mercoledì 8 febbraio 2017

GIORNO DEL RICORDO-FOIBE 10 febbraio 1947

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RELAZIONE DI SILVIA LADDOMADA

Parliamo oggi di una tragica pagina della nostra

 

storia, per molti anni seppellita nel silenzio, “una

 

pagina strappata nel libro della nostra storia”, ha

 

detto il presidente Mattarella.

 

 











Con una legge del 30 marzo 2004 è stato istituito in Italia “il giorno del ricordo”, per commemorare la tragedia delle foibe e l’esodo dalla loro terra di Istriani, Fiumani e Dalmati. Celebrare questo giorno servirà a conservare e rinnovare la memoria di oltre 10.000 italiani soppressi o infoibati, dall’8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947, allorché oltre 350 mila italiani furono costretti a lasciare le loro case, i loro affetti e chiedere asilo altrove.

Il 10 febbraio 1947 il Parlamento italiano ratificò il trattato di pace di Parigi, che assegnava alla Iugoslavia l’Istria e la maggior parte della Venezia Giulia. La sovranità dell’Italia decadeva su quelle terre, per cui gli abitanti scelsero l’esodo di massa, perché vittime di una feroce repressione iugoslava.

Cosa è questo massacro delle foibe.

Il nome è di origine latina, deriva da “fovea”- fossa. Le foibe sono delle voragini, delle cavità naturali, scavate dalle acque nella roccia carsica, sul confine orientale italiano, estremamente tortuose e profonde fino a 250 metri, con un ingresso stretto e a strapiombo. All’imboccatura di queste fosse venivano trascinate le persone, legate tra loro da un filo di ferro collegato a pesanti massi, fucilate e, spesso ancora vive, lasciate cadere giù. Spesso una persona sola veniva colpita dal fucile, l’altra ancora viva veniva trascinata insieme.
 
La scoperta di una foiba
Questo orrore cominciò dopo l’8 settembre 1943, nell’Istria, dove dominavano i partigiani iugoslavi, i quali, dopo la caduta del fascismo, individuarono un migliaio di cittadini italiani, presunti collaborazionisti del fascismo, o cittadini italiani non graditi agli Slavi e li destinarono ad una morte orrenda.

Questa strage raggiunse il culmine nel 1945 e continuò fino al 1947.

Gli Italiani morirono vittime di fucilazioni, attentati, annegamenti, deportazioni in campi di concentramento iugoslavi, in cui venivano torturati e lasciati morire di stenti e malattie. 11.000 vittime, gettate poi nelle foibe, usate per nasconderle, per annullarne l’esistenza; una soluzione pratica, anche, per un terreno carsico, sassoso, in cui era difficile scavare delle fosse comuni. Responsabile di questo orrore fu Josip Broz, detto Tito, segretario del partito comunista clandestino della Iugoslavia, che guidò la Resistenza contro i nazifascisti.

Il presidente del Consiglio di allora De Gasperi aveva chiesto una spiegazione della scomparsa di oltre 11.000 italiani e Tito aveva confermato l’esistenza delle foibe, mai smentite nemmeno dai governi slavi successivi.

Tutta questa violenza verso gli Italiani, residenti in Istria e Dalmazia fu la conseguenza degli scontri ideologici dei regimi dittatoriali che provocarono la 2° guerra mondiale: il nazifascismo a destra, il comunismo a sinistra.

Storicamente occorre risalire alla prima guerra mondiale. Col patto di Londra del 1915 l’Italia si impegnava ad entrare in guerra accanto agli Alleati con la promessa di ottenere, in caso di vittoria, l’Istria, la Venezia Giulia, la Dalmazia, facenti parte dell’impero asburgico, coronando così il disegno di definire i confini orientali del regno d’Italia. (La 1° guerra fu vista da molti come una quarta guerra di indipendenza dall’Austria).
 
Il Maresciallo Tito
In queste terre c’era già una dualità etnica e linguistica – italiana e slava.

A guerra conclusa, però, l’Italia non ottenne la Dalmazia, né la città di Fiume. Si parlò di vittoria mutilata, di fallimento del progetto risorgimentale.

