Testo integrale
Il bacio di Paolo e Francesca, sullo sfondo il marito di Francesca Gianciotto Malatesta |
Così discesi del cerchio
primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e
ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.
Dico che quando l'anima mal
nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d'inferno è da
essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno
molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.
«O tu che vieni al doloroso
ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,
«guarda com' entri e di cui tu
ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».
E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».
E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale
andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Or incomincian le dolenti
note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d'ogne luce
muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non
resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la
ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch'a così fatto
tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan
l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li
mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor
lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid' io venir, traendo guai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid' io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta
briga;
per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera sì gastiga?».
per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera sì gastiga?».
«La prima di color di cui
novelle
tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì
rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell' è Semiramìs, di cui si
legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.
L'altra è colei che s'ancise
amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa.
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa.
Elena vedi, per cui tanto
reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano»; e più di
mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch'io ebbi 'l mio
dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I' cominciai: «Poeta,
volontieri
parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri».
parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri».
Ed elli a me: «Vedrai quando
saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li
piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s'altri nol niega!».
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s'altri nol niega!».
Quali colombe dal disio
chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere, dal voler portate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere, dal voler portate
cotali uscir de la schiera ov'
è Dido,
a noi venendo per l'aere maligno,
sì forte fu l'affettüoso grido.
a noi venendo per l'aere maligno,
sì forte fu l'affettüoso grido.
«O animal grazïoso e
benigno
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de
l'universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pietà del nostro mal perverso.
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar
vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace.
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata
fui
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.
Amor, ch'al cor gentil ratto
s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar
perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse noi ad una
morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand' io intesi quell' anime
offense,
china' il viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».
china' il viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh
lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla'
io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d'i dolci
sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior
dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.
Ma s'a conoscer la prima
radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per
diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci
sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato
riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto
tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l'uno spirto questo
disse,
l'altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com' io morisse.
l'altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com' io morisse.
E caddi come corpo morto
cade.
V Canto dell'Inferno
Relatori: Giacomo Salvemini e Silvia Laddomada
Dante e Virgilio entrano nell'Inferno. Dante è titubante: sulla porta ci sono parole oscure “Per me si va ne città dolente, /per me si va ne l'eterno dolore/, per me si va tra la perduta gente”/...”Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate”/. Ma Virgilio gli ricorda che il suo viaggio è voluto da Dio, gli ha appena spiegato di essersi mosso in suo aiuto su richiesta di Beatrice, la quale era stata incaricata da S. Lucia, a sua volta sollecitata dalla Madonna. Dopo la vista degli ignavi, Dante e Virgilio incontrano la schiera dei grandi uomini del passato, poeti, filosofi, principi, che risiedono in un perfetto castello con prati verdi. Sono le anime del Limbo, le anime di chi non ha conosciuto Cristo. Scendono così nel secondo cerchio, un luogo buio, sconvolto da una furiosa tempesta, qui sono condannati i lussuriosi, “i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento”, cioè coloro che fanno prevalere gli istinti della carne sulla ragione. La tempesta fa sbattere le anime (che percepiscono la sofferenza come se avessero un corpo fisico) contro le pareti della voragine, facendole lamentare, imprecare, bestemmiare. La pena è regolata da un contrappasso per analogia: come in vita si sono lasciati travolgere dalla passione dei sensi, così da morti sono trascinati, per l'eternità, da una bufera spaventosa. Virgilio indica a Dante alcune di queste anime: Achille, Paride, Tristano, Didone, Elena, Cleopatra, morti per amore. Ma Dante scorge nel folto gruppo di anime, due che vanno insieme, stretti, nemmeno la bufera li separa. Per la prima volta Dante chiede a Virgilio se può parlare con loro; ottenuto il consenso, Dante li chiama, e loro corrono, insieme, come due colombi innamorati che tornano insieme al nido. Sono Paolo e Francesca.
Nella storia del tempo, Francesca era figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna, che aveva sposato nel 1275 Gianciotto Malatesta, signore di Rimini, uomo di valore, ma zoppo e deforme. Le cronache parlarono di un inganno, alla cerimonia Gianciotto fece intervenire il fratello minore Paolo, con cui Francesca pensò di essersi sposata. Questo inganno accese l'amore tra i due cognati, che però furono uccisi nel 1285 dal geloso Gianciotto, forse nel castello di Gradara.
Probabilmente Dante aveva conosciuto personalmente Paolo, che nel 1282 era capitano del popolo a Firenze, cioè ricopriva una carica di prestigio nel governo della città. Il nipote di Francesca, cioè Novello da Polenta fu colui che ospitò Dante a Ravenna negli ultimi anni della sua vita.
Francesca, nel suo colloquio con Dante, cerca di giustificarsi. Per tre volte pronuncia la parola “Amor”, con cui cominciano le terzine più famose del poema.
In questi versi Francesca espone, in forma sintetica, la concezione dell'amor cortese (Andrea Cappellano, Guido Guinizelli), a cui si ispiravano poeti e narratori nel Medioevo (1200-1300), ossia: 1) L'amore è possibile solo in un cuore gentile, cioè in un animo cortese, nobile, virtuoso. 2) L'amore è un sentimento reciproco, chi si sente amato non può non ricambiare, perché l'amore contagia i cuori, infiammandoli.
3) L'amore, questo amore, nato fuori dal vincolo matrimoniale, come tutti gli amori cortesi del resto, secondo le precisazioni dei teorici, è causa della loro morte violenta, come anche della loro morte spirituale. “Caina attende, chi a vita ci spense”, dice tristemente Francesca.
Nel settore Caina del nono cerchio, il ghiacciato lago Cocito, sono immersi i traditori dei parenti. Francesca è vendicativa, si sente tradita, lei che ha tradito. In realtà l'azione del marito le appare di una malvagità estrema. Gianciotto non solo ha violato il 5° comandamento, che dice “non uccidere”, ma non ha nemmeno avuto quella pietà, che si concede al caduto, di ritrovare in mezzo agli errori, la “dritta via” smarrita. Uccidendoli ha tolto loro ogni possibilità di riscatto. Vendicativa e piangente, Francesca esprime così l'amarezza per non aver avuto il tempo di pentirsi.
Dante è turbato, sconvolto, smarrito, lui, che da giovane era stato affascinato dall'ideale amoroso del “cor gentile”, adesso china il capo, di fronte a chi gli parla di amore e di passione. Un esame di coscienza, forse ha contribuito anche lui, poeta d'amore (La Vita Nova) ad alimentare certi equivoci, in cui è caduta Francesca, come, ad esempio, l'idea che l'amore scusa tutto, che l'amore non si può frenare, che l'amore richiede una risposta, non importa se lecita o illecita. Quindi chiede a Francesca come è nata quella passione, desidera che la donna rievochi il momento emozionante in cui l'innamorato ha svelato i suoi sentimenti.
Dante può capire, ma non scusare i due amanti, e lui li condanna, fedele alla nuova dimensione spirituale del sentimento d'amore a cui è approdato. Nei due amanti si è consumato lo scontro tra la coscienza morale e l'impeto della passione. Lacrime, simpatia, compassione, ma non basta per assolverli dalla loro colpa.
Il loro peccato è stata una scelta libera e volontaria, Francesca avrebbe dovuto respingere la tentazione, perché la volontà deve essere più forte di ogni passione, e quindi è giusto che entrambi debbano scontare la pena nell'Inferno.
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