giovedì 29 aprile 2021

La Divina Commedia:INFERNO-CAPANEO e il Veglio di Creta(14° Canto)

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Relatrice: SILVIA LADDOMADA

Dante e Virgilio hanno lasciato la selva spettrale dei suicidi, dove hanno incontrato Pier delle Vigne, vittima innocente dell'invidia, "la meretrice-morte comune e delle corti vizio".

Sono ora arrivati in una landa desolata, un sabbione arroventato, circondato dalla selva dei suicidi e attraversato dal Flegetonte, quel fiume di sangue bollente, che riempiva il fossato in cui erano immersi, nel primo girone, i violenti contro il prossimo (assassini, predoni, tiranni).

In questo sabbione sono condannati i violenti contro Dio, gli empi, le anime di uomini temerari e blasfemi, che giacciono supini; i violenti contro natura, i sodomiti, che corrono senza sosta; i violenti contro l'arte, gli usurai, che rimangono rannicchiati.

Su tutti i dannati cadono, lente e inesorabili, larghe falde di fuoco, che infiammano la sabbia e che le anime cercano di schivare difendendosi con le mani.

In questo scenario disperato si ambienta la prima apparizione del girone: Capaneo, un personaggio mitologico, noto per la sua empietà e il suo disdegno della divinità.

Capaneo era uno dei sette re che assediarono Tebe, il quale fu fulminato da Giove, perché giunto in cima alle mura della città, sfidava ironicamente Bacco, Ercole e Giove, invitandoli con temerarietà a proteggere e salvare la loro cara Tebe.

Capaneo attira l'attenzione di Dante, che dice a Virgilio:

 chi è quel grande che non par che curi
lo ’ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che ’l marturi?".

chi é quel gigante che non sembra preoccuparsi del fuoco e giace sprezzante e contorto, sì che non sembra che la pioggia di fuoco lo tormenti?

 E quel medesmo, che si fu accorto
ch’io domandava il mio duca di lui,
gridò: "Qual io fui vivo, tal son morto.

L'anima, che si era accorta che io chiedevo notizie di lui a Virgilio, mio maestro, gridò: "come fui da vivo, così sono da morto!"

E deridendo Giove, lo provoca ancora una volta, dicendo che nemmeno un secondo fulmine lo avrebbe umiliato

 Allora il duca mio parlò di forza
tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:
"O Capaneo, in ciò che non s’ammorza

la tua superbia, se’ tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito". 

CAPANEO

 
Allora Virgilio, con uno sdegno che Dante non aveva mai visto prima, gli disse: "Capaneo, proprio in questo, che non si riduce la tua superbia, tu sei più punito. Nessun tormento se non la tua rabbia é l'adeguata punizione al tuo furore".

Questo dannato ostenta una forza brutale, é ossessionato dall'idea di non confessare la sconfitta, si vanta di non aver rinunciato alla sua spavalderia (come fui da vivo, così sono da morto), un dannato esasperato, che si impegna stizzosamente di dimostrare l'impotenza di Giove, che mai l'avrebbe visto umiliato. Si contorce, si alza sulla sabbia, lui, che é condannato a rimanere supino, come a dimostrare che il giudizio divino e il castigo non l'hanno raggiunto. Non si pente ed é vendicativo. Ci fa ricordare Francesca da Rimini.

Un personaggio del poema Tebaide del grande poeta epico romano Publio Stazio, un'opera molto conosciuta nel Medio evo.

Per questo Dante sceglie Capaneo, esempio di empietà presso gli antichi, come simbolo della folle superbia e dell'odio contro Dio di uomini, le cui anime sono destinate a questo girone. Però nella Tebaide, l'atteggiamento di Capaneo é quello dell'eroe prometeico, mentre per Dante Capaneo é disorientato dal castigo ricevuto, in lui persiste una rabbia che lo divora dentro. Il Giove, divinità falsa e bugiarda, contro cui Capaneo inveisce, é per Dante la Divinità, che ogni cristiano deve sentire come potenza, come principio d'autorità, come termine fisso dell'obbedienza umana.