Si sviluppò uno spirito nazionalistico che divenne più prepotente con l’avvento del Fascismo.

Dall’altra parte, quindi nella penisola balcanica, erano sempre più evidenti le spinte nazionalistiche dei vari gruppi etnici, diversi tra loro anche per cultura e religione, soprattutto di Sloveni, Croati e Serbi, che miravano a dominare sugli altri stati Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Macedonia.

I nazionalisti slavi erano antiitaliani, perché c’era già una tensione tra Slavi e Italiani relativa al controllo dell’Adriatico orientale.

Quando si affermò il Fascismo (1925), nelle terre balcaniche annesse all’Italia fu proibito l’uso della lingua slava, furono esclusi dalle cariche pubbliche i cittadini di origine non italiana e furono inflitte alle minoranze slovene e croate, incluse nel Regno d’Italia, tante sofferenze e tanti crimini. Fu una politica di italianizzazione forzata, ma soprattutto fu un’umiliazione inaccettabile e dannosa.
Nel 1941, nel corso della 2^ guerra mondiale, gli eserciti nazifascisti occuparono la Iugoslavia, partendo proprio dalle basi italiane in Venezia Giulia e in Istria. I Croati divennero collaborazionisti, noti erano i dirigenti di estrema destra, gli “ustascia”, questi ultimi perseguitarono partigiani, ebrei, zingari, annullandoli negli spietati campi di concentramento slavi. Contro di loro Tito. Fino al 1943 furono tanti gli scontri, i soprusi, le rappresaglie reciproche.

Dopo l’armistizio del 1943, i partigiani di Tito dettero inizio al massacro delle foibe in Istria, mandando a morte chiunque fosse sospettato di essere fascista. L’intento era anche quello di imporre nei Balcani un governo filo comunista, ed eliminare ogni forma di opposizione. Si cominciò a parlare di pulizia etnica.

A dicembre 1943, in Italia si era formata la Repubblica di Salò, i repubblichini e i nazisti ripresero l’Istria, la Venezia Giulia e la Dalmazia, terre italiane. Con eserciti addestrati, i nazifascisti si abbandonarono a feroci episodi di repressione nei confronti dei partigiani di Tito.

Tra il ’44 e il ’45 i titini (seguaci di Tito), impegnati nella guerra di Liberazione, occuparono la Venezia Giulia e l’Istria e ne rivendicavano l’annessione. Tale rivendicazione, favorita, tra l’altro, dallo stesso partito comunista italiano, non fu accettata dai partigiani del luogo, decisi a difendere i territori italiani dal tentativo espansionistico di Tito. Furono gli alleati a far allontanare Tito dal Friuli Venezia Giulia, dopo averlo ringraziato per l’aiuto avuto contro il nazifascismo, impressionati dalla strage e dall’alleanza di Tito con Stalin. Ma gli alleati non si preoccuparono dell’Istria, dove cominciarono le persecuzioni e le azioni di pulizia etnica da parte iugoslava.
A questo punto gli italiani che avevano aiutato gli stessi iugoslavi contro i fascisti e i nazisti, furono segnati, divennero nemici dello stato iugoslavo comunista, furono condannati perfino alcuni esponenti del Comitato di Liberazione Nazionale.

Nel 1945 furono sterminati 11.000 persone; gettate nelle foibe e non erano solo fascisti; neppure gli italiani tornati dai campi di concentramento tedesco furono risparmiati. Per i titini tutti i borghesi erano italiani, al di là dell’appartenenza politica, tutti erano da massacrare.

I partigiani slavi erano convinti di voler annettere al futuro Stato di Iugoslavia quella parte del Regno d’Italia, la Venezia Giulia, abitata prevalentemente ed esclusivamente da Croati e Sloveni, per farne una settima regione della Federazione. Erano convinti che un governo comunista iugoslavo fosse possibile solo attraverso una maggioranza dell’etnia slava. Era quindi essenziale la riduzione della popolazione italiana. Si diffuse un atteggiamento spietato, vendicativo, si diffuse l’equazione: italiano uguale fascista.
 
