mercoledì 4 maggio 2016

Incontro culturale V Canto dell'Inferno- martedì 3 maggio 2016

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Testo integrale

Il bacio di Paolo e Francesca, sullo sfondo il marito di Francesca Gianciotto Malatesta


Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.

Dico che quando l'anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata

vede qual loco d'inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.

«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,

«guarda com' entri e di cui tu ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».
E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?

Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».

Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.

Io venni in loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.

Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.

Intesi ch'a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.

E come li stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali

di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.

E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid' io venir, traendo guai,

ombre portate da la detta briga;
per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera sì gastiga?».

«La prima di color di cui novelle
tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.

A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.

Ell' è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.

L'altra è colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa.

Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.

Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.

Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

I' cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri».

Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».

Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s'altri nol niega!».

Quali colombe dal disio chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere, dal voler portate

cotali uscir de la schiera ov' è Dido,
a noi venendo per l'aere maligno,
sì forte fu l'affettüoso grido.

«O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re de l'universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pietà del nostro mal perverso.

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace.

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.

Quand' io intesi quell' anime offense,
china' il viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».

Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».

E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.

Ma s'a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».

Mentre che l'uno spirto questo disse,
l'altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com' io morisse.

E caddi come corpo morto cade.

V  Canto dell'Inferno

Relatori: Giacomo Salvemini e Silvia Laddomada


Dante e Virgilio entrano nell'Inferno. Dante è titubante: sulla porta ci sono parole oscure “Per me si va ne città dolente, /per me si va ne l'eterno dolore/, per me si va tra la perduta gente”/...”Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate”/. Ma Virgilio gli ricorda che il suo viaggio è voluto da Dio, gli ha appena spiegato di essersi mosso in suo aiuto su richiesta di Beatrice, la quale era stata incaricata da S. Lucia, a sua volta sollecitata dalla Madonna. Dopo la vista degli ignavi, Dante e Virgilio incontrano la schiera dei grandi uomini del passato, poeti, filosofi, principi, che risiedono in un perfetto castello con  prati  verdi. Sono le anime del Limbo, le anime di chi non ha conosciuto Cristo. Scendono così nel secondo cerchio, un luogo buio, sconvolto da una furiosa tempesta, qui sono condannati i lussuriosi, “i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento”, cioè coloro che fanno prevalere gli istinti della carne sulla ragione. La tempesta fa sbattere le anime (che percepiscono la sofferenza come se avessero un corpo fisico) contro le pareti della voragine, facendole lamentare, imprecare, bestemmiare. La pena è regolata da un contrappasso per analogia: come in vita si sono lasciati travolgere dalla passione dei sensi, così da morti sono trascinati, per l'eternità, da una bufera spaventosa. Virgilio indica a Dante alcune di queste anime: Achille, Paride, Tristano, Didone, Elena, Cleopatra, morti per amore. Ma Dante scorge nel folto gruppo di anime, due che vanno insieme, stretti, nemmeno la bufera li separa. Per la prima volta Dante chiede a Virgilio se può parlare con loro; ottenuto il consenso, Dante li chiama, e loro corrono, insieme, come due colombi innamorati che tornano insieme al nido. Sono Paolo e Francesca.

Parla Francesca, Paolo tace, ma piange. Francesca è una donna viva, vera, una fanciulla immortale. Spesso tra i dannati, condannati comunque per la gravità dei loro peccati, ce ne sono alcuni che, per la loro statura morale o per l'umana compassione con cui il poeta rilegge la loro storia, vengono riabilitati, diventano ritratti immortali.


