mercoledì 5 maggio 2021

LA DIVINA COMMEDIA: INFERNO - BRUNETTO LATINI (15° canto)

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Relatrice: Silvia LADDOMADA

Dante e Virgilio camminano sull'argine del fiume Flegetonte, un fiume di sangue bollente e costeggiano il sabbione infuocato, terzo girone del settimo cerchio. Dopo i violenti contro Dio, che giacciono supini, sferzati dalle falde di fuoco, tra cui l'ampio e noto Capaneo, ora i due poeti incontrano una schiera di anime dannate che corrono in circolo.
Sono i sodomiti, violenti contro natura. Il nome richiama Sodoma, l'antica città della Palestina distrutta da Dio con una pioggia di fuoco e zolfo, perché i suoi abitanti si erano abbandonati ad ogni sorta di lussuria.
Così dice la Bibbia, nel libro della Genesi (Cap. 19).
Per sodomia si intende l'omosessualità.
Nel 1300 era un peccato mortale, del resto fino agli inizi del 1900 i sodomiti o erano condannati a morte o venivano sottoposti a lavori forzati.
Ritorniamo ai due poeti. Questi dannati corrono, dice Dante, ma si accorgono dei due pellegrini che attraversano il girone incolumi. Li fissano con curiosità, aguzzano lo sguardo, come fa un vecchio sarto quando tenta di infilare il filo nella cruna dell'ago.

A un certo punto un dannato afferra confidenzialmente il lembo della veste di Dante, ed esclama "che meraviglia!", cioè che sorpresa!
Dante si volge, scruta il "cotto aspetto", il viso "abbruciato" e riconosce il suo maestro: Brunetto Latini.
Dante ha subito un gesto d'affetto, stende la mano verso quel viso sfigurato dal fuoco e, attonito, chiede: "Siete voi qui, ser Brunetto?".
La meraviglia é reciproca, ma anche il turbamento. Brunetto é stupito, ma anche addolorato, per la vergogna di essere stato trovato là.
Dante é a disagio, perché solo ora apprende, con dolorosa sorpresa, che il suo maestro giace nel girone infamante dei sodomiti.
Il dialogo tra maestro e discepolo é denso di emozioni. Nelle parole di Dante si coglie l'umana pietà per l'anima e l'amara delusione, lo stordimento personale. La poesia di questo incontro é tutta in questo dramma: la vergogna del vecchio maestro e la pena del discepolo, che in questo ritorno improvviso alle sue memorie fiorentine e agli anni della giovinezza, vede travolti gli insegnamenti, gli affetti, gli ideali giovanili. 
Ma nonostante tutto, c'é gratitudine cortese verso Brunetto. "Mi insegnaste come, con sapienza e virtù, l'uom si eterna".

Chi era Brunetto Latini? Era un letterato, notaio e cancelliere della Repubblica di Firenze, autore del Tresor (Tesoro), un'enciclopedia scritta in lingua d'oil, che trattava di astrologia, astronomia, geografia, scienze naturali, retorica, politica, e parlava anche di vizi e di virtù.
Per Dante fu maestro di filosofia naturale, il maestro a 70 anni amava conversare su temi letterari e morali con Dante, giovane trentenne.
Lo storico fiorentino del tempo, Giovanni Villani, diceva che ser Brunetto fu sommo maestro di retorica e aggiungeva che fu "mondano uomo", con riferimento allusivo al suo vizio.
Leggiamo questo colloquio (v.22-39)
 
Così adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e gridò: "Qual maraviglia!"

