mercoledì 14 aprile 2021

LA DIVINA COMMEDIA: INFERNO-PIER DELLE VIGNE (13° CANTO)

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RELATRICE: SILVIA LADDOMADA

Dante e Virgilio hanno lasciato la città di Dite, dove Dante ha incontrato gli eretici e si é intrattenuto con Farinata degli Uberti.

 

 Prima di scendere nei tre cerchi successivi, attraverso la voce di Virgilio, Dante sente la necessità di sottolineare ancora una volta che l'ordinamento delle anime dannate non é casuale. Vuole descrivere il sistema penale dell'Inferno, vuole dimostrare che la poesia e la dottrina sono ordinate tra loro, formano la struttura architettonica, morale, del regno infernale, ma anche del Purgatorio e del Paradiso.

Parla Virgilio, ma é Dante a parlare al lettore. Egli si ispira all'Etica Nicomachea del filosofo greco Aristotele e ai Padri della Chiesa. Da Aristotele deriva il principio che le tre disposizioni al male che Dio non tollera sono l'incontinenza, la malizia, la matta bestialità.

L'incontinenza é il peccato dell'uomo che cede all'impulso delle passioni, dell'uomo in cui la ragione é annebbiata dall'istinto.

La malizia é il peccato dell'ingiuria perpetrata da parte di chi volutamente viola il diritto altrui, da parte di chi ha intenzione di fare un'ingiustizia a qualcuno. Questa malizia si può manifestare attraverso la violenza o attraverso la fraudolenza, l'inganno, la matta bestialità.

Sono colpe gravi, perché c'é la partecipazione della volontà a fare il male e la lucida conoscenza dell'atto peccaminoso.

La classificazione dell'incontinenza rispecchia, invece, il catechismo della Chiesa.

Le anime sono classificate secondo l'abbandono, senza rimorso, senza pentimento, ai 7 vizi capitali: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, accidia. Sono peccati passionali, ammessi per debolezza, ma pur sempre trasgressioni

Nel cerchio dei lussuriosi Dante ha incontrato Francesca da Rimini e Paolo.

Nel cerchio dei golosi il fiorentino Ciacco, nel cerchio di avari e prodighi, molte anime di chierici e anime non identificate, nel cerchio di accidiosi e iracondi Filippo Argenti, un fiorentino che racchiude in sè l'ira, la superbia, l'invidia, intesa come rivalità tra prepotenti.

A differenza delle classificazioni dei peccati dei testi teologici, c'é però nell'Inferno dantesco un rapporto più umano col peccato. I peccatori hanno una loro concreta fisionomia, hanno peccato come peccano tutti gli uomini sulla terra, sono stati uomini comuni o uomini grandi, capaci anche di nobili azioni. Dante prova sdegno, compassione, pietà, orrore, ma c'é sempre da parte del sommo poeta un'umana commozione, e questo spesso porta il lettore a provare un sofferto senso di colpa di fronte ai peccati che scorrono, e anche un orrore più profondo per la pena eterna.

Più gravi, e perciò punite più severamente, sono le trasgressioni compiute per colpevole deviazione della ragione. Un peccato a parte é infatti, l'eresia, soprattutto quella epicurea, che nega la spiritualità e l'immortalità dell'anima e fa vivere i seguaci non da uomini secondo ragione, ma da bestie, secondo l'appetito sensitivo. E' un peccato di bestialità della ragione, quindi più grave rispetto ai vizi capitali.

Dopo questa pausa didascalica, i due pellegrini lasciano la città di Dite e attraverso una rupe scoscesa e pericolosa scendono nel 7 cerchio: il cerchio dei violenti. Il custode é il Minotauro, un mostro dal corpo umano e dalla testa di toro, personaggio mitologico, qui trasformato in demone, simbolo allegorico della violenza cieca e bestiale. Questo cerchio é diviso in tre gironi, tre strati, in cui sono condannati i violenti contro il prossimo, i violenti contro se stessi e i loro beni, i violenti contro Dio, la natura, l'arte.

Di fronte ai pellegrini si presenta un fossato pieno di sangue bollente, il fiume Flegetonte, in cui sono immerse le anime dei violenti contro il prossimo, cioé i tiranni, gli assassini, i predatori, che usarono gli averi e la vita degli altri a loro piacimento, con malvagia intenzione. Essi sono tenuti a bada da gruppi di Centauri, personaggi mitologici, metà uomo e metà cavallo, simbolo allegorico della violenza realizzata per mezzo dell'intelligenza.

