.

Io mi volsi dallato con paura
d’essere abbandonato, quand’io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;

e ‘l mio conforto: «Perché pur diffidi?»,
a dir mi cominciò tutto rivolto;
«non credi tu me teco e ch’io ti guidi?

Vespero è già colà dov’è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra:
Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto.

Ora, se innanzi a me nulla s’aombra,
non ti maravigliar più che d’i cieli
che l’uno a l’altro raggio non ingombra.

A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.

Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.

State contenti, umana gente, al quia;
ché se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;

e disiar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per lutto:

io dico d’Aristotile e di Plato
e di molt’altri»; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.

Noi divenimmo intanto a piè del monte;
quivi trovammo la roccia sì erta,
che ‘ndarno vi sarien le gambe pronte.

Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.

«Or chi sa da qual man la costa cala»,
disse ‘l maestro mio fermando ‘l passo,
«sì che possa salir chi va sanz’ala?».

E mentre ch’e’ tenendo ‘l viso basso
essaminava del cammin la mente,
e io mirava suso intorno al sasso,

da man sinistra m’apparì una gente
d’anime, che movieno i piè ver’ noi,
e non pareva, sì venian lente.

«Leva», diss’io, «maestro, li occhi tuoi:
ecco di qua chi ne darà consiglio,
se tu da te medesmo aver nol puoi».

Guardò allora, e con libero piglio
rispuose: «Andiamo in là, ch’ei vegnon piano;
e tu ferma la spene, dolce figlio».

Ancora era quel popol di lontano,
i’ dico dopo i nostri mille passi,
quanto un buon gittator trarria con mano,

quando si strinser tutti ai duri massi
de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti
com’a guardar, chi va dubbiando, stassi.

«O ben finiti, o già spiriti eletti»,
Virgilio incominciò, «per quella pace
ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti,

ditene dove la montagna giace
sì che possibil sia l’andare in suso;
ché perder tempo a chi più sa più spiace».
 
Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l’altre stanno
timidette atterrando l’occhio e ‘l muso;

e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno;

sì vid’io muovere a venir la testa
di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne l’andare onesta.

Come color dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
sì che l’ombra era da me a la grotta,

restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo ‘l perché, fenno altrettanto.

«Sanza vostra domanda io vi confesso
che questo è corpo uman che voi vedete;
per che ‘l lume del sole in terra è fesso.

Non vi maravigliate, ma credete
che non sanza virtù che da ciel vegna
cerchi di soverchiar questa parete».

Così ‘l maestro; e quella gente degna
«Tornate», disse, «intrate innanzi dunque»,
coi dossi de le man faccendo insegna.

E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se’, così andando, volgi ‘l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».

Io mi volsi ver lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

Quand’io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto.

Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,

vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.
 
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.

Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.

Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,

l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.

Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.

Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.

Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,

per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzion, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto;

ché qui per quei di là molto s’avanza».





AL TERMINE DELL'INCONTRO, ALL'UNANIMITA',

IL PROF. PIETRO SPEZIALE E' STATO NOMINATO VICE DIRETTORE

DELL' UNIVERSITA' "MINERVA".

IL NUOVO INCARICO E' STATO FESTEGGIATO INSIEME AL

COMPLEANNO  DI MICHELE ANNESE      





Nessun commento:

Posta un commento