LE FOIBE - Relazione:
Prof.ssa Silvia LADDOMADA
Il 10 febbraio è la giornata in cui siamo chiamati a rinnovare la memoria della tragedia che colpì gli italiani che abitavano nell’Istria, Dalmazia, a Fiume e nella Venezia Giulia,tra il 1943 e il 1947.
La giornata è stata istituita con la legge 92 del 30 marzo 2004.
Perchè il 10 febbraio?
Perché Il 10 febbraio 1947 furono firmati i trattati di pace di Parigi, dopo la seconda guerra mondiale. Fu dato un nuovo assetto all’Europa e l’Italia dovette cedere alla Iugoslavia i territori precedentemente indicati.
Purtroppo gli abitanti di queste terre dell’Italia orientale furono vittime di un’orribile tragedia.
Per comprendere queste orribili pagine di storia italiana, bisogna ritornare indietro, agli anni della seconda guerra mondiale.
La Iugoslavia era stata occupata dalle forze dell’asse Germania-Italia nel 1941. Il comportamento dei fascisti fu molto duro, avevano l’ordine di uccidere, bruciare, distruggere. Commisero molte atrocità, imposero una italianizzazione forzata e repressero con violenza le popolazioni slave locali, tanto che si diceva che gli italiani erano peggio dei tedeschi. Per questo la popolazione cominciò a preparare fin da allora una reazione partigiana. Ma la prima ondata di violenza esplose dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.
Sfasciato l’esercito di Mussolini, la popolazione slovena dell’Istria si rivoltò contro chiunque fosse sospettato di fascismo.
L’eroe della Resistenza iugoslava fu Josip Broz, col nome di battaglia di Tito. Una guerra partigiana che coinvolse tutta la popolazione, suscitando l’ammirazione degli Alleati e rafforzando l’amicizia tra Iugoslavia e Stati Uniti.
Furono i primi giorni delle foibe.
Furono infoibate circa un migliaio di persone.
Infoibare per la gente del posto non significava solo uccidere un uomo; il gesto suscitava una sensazione di mistero terribile, generava brividi di inquietudine.
Le foibe, dal latino “fovea”, erano delle fosse naturali dell’altopiano del Carso, o meglio erano dei baratri, profondi a volte 250 metri, irregolari nel loro andamento, le pareti erano viscide, erano del tutto inaccessibili all’uomo.
Solo in Istria c’erano 1700 foibe.
Nel 1945 ci fu una seconda strage, ancora più sanguinosa.
La guerra era finita il 25 luglio, giornata della Liberazione, festeggiata ancora oggi.
Si diceva: “su tutto il mondo rideva la pace, ma a Trieste regnavano terrore e dolore”.
A maggio Tito, forte dell’appoggio americano credette di potersi impadronire della Venezia Giulia, aggiungendo così’ una settima repubblica alle sei della Federazione (Slovenia, Croazia, Macedonia, Bosnia Erzegovina, Serbia e Montenegro). Federazione proclamata nel 1943.
Quindi pochi giorni dopo il 25 aprile 1945 Tito dette ordine ai partigiani iugoslavi e italiani di invadere Trieste e Gorizia, di sterminare la classe dirigente, dalle autorità statali ai liberi professionisti, agli insegnanti, e cancellare la presenza degli italiani in quelle terre.
I
fedelissimi di Tito irruppero nelle case, sequestrarono intere
famiglie e i loro beni. Seguirono violenze, torture e nuovamente le
foibe, in cui trovarono la morte almeno 10 mila persone.
Un orrore che durò 43 giorni, finché furono proprio gli Stati Uniti a fermare Tito, preoccupati sia per l’eccesso della barbarie, sia per l’alleanza che Tito stava stringendo con Stalin ( che però poi ruppe).
Conosciamo uno dei modi con cui venivano uccisi. Legati con filo spinato e portati sul bordo delle foibe, i titini sparavano poi ai primi tre o quattro e questi cadevano giù trascinandosi gli altri, che morivano per le ferite e gli stenti.
Tanti altri vennero torturati, altri furono abbandonati nelle carceri croate.
Nel 1947, con i trattati di pace di Parigi, la Iugoslavia ottenne l’istria, la Dalmazia, Fiume e la Venezia Giulia, terre abitate da slavi ma anche da italiani fin dal tempo della repubblica di Venezia.
La tragedia degli italiani non era finita.
Tito costrinse tutte le famiglie degli italiani, che solo perché erano italiani erano tutti fascisti, ad abbandonare le loro case e le loro terre. 300 mila italiani su 500 mila che risiedevano in quelle terre dovettero partire.
Il regime titino concesse loro di portare con sé solo 5 chili di vestiario e 5 mila lire (sufficienti a sopravvivere per 2 mesi).
Migliaia di profughi rimasero per mesi accampati sul Carso, esposti al freddo e alla bora. Molti preferirono emigrare in America, altri furono smistati in capannoni alla periferia di Venezia, Ancona, Bologna.
In Italia, purtroppo, questi italiani, che avevano perso tutto, non solo non furono aiutati, ma furono guardati con fastidio dallo Stato. Passarono molti anni prima di offrire loro una sistemazione, la possibilità di trovare un lavoro. La maggioranza di quelli che rimasero in Italia si concentrò nel territorio di Milano.
Purtroppo nel dopo guerra prevalse la “ragione di stato” e si preferì seppellire tutto nel silenzio. Una tacita complicità durata decenni.
Tito morì nel 1980 e in Iugoslavia emersero i vari nazionalismi che hanno portato allo sfascio della Federazione. Tra il 1991 e il 1992 i vari stati sono diventati indipendenti.
Intanto solo dopo il 1989, col crollo del muro di Berlino e con la caduta del comunismo sovietico, si cominciò a sentire la necessità di far luce sulla vicenda degli esuli.
Il 3 novembre 1991 il presidente della Repubblica Francesco Cossiga si recò, come pellegrino, a Basovizza, le cui foibe sono oggi monumento nazionale, insieme a quelle di Monrupino, e in ginocchio chiese perdono per un silenzio durato 50 anni.
Poi ci fu il film della Rai “Il cuore nel pozzo”. Poi ancora un altro presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro si recò a Basovizza l’11 febbraio 1993. Così a poco a poco abbiamo conosciuto la sofferenza di questi italiani e finalmente nel 2004 è stato istituito il giorno del ricordo, il 10 febbraio, giorno della firma dei trattati di pace del 1947.
Sono state vicende complesse e articolate, che hanno suscitato profonde emozioni e sentimenti contrastanti. Sono però avvenimenti che bisogna conoscere e ricordare, perché sempre attuali. Oggi ci sono ancora molti pregiudizi nei confronti degli esuli, dei migranti. Ci vorrebbe maggiore sensibilità nei confronti di quanti, oggi, abbandonano con dolore le proprie terre, per motivi politici, economici, civili.
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