I Centauri impediscono alle anime di uscire dal fiume e colpiscono con frecce chi tenta di sollevarsi dal sangue bollente. Virgilio preferisce spiegare a Chirone, capo dei Centauri, le ragioni del loro viaggio, non al Minotauro.

Chirone era, nella mitologia, un saggio, sapiente e accorto maestro di umanità e di valore, noto anche come il maestro di Achille. Chirone, verso cui i due pellegrini mostrano una certa simpatia, li affida a un Centauro, Nesso, e sulla groppa di questi Virgilio e Dante costeggiano il fossato per scendere nel secondo girone.

Nesso indica alcuni sanguinari tiranni che uccisero le persone, privandole dei loro beni, senza pietà. Alessandro Magno, Dionigi di Siracusa, Attila re degli Unni e alcuni assassini, signori d'Italia, e tanti ladroni che atterrivano i viandanti. Persone note, nel tempo di Dante.

Laddove il fiume abbassa il suo livello, Nesso fa scendere i due poeti. Essi si avventurano in un orribile bosco di piante scure, spinose, nodose e contorte, alberi spettrali su cui crescono non frutti ma spine piene di "tosco", di veleno. Sui loro rami sono appollaiate le Arpie, mitici mostri dal corpo di uccello rapace e volto di donna, tormentati da fame insaziabile.

La selva dei suicidi e le Arpie
Mostri di cui Virgilio aveva parlato nel suo poema, Eneide. Quando Enea era approdato in Sicilia, vide la sua tavola insozzata da queste figure mostruose, una delle quali predisse ai troiani pene e sventure prima di terminare il viaggio.

Sono giunti nel secondo girone del settimo cerchio, dove sono condannati i suicidi e gli scialacquatori, cioè coloro che agirono contro se stessi o contro i beni di fortuna che gli appartengono, dissipandoli, "biscazzano la loro facultade", con riferimento al gioco alla bisca.

Dante in questa selva non vede nessuno, però sente gemiti e lamenti e immagina che provengano da anime nascoste tra quegli alberi cespugliosi.

Virgilio gli suggerisce di staccare un ramoscello e appena Dante lo fa, dalla pianta esce del sangue e si ode una voce addolorata che invoca pietà per la sua triste sorte. 

Virgilio si scusa spiegando che era l'unico modo per convincere Dante che delle anime potessero essere trasformate in piante, e lo invita a rivelare il suo nome. 

Si tratta di Pier Delle Vigne, cancelliere dell'imperatore Federico II, il quale racconta che al culmine del suo prestigio, i cortigiani invidiosi, lo accusarono di tradimento e lo fecero cadere in disgrazia.

Per la vergogna egli si suicidò. (versi 22-78)

                                      

...Io sentia d’ogne parte trarre guai

e non vedea persona che ‘l facesse;

per ch'io tutto smarrito m'arrestai.

Cred' io ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.


Però disse ‘1 maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d'una d'este piante,
li pensier c'hai si faran tutti monchi».

 Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?


Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb' esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».


Come d'un stizzo verde ch'arso sia
da l'un de’ capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,


sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond' io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.

     
«S'elli avesse potuto creder prima»,
rispuose ‘1 savio mio, «anima lesa,
ciò c'ha veduto pur con la mia rima,

non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.

Ma dilli chi tu fosti, sì che ‘n vece
d'alcun’ ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».

E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi,
ch'i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’ io un poco a ragionar m'inveschi.

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,

che dal secreto suo quasi ogn' uom tolsi;
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch'i’ ne perde’ li sonni e‘ polsi.

La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,

infiammò contra me li animi tutti;
e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto,
che’ lieti onor tornaro in tristi lutti.

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto...

Mentre Dante e Virgilio, ascoltano il racconto, si odono dei rumori ed essi vedono due anime che corrono, inseguite da cagne nere fameliche.

Sono due scialacquatori, violenti contro i propri beni, (un giovane senese e un giovane padovano, noti per sperpero di denaro e dei propri beni); uno dei quali, nascondendosi in un cespuglio viene comunque raggiunto e sbranato, provocando tante sofferenze alla pianta, in cui è tramutato un altro anonimo suicida (giudice), che si dichiara originario di Firenze e prega i poeti di raccogliere ai piedi del cespuglio i rami rotti.