Una figura che erroneamente viene paragonata a Farinata degli Uberti, incontrato nel cerchio degli eretici, ma Farinata riconosce i suoi limiti, parlando di Firenze, aveva detto "quella nobil patria natìa, alla qual forse fui troppo molesto". Abbiamo ammirato anche la sua grandezza morale, che emerge quando dice di soffrire più per il non ritorno a Firenze dai suoi che n dalle pena, " S'elli hanno quell'arte mal appresa, (cioè la capacità di tornare) ciò mi tormenta più che questo letto" (la bara infuocata in cui giace).

Lasciando l'anima di Capaneo in compagnia del suo disdegno di Dio, Dante e Virgilio proseguono il cammino lungo l'argine del fiume Flegetonte.

Virgilio coglie l'occasione per spiegare l'origine dei fiumi infernali.


Essi nascono dalle lacrime di dolore per l'umanità, che sgorgano dal corpo del Veglio di Creta.

Racconta Virgilio che a Creta, all' interno del monte Ida, vi é un'enorme statua con lo sguardo rivolto a Roma, sede del Papa e dell'Imperatore, che ha la testa d'oro, le braccia e il petto d'argento, il tronco in rame, le gambe di ferro, il piede destro di terracotta, sul quale tutta la statua si regge.

Essa simboleggia la decadenza dell'umanità. Sul corpo si sono aperte delle fessure, ma non dalla testa.

Da queste fessure escono fiumi di lacrime che scendono, perforano la roccia della montagna e di roccia in roccia giungono nell'abisso infernale, formando un unico fiume, che prende nomi diversi man mano che scende.

Esso diviene, passando nei cerchi, acqua (Acheronte), poi fango (Stige), sangue (Flegetonte), ghiaccio (lago Cocito), nel fondo dell'Inferno.

La statua del Veglio di Creta non é del tutto inventata da Dante. Di essa parla la Bibbia, e poi i Padri della Chiesa, e poi Virgilio, Giovenale, Lucano, Ovidio. Dante quindi ha preso ispirazione dalla Bibbia e poi ne ha elaborato la storia, facendone la fonte dei fiumi infernali. Ma cosa dice la Bibbia?

In un libro del Vecchio testamento, il libro di Daniele, si parla di uno strano sogno fatto dal re dei Babilonesi, Nabucodonosor, che i sapienti non riuscivano a interpretare, ma che solo Daniele riuscì nell'intento.

Il re aveva sognato di trovarsi ai piedi di una statua gigantesca, fatta di tanti metalli, col piede di argilla, contro cui era stata scagliata misteriosamente un macigno che l'aveva completamente frantumata.

Questo macigno era poi diventato un'enorme montagna.

Daniele aveva dato questa interpretazione: l'oro rappresenta il regno luminoso di Nabucodonosor, poi ci sarebbero stati dei regni più deboli, meno duraturi. Dopo ancora, un regno più breve e più fragile, in cui la solidità del ferro si sarebbe mescolata all'argilla mobile. Il macigno che lo distrugge e che diventa una montagna simboleggia l'avvento di un regno che non sarebbe stato mai distrutto e che sarebbe durato in eterno. E' un riferimento al regno instaurato nella storia dal dio d'Israele. Nabucodonosor, dice la Bibbia, apprezzò e onorò Daniele.

L'interpretazione nel tempo é stata diversa: la statua forse rappresenta le varie età dei metalli della storia o, in senso morale, rappresenta una partenza fragile dell'uomo, dopo la caduta dal paradiso terrestre, e un percorso verso un'età d'oro, un'età messianica. Tutto è possibile.

Il Canto di Capaneo e del Veglio di Creta, dimostra la singolare efficacia che nella cultura dantesca hanno le tradizioni classiche e quelle cristiane, il mito e la storia. Momenti diversi, che vanno dalla provocazione rabbiosa contro gli dei al pianto tragico che sgorga dalla statua, creano in questo 14° canto un'atmosfera misteriosa, ricca di sottintesi allegorici, e di richiami alla debole condizione dell'uomo che si allontana dalla retta via.

 
 
 

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