martedì 24 maggio 2016

XIII° Canto dell'Inferno e Relazione di S. Laddomada

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G.Stradano, La selva dei suicidi(1587)


Testo XIII° Canto dell'Inferno

           (Pier della Vigna)


Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco:

non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.

Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.

E ’l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se’ nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre

che tu verrai ne l’orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».

Io sentia d’ogne parte trarre guai,
e non vedea persona che ’l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai.

Cred’io ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi
da gente che per noi si nascondesse.

Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’hai si faran tutti monchi».

Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».

Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,

sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.

«S’elli avesse potuto creder prima»,
rispuose ’l savio mio, «anima lesa,
ciò c’ha veduto pur con la mia rima,

non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.

Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».

E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’io un poco a ragionar m’inveschi.

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,

che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi:
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.

La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,

infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.

Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.

E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ’nvidia le diede».

Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,
disse ’l poeta a me, «non perder l’ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».

Ond’io a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora».

Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia

di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s’alcuna mai di tai membra si spiega».

Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.

Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.

Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.

Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.

Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.

Qui le trascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta».

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi,

similemente a colui che venire
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire.

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogni rosta.

Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte

le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo.

Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena.

In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.

Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea,
per le rotture sanguinenti in vano.

«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».

Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo,
disse «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».

Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c’ha le mie fronde sì da me disgiunte,

raccoglietele al piè del tristo cesto.
I’ fui de la città che nel Batista
mutò il primo padrone; ond’ei per questo

sempre con l’arte sua la farà trista;
e se non fosse che ’n sul passo d’Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,

que’ cittadin che poi la rifondarno
sovra ’l cener che d’Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.

Io fei gibetto a me de le mie case».






Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno...

"... Uomini fummo, e or sem fatti sterpi:
ben dovrebb'esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi" ...
"... L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto..."





 
      

 RELAZIONE DI SILVIA LADDOMADA



    



  