E io, quando ’l suo braccio a me distese, ficcaï li occhi per lo cotto aspetto, sì che ’l viso abbrusciato non difese

la conoscenza süa al mio ’ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: "Siete voi qui, ser Brunetto?"
E quelli: "O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia"

I’ dissi lui: "Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m’asseggia, faròl, se piace a costui che vo seco"

"O figliuol", disse, "qual di questa greggia s’arresta punto, giace poi cent’anni sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia



Il maestro si rivolge a Dante con tenerezza chiamandolo figliuolo, ma comprende il disagio, la ripugnanza che Dante ha provato nel vederlo in tale compagnia, per cui non dice: sono il tuo maestro, ma sono Brunetto Latini, quasi a far emergere dalla vita terrena, l'immagine della sua dottrina e della sua autorità. Ma quel sentirsi chiamare figliuolo più volte, suona stridente alle orecchie di Dante, e per Brunetto, essere stato scoperto suona come una sconfitta umana e morale.

El cominciò: "Qual fortuna ho destino anzi l'ultimo di quaggiù ti mena?
e chi è questi che mostra 'l cammino?" (Inferno XV 46-48)


Quel volto venerato, paterno che Dante ricordava é ora il volto di chi ha infranto le leggi umane e divine, quel volto abbruciato é di un uomo che ha avvilito il concetto di paternità, che amava  trascorrere del tempo con Dante, lo istruiva, lo incoraggiava, ma non come un padre.
Il vecchio maestro é consapevole della propria colpa e pian piano la confessa. Riferendosi al suo gruppo, parla  di "masnada" che va piangendo i suoi eterni danni.
Dante gli dice poi che grazie a Virgilio sta compiendo questo viaggio da vivo, per ritornare sulla diritta via, purtroppo smarrita, e qui Brunetto, conoscitore ed esperto di astrologia, predice il successo di Dante (v.55-60).

Ed elli a me: "Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;
 e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto.

Se tu sarai fedele all'influenza della tua costellazione, raggiungerai il porto della gloria immortale. Se io fossi ancora vivo, ti avrei aiutato.
 Ma oltre alla lode e alla conferma che Dante otterrà la gloria dell'immortalità poetica, Brunetto profetizza il male dei fiorentini verso di lui. Qui il colloquio diventa più confidenziale, il registro linguistico diventa più domestico, si arricchisce di espressioni popolari, tipiche delle conversazioni tra amici. Ma il giudizio é solenne. L'ingrato e indegno popolo di Firenze cercherà di annullare la gloria di Dante, ma non ci riuscirà. (v.61-75)

 

Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno,

ti si farà, per tuo ben far, nimico: ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico.

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent’è avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi.


  La tua fortuna tanto onor ti serba, che l’una parte e l’altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l’erba.

Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesme, e non tocchin la pianta, s’alcuna surge ancora in lor letame,









"L'una e l'altra parte (Bianchi e Neri), avran fame di te, (tenderanno di distruggerti) ma "lungi fia dal becco l'erba". ma resteranno digiuni, l'erba non sarà beccata dal capro (espressione popolare).
La generosa difesa di Brunetto commuove Dante, che cerca di rivalutare il suo maestro, rievocando con gratitudine "la cara e buona immagine paterna" di un tempo, che ora gli appare patetica e ambigua, quando ser Brunetto gli insegnava "come l'uom si etterna".
Nel libro del Tesoro il maestro aveva scritto che "chi si interessa di grandi cose, avrà la gloria di una seconda vita. Dopo la morte, infatti, rimarrà la nominanza delle sue buone opere. E questo mostrerà che egli é ancora in vita".
Insegnamento che lo ha reso robusto ai colpi di fortuna, per cui può dire forte: "giri fortuna sua rota, come le piace, e il villan la sua mazza"
Ma nel Tesoretto, un altro poemetto allegorico e didattico incompiuto, Brunetto Latini aveva condannato la sodomia, dicendo: "Tra questi peccatori, son vie più condannati que' che son sodomiti. Deh, come son periti que che contro natura brigan cotal lusura!"
E così Brunetto va via, raggiunge la masnada, ed esprime una fuggevole raccomandazione: "Sieti raccomandato il mio Tesoro, nel qual io vivo ancora". E Dante  guarda con commiserazione il vecchio maestro, che raggiunge i compagni "lerci" della "turba grama", correndo come coloro che corrono in campagna, a Verona, per afferrare il drappo verde, come palio.

 




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