Non dice Dante chi sia questo suicida, ma incontrare un fiorentino che si impicca in casa, è un chiaro riferimento alla violenza delle fazioni che sconvolgeva la vita civile di Firenze.

Pier delle Vigne

Pier Delle Vigne era un poeta della scuola siciliana, fondata da Federico II a Palermo, nel ventennio del suo regno (1230-1250). 

Nella corte del re si radunavano tutti i poeti e letterati del centro-sud della penisola per cantare l'amore alla maniera dei trovatori provenzali; cantavano “l'amor cortese”, la donna come un essere irraggiungibile, esaltata per la sua bellezza fisica. Cantavano la lealtà e la dedizione assoluta del poeta all'amata. 

Molti intellettuali oltre ad essere poeti erano anche funzionari della moderna monarchia del Sud Italia, creata da Federico II.

In particolare Pier Delle Vigne (di Capua), era notaio, poi giudice della Magna Curia dell'impero e poi cancelliere e uomo di fiducia, anche personale, del sovrano, un potere senza limiti.

Dopo la sconfitta di Federico nella battaglia di Cremona nel 1248 (la guerra condotta dall'Imperatore contro i comuni italiani del Nord), Pier Delle Vigne fu accusato di tradimento, portato in carcere a San Miniato e poi accecato con un ferro rovente.

Si suicidò poi a Pisa, sfracellandosi la testa contro il muro.

Molti cronisti del tempo parlarono di accuse infondate, e lo stesso Dante condivide questa opinione.

Un altro personaggio verso cui Dante prova tanta pietà; egli non parla, se non per dire che non può parlare: si commuove di fronte a un funzionario fedele, che si suicida perché ingiustamente accusato di tradimento.

In quanto uomo onesto egli ha sofferto senza colpa e Dante capisce il suo gesto, ma non lo giustifica.

Questo 13° canto è uno dei più drammatici della Commedia, in esso viene affrontato un tema di grande impatto umano e teologico, il suicidio.

A differenza dei filosofi classici, che arrivavano a legittimare il suicidio a considerarlo una manifestazione di grandezza d'animo (Catone, nel Purgatorio), per la religione cattolica il suicidio è una grande ingiuria nei confronti dell'amore di Dio. 

Ma quello che interessa a Dante non è tanto la condanna del peccatore, ma il tentare di capire come possa un uomo essere ingiusto con se stesso.

Per questo egli si serve di una figura nota per la sua moralità: un innocente, condannato ingiustamente, che con il suo gesto diventa colpevole verso se stesso.

C'è forse qualcosa che Dante sente di avere in comune col poeta, entrambi furono letterati impegnati nella vita civile e politica, vittime dell'invidia dei contemporanei e condannati da coloro a cui avevano dedicato la vita: Federico II per Pier Delle Vigne e Firenze per Dante.

Ma Dante non ha ceduto alla tentazione del suicidio, ha preferito la strada dell'esilio. 

La tragica scelta del funzionario siciliano non impedisce a Dante di cantarne la grandezza morale, ma non può perdonare, perché Dio non perdona questo peccato, tant'è che con il Giudizio Universale i suicidi non rientreranno in possesso dei loro corpi ma, unici tra tutti i dannati, riporteranno le loro spoglie nella selva, per appenderle agli alberi. Il corpo rigettato starà per l'eternità davanti agli occhi dell'anima, che ancora lo vorrebbe ma non può.
Nel suo colloquio con Dante, Pier Delle Vigne usa un linguaggio prezioso, elaborato, retorico, parla di se', delle cariche avute, dei suoi onori, ci trasporta nella splendida corte di Federico II e poi con tristezza ricorda il rovesciamento della sua fortuna: l'invidia dei cortigiani malevoli, che come una meretrice insinuò sospetti nel cuore di Federico che lo allontanò dalla corte, sconvolgendo il suo animo e portandolo al gesto estremo. Un linguaggio delicato, rispettoso, che Dante fa usare all'anima, quasi un omaggio alla figura di questo letterato, maestro nello stile, che alla fine sembra gioire per aver incontrato Dante, da cui spera di essere riabilitato, ricordando, una volta tornato sulla Terra, la sua fedeltà a Federico.


 SU: MINERVA NEWS(sito www.associazioneminerva.org)-cliccare su block notes con la penna "CONOSCE LA STORIA DELL'ATM E DINTORNI" di Franco PRESICCI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

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