Tito-Presidente Repubblica Socialista Jugoslava
Nei trattati di pace firmati a Parigi il 10 febbraio 1947 alla Iugoslavia vennero annesse l’Istria e la maggior parte della Venezia Giulia, Trieste passò sotto il governo alleato e ritornò all’Italia nel 1954.

A questo punto cominciò l’esodo degli istriani, giuliani e dalmati. Fuggirono 350.000 italiani, il regime titino concesse loro di portare con sé solo 5 chili di vestiario e 5.000 lire. I loro beni furono requisiti dal regime. Per mesi rimasero accampati sul Carso, esposti al freddo e alla bora. Altri furono smistati in capannoni alla periferia di Venezia, Ancona, Bologna. Solo quando l’Italia avviò la ricostruzione essi riuscirono a trovare un lavoro e una sistemazione, concentrandosi soprattutto a Milano.

L’integrazione dei giuliano – dalmati fu un successo per la 1^ repubblica italiana, che mostrava di aprirsi a un governo democratico e liberale, avviando un promettente progresso civile e sociale.

In molti esuli però rimase l’amarezza e l’insoddisfazione, perché l’integrazione nella società italiana era stata possibile cancellando e sottacendo la propria identità d’origine.

Gli esuli parlavano dialetti veneti stretti, avevano cognomi di origine slava, tedesca, pur essendo italiani da diverse generazioni. Si definivano vagamente triestini, per evitare offese alla loro sensibilità, esacerbati dalla voluta ignoranza della loro storia, fingevano di gettare il passato alle spalle, per sopravvivere serenamente tra chi riusciva a comprenderli. Nonostante l’assistenza economica, i profughi lamentavano il carente riconoscimento delle loro sofferenze, dei sacrifici subìti per difendere l’identità italiana.

Perseguitati dalla Iugoslavia comunista, ora si sentivano emarginati e maltrattati dall’Italia.

Ma perché non si parlò più di questi feroci massacri?

Si stese un velo pietoso sulle atrocità commesse dai titini, per calcoli diplomatici, per pregiudizi ideologici, hanno affermato i nostri politici.

Tito nel gennaio 1946 aveva dato vita alla repubblica socialista federativa iugoslava, tenendo insieme, come leader carismatico, gli stati balcanici. I rapporti tra Belgrado e Mosca si alterarono. Nel 1948 il partito iugoslavo si separò da quello di Stalin, cercando una propria strada al socialismo.

Da questo momento prevalse la ragione di Stato; i rapporti tra Iugoslavia e paesi occidentali furono meno tesi, gli Stati Uniti non avevano interesse a infierire contro Tito, staccatosi dal comunismo russo, i governi italiani non si accanirono, per impedire che la Iugoslavia mettesse sotto processo i fascisti italiani autori dei crimini perpetrati durante la guerra.

Il PCI non parlava, per non far emergere la sottomissione al comunismo internazionale. Si mise a tacere tutto.

Con la fine della guerra fredda, nei primi anni del 1990, il tema delle foibe cominciò a interessare i cittadini italiani.

Questa memoria però cominciò a creare un clima conflittuale tra i partiti politici italiani. Quando poi si parlò di istituire un giorno del ricordo, ci fu anche imbarazzo nel Parlamento, sembrava che questo giorno fosse stato istituito in opposizione alla Giornata della Memoria, come se, ricordare i morti nei campi di sterminio tedeschi fosse sgradito a certi partiti, all’opinione pubblica, per cui si dovesse trovare un equilibrio, ricordando le vittime dei partigiani comunisti. Alla Shoah tedesca si doveva contrapporre la Shoah iugoslava.

C’era da sottolineare che le foibe erano “effetto dei crimini del comunismo” e c’era chi definiva i profughi dei “fascisti in fuga”.

Molte le critiche, le contromanifestazioni, gli atti di vandalismo nei confronti di targhe e monumenti realizzati in luoghi pubblici a memoria delle vittime, con scritte offensive e simboli anarchici.




Ora c’è meno tensione, e alcune foibe, come quelle di Basovizza e di Monrupino sono considerate monumenti nazionali.





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