Siamo nel 7° cerchio, dove sono condannati i violenti, distribuiti in tre gironi: i violenti contro il prossimo (tiranni, assassini), contro se stessi e contro i propri beni (suicidi e scialacquatori) e contro Dio (bestemmiatori), e le sue manifestazioni: natura (sodomiti) e arte (usurai).
Le anime di coloro che hanno usato violenza contro gli altri, versando il loro sangue, sono grandi personaggi del passato, tiranni sanguinari, sovrani, ma ci sono anche signori delle città italiane, contemporanei di Dante.
Essi sono immersi in un fiume di sangue bollente, il Flegetonte, che circonda il girone.
Contrappasso per analogia: in vita hanno versato il sangue degli altri, ora sono immersi in un fiume di sangue bollente, dal quale non possono uscire.
Sulle sponde di questo fiume ci sono gruppi di centauri, mitici esseri metà cavallo e metà uomo (allegoria dell'umanità che domina l'istinto animale o allegoria della violenza, realizzata mediante l'intelligenza).
Questi centauri sono pronti a scagliare frecce contro le anime che tentano di uscire dal sangue.
I dannati sono immersi in base alla gravità delle loro colpe (i tiranni fino agli occhi, gli omicidi fino alla gola, i predoni fino al petto o alla caviglia).
Virgilio chiede al capo dei centauri, Chirone, di permettere a Dante che “non è spirto che per l'aere vada”, di attraversare il fiume, per continuare il viaggio voluto da Dio.
Chirone li affida al centauro Nesso, per cui Dante e Virgilio salgono in groppa al centauro e questi li lascia al di là del fiume in una selva.
Per dare al lettore l'idea di questa selva intricata, Dante la paragona alla boscaglia in cui si rifugiano gli animali selvatici, nella zona della Maremma Toscana tra il paese toscano di Cecina(Li) e il borgo laziale di Corneto.
La selva è piena di alberi nodosi e spettrali, su cui crescono non frutti ma spine piene di “tosco”, cioè di veleno.
Su questi alberi sono appollaiate le Arpie, ripugnanti mostri mitologici, dal corpo di uccello rapace e dal volto di donna, tormentati da fame insaziabile.
(Simbolo della rapina che i suicidi hanno fatto della loro vita o simbolo del rimorso tormentoso che colpisce le loro anime).
Mostri di cui Virgilio nel suo poema, Eneide, aveva raccontato, quando Enea approdato in Sicilia, vide la sua tavola insozzata da queste figure mostruose, una delle quali predisse ai troiani pene e sventure prima di terminare il viaggio.
Dante in questa selva non vede nessuno, però sente gemiti e lamenti e immagina che provengano da anime nascoste tra quegli alberi cespugliosi.
Virgilio gli suggerisce di staccare un ramoscello e appena Dante l'ha fatto, dalla pianta esce del sangue e si ode una voce addolorata che invoca pietà per la sua triste sorte. 
Virgilio si scusa spiegando che era l'unico modo per convincere Dante che delle anime potessero essere trasformate in piante, e lo invita a rivelare il suo nome. 
Si tratta di Pier Della Vigna, cancelliere dell'imperatore Federico II, il quale racconta che al culmine del suo prestigio, i cortigiani invidiosi, lo accusarono di tradimento e lo fecero cadere in disgrazia.
Per la vergogna egli si suicidò.
Mentre Dante e Virgilio, ascoltano il racconto, si odono dei rumori ed essi vedono due anime che corrono, inseguite da cagne nere fameliche.
Sono due scialacquatori, violenti contro i propri beni, (un giovane senese e un giovane padovano, noti per sperpero di denaro e dei propri beni); uno dei quali, nascondendosi in un cespuglio viene comunque raggiunto e sbranato, provocando tante sofferenze alla pianta, in cui è tramutato un altro anonimo suicida (giudice), che si dichiara originario di Firenze e prega i poeti di raccogliere ai piedi del cespuglio i rami rotti.
Non dice Dante chi sia questo suicida, ma incontrare un fiorentino che si impicca in casa, è un chiaro riferimento alla violenza delle fazioni che sconvolgeva la vita civile di Firenze.
Pier Della Vigna era un poeta della scuola siciliana, fondata da Federico II a Palermo, nel ventennio del suo regno (1230-1250). 
Nella corte del re si radunavano tutti i poeti e letterati del centro-sud della penisola per cantare l'amore alla maniera dei trovatori provenzali; cantavano “l'amor cortese”, la donna come un essere irraggiungibile, esaltata per la sua bellezza fisica, la lealtà e la dedizione assoluta del poeta all'amata. 
Molti intellettuali oltre ad essere poeti erano anche funzionari della moderna monarchia del Sud Italia, creata da Federico II.
In particolare Pier Della Vigna (di Capua), era notaio, poi giudice della Magna Curia dell'impero e poi cancelliere e uomo di fiducia, anche personale, del sovrano, un potere senza limiti.
Dopo la sconfitta di Federico nella battaglia di Cremona nel 1248 (la guerra condotta dall'Imperatore contro i comuni italiani del Nord), Pier Della Vigna fu accusato di tradimento, portato in carcere a San Miniato e poi accecato con un ferro rovente.
Si suicidò poi a Pisa, sfracellandosi la testa contro il muro.
Molti cronisti del tempo parlarono di accuse infondate, e lo stesso Dante condivide questa opinione.
Un altro personaggio verso cui Dante prova tanta pietà; egli non parla, se non per dire che non può parlare: si commuove di fronte a un funzionario fedele, che si suicida perché ingiustamente accusato di tradimento.
In quanto uomo onesto egli ha sofferto senza colpa e Dante capisce il suo gesto, ma non lo giustifica.
Questo 13° canto è uno dei più drammatici della Commedia, in esso viene affrontato un tema di grande impatto umano e teologico, il suicidio.
A differenza dei filosofi classici, che arrivavano a legittimare il suicidio a considerarlo una manifestazione di grandezza d'animo (Catone, nel Purgatorio), per la religione cattolica il suicidio è una grande ingiuria nei confronti dell'amore di Dio. 
Ma quello che interessa a Dante non è tanto la condanna del peccatore, ma il tentare di capire come possa un uomo essere ingiusto con se stesso.
Per questo egli si serve di una figura nota per la sua moralità: un innocente, condannato ingiustamente, che con il suo gesto diventa colpevole verso se stesso.
C'è forse qualcosa che Dante sente di avere in comune col poeta, entrambi furono letterati impegnati nella vita civile e politica, vittime dell'invidia dei contemporanei e condannati da coloro a cui avevano dedicato la vita: Federico II per Pier Della Vigna e Firenze per Dante.
Ma Dante non ha ceduto alla tentazione del suicidio, ha preferito la strada dell'esilio. 
La tragica scelta del funzionario siciliano non impedisce a Dante di cantarne la grandezza morale, ma non può perdonare, perché Dio non perdona questo peccato, tant'è che con il Giudizio Universale i suicidi non rientreranno in possesso dei loro corpi ma, unici tra tutti i dannati, riporteranno le loro spoglie nella selva, per appenderle agli alberi. Il corpo rigettato starà per l'eternità davanti agli occhi dell'anima, che ancora lo vorrebbe ma non può.


Nel suo colloquio con Dante, Pier Della Vigna usa un linguaggio prezioso, elaborato, retorico, parla di se', delle cariche avute, dei suoi onori, ci trasporta nella splendida corte di Federico II e poi con tristezza ricorda il rovesciamento della sua fortuna: l'invidia dei cortigiani malevoli, che come una meretrice insinuò sospetti nel cuore di Federico che lo allontanò dalla corte, sconvolgendo il suo animo e portandolo al gesto estremo. Un linguaggio delicato, rispettoso, che Dante fa usare all'anima, quasi un omaggio alla figura di questo letterato, maestro nello stile, che alla fine sembra gioire per aver incontrato Dante, da cui spera di essere riabilitato, ricordando, una volta tornato sulla Terra, la sua fedeltà a Federico.















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