Nella storia del tempo, Francesca era figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna, che aveva sposato nel 1275 Gianciotto Malatesta, signore di Rimini, uomo di valore, ma zoppo e deforme. Le cronache parlarono di un inganno, alla cerimonia Gianciotto fece intervenire il fratello minore Paolo, con cui Francesca pensò di essersi sposata. Questo inganno accese l'amore tra i due cognati, che però furono uccisi nel 1285 dal geloso Gianciotto, forse nel castello di Gradara.
Probabilmente Dante aveva conosciuto personalmente Paolo, che nel 1282 era capitano del popolo a Firenze, cioè ricopriva una carica di prestigio nel governo della città. Il nipote di Francesca, cioè Novello da Polenta fu colui che ospitò Dante a Ravenna negli ultimi anni della sua vita.
Francesca, nel suo colloquio con Dante, cerca di giustificarsi. Per tre volte pronuncia la parola “Amor”, con cui cominciano le terzine più famose del poema.
In questi versi Francesca espone, in forma sintetica, la concezione dell'amor cortese (Andrea Cappellano, Guido Guinizelli), a cui si ispiravano poeti e narratori nel Medioevo (1200-1300), ossia: 1) L'amore è possibile solo in un cuore gentile, cioè in un animo cortese, nobile, virtuoso. 2) L'amore è un sentimento reciproco, chi si sente amato non può non ricambiare, perché l'amore contagia i cuori, infiammandoli.
 3) L'amore, questo amore, nato fuori dal vincolo matrimoniale, come tutti gli amori cortesi del resto, secondo le precisazioni dei teorici, è causa della loro morte violenta, come anche della loro morte spirituale. “Caina attende, chi a vita ci spense”, dice tristemente Francesca.
Nel settore Caina del nono cerchio, il ghiacciato lago Cocito, sono immersi i traditori dei parenti. Francesca è vendicativa, si sente tradita, lei che ha tradito. In realtà l'azione del marito le appare di una malvagità estrema. Gianciotto non solo ha violato il 5° comandamento, che dice “non uccidere”, ma non ha nemmeno avuto quella pietà, che si concede al caduto, di ritrovare in mezzo agli errori, la “dritta via” smarrita. Uccidendoli ha tolto loro ogni possibilità di riscatto. Vendicativa e piangente, Francesca esprime così l'amarezza per non aver avuto il tempo di pentirsi.
Dante è turbato, sconvolto, smarrito, lui, che da giovane era stato affascinato dall'ideale amoroso del “cor gentile”, adesso china il capo, di fronte a chi gli parla di amore e di passione. Un esame di coscienza, forse ha contribuito anche lui, poeta d'amore (La Vita Nova) ad alimentare certi equivoci, in cui è caduta Francesca, come, ad esempio, l'idea che l'amore  scusa tutto, che l'amore non si può frenare, che l'amore richiede una risposta, non importa se lecita o illecita. Quindi chiede a Francesca come è nata quella passione, desidera che la donna rievochi il momento emozionante in cui l'innamorato ha svelato i suoi sentimenti.
Nel racconto dolente del suo idillio, Francesca sembra tremare di commozione e di angoscia; Paolo non interviene, piange, approva e sostiene le parole dell'amata, ne condivide le emozioni e il punto di vista. Ma la risposta di Francesca è terribile per  Dante: tutto è nato leggendo un libro che parlava d'amore, un romanzo in lingua francese, il Lancelot, al cui centro c'è la vicenda d'amore di Lancillotto, cavaliere della Tavola rotonda, e di Ginevra, moglie di re Artù. “Leggevamo un giorno, per diletto, per passatempo, di Lancillotto e del suo amore per la regina”. Durante la lettura i due amanti si immedesimano nei protagonisti, e pian piano quel sentimento inconfessato, segreto, si rivela, diventa cosciente; i due amanti cedono alla forza di questa rivelazione. Quando Lancillotto bacia Ginevra, per la prima volta, anche Paolo, “tutto tremante”, baciò Francesca, per la prima volta. Ma si persero. “quel giorno più non vi leggemmo avante”.
“Galeotto fu il libro e  chi lo scrisse”, conclude Francesca. (Galeotto era l'intermediario, “il ruffiano”, tra il cavaliere e la regina), ma nel loro caso il “ruffiano” è stato il libro, l'autore, il poeta e quindi tutta le letteratura amorosa, bretone e provenzale; su di loro Francesca riversa la radice della colpa. Francesca sembra volersi giustificare, ma  non pentirsi. Il suo cedimento alla passione era inevitabile, non poteva fare diversamente, la rivelazione è avvenuta proprio come stava scritto nelle teorie sull'amore. Il libro ha fatto da esca, è stato l'occasione per frugare nel fondo del loro cuore, come se, senza la lettura di quel libro, non ci sarebbe stata la tragedia. La sorte dei due cognati genera in Dante una profonda pietà, una tristezza e un turbamento che lo portano alla perdita dei sensi “E caddi come corpo morto cade”, conclude. Perchè questo svenimento? Già Dante, all'inizio del colloquio aveva chinato il viso pensoso, consapevole di aver alimentato questa produzione letteraria, ora invece qualcosa è cambiato, il poeta ha rielaborato la dottrina sull'amore, a cui in gioventù aveva aderito, concludendo che esso, se non è inteso come sentimento di elevazione verso Dio, può portare al peccato e alla dannazione.
 Dante può capire, ma non scusare i due amanti, e lui li condanna, fedele alla nuova dimensione spirituale del sentimento d'amore a cui è approdato. Nei due amanti si è consumato lo scontro tra la coscienza morale e l'impeto della passione. Lacrime, simpatia, compassione, ma non basta per assolverli dalla loro colpa.
Il loro peccato è stata una scelta libera e volontaria, Francesca avrebbe dovuto respingere la tentazione, perché la volontà deve essere più forte di ogni passione, e quindi è giusto che entrambi debbano scontare la pena nell'Inferno.

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