Testo
declamato da Alessandro SERIO
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo.
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studiose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solea essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
Io non piangea, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".
Perciò non lacrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di subito levorsi
e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia".
Queta’mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: "Padre mio, ché non mi aiuti?".
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno».
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ’l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!
Ché se ’l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l’età novella,
novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata
e li altri due che ’l canto suso appella.
Noi passammo oltre, là ’ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l’ambascia;
ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
riempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, sì come d’un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,
già mi parea sentire alquanto vento:
per ch’io: «Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?».
Ond’elli a me: «Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l’occhio la risposta,
veggendo la cagion che ’l fiato piove».
E un de’ tristi de la fredda crosta
gridò a noi: «O anime crudeli,
tanto che data v’è l’ultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’io sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,
un poco, pria che ’l pianto si raggeli».
Per ch’io a lui: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».
Rispuose adunque: «I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo».
«Oh!», diss’io lui, «or se’ tu ancor morto?».
Ed elli a me: «Come ’l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scienza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Atropòs mossa le dea.
E perché tu più volentier mi rade
le ’nvetriate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima trade
come fec’io, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.
Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l’ombra che di qua dietro mi verna.
Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch’el fu sì racchiuso».
«Io credo», diss’io lui, «che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni».
«Nel fosso sù», diss’el, «de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancor giunto Michel Zanche,
che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che ’l tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi». E io non gliel’apersi;
e cortesia fu lui esser villano.
Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?
Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.
"...però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso..."
"...Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
dicendo: 'Padre mio, ché non m'aiuti?'..."
"...Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi gli occhi". E io non gliel'apersi;
e cortesia fu lui l'esser villano...
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso..."
"...Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
dicendo: 'Padre mio, ché non m'aiuti?'..."
"...Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi gli occhi". E io non gliel'apersi;
e cortesia fu lui l'esser villano...
INFERNO: XXXIII CANTO
(Il Conte Ugolino)
RELAZIONE
DI SILVIA LADDOMADA
Stiamo
nel 9° cerchio dell'Inferno, quello più vicino al centro della
terra e a Lucifero. E' il lago Cocito, un lago di ghiaccio in cui
sono immersi i traditori, peggiori dei fraudolenti, degli ingannatori
delle Malebolge. Il lago è diviso in 4 settori: la Caina per i
traditori dei parenti, l'Antenora per i traditori della patria, la
Tolomea per i traditori degli amici, la Giudecca per i traditori dei
benefattori.
Sono stati tutti peccatori spregevoli, perché
hanno ingannato persone a cui erano legati da vincoli di parentela,
di amicizia, di doveri, di ospitalità, rinnegando i più alti valori
della natura umana.
La
loro pena simboleggia il gelo del loro cuore.
Nel settore di Antenora l'attenzione di Dante è attirata da un'anima che addenta con rabbia la nuca di un'altra anima, quest'ultima silenziosa, pietrificata, un gesto orrendo, sacrilego. E' il conte Ugolino, l'altro è l'arcivescovo Ruggeri, entrambi signori della città di Pisa, nel 1280 uno guelfo, l'altro ghibellino). Sono personaggi storici, realmente esistiti. Ugolino della Gherardesca era un nobile feudatario di origine longobardica, grande e prestigioso uomo politico in Toscana ai tempi di Dante. Sono periodi tristi della storia d'Italia: la spregiudicatezza dei grandi feudatari, la loro inaffidabilità politica provocano tradimenti, morti, lotte civili continue tra le città.
Nel settore di Antenora l'attenzione di Dante è attirata da un'anima che addenta con rabbia la nuca di un'altra anima, quest'ultima silenziosa, pietrificata, un gesto orrendo, sacrilego. E' il conte Ugolino, l'altro è l'arcivescovo Ruggeri, entrambi signori della città di Pisa, nel 1280 uno guelfo, l'altro ghibellino). Sono personaggi storici, realmente esistiti. Ugolino della Gherardesca era un nobile feudatario di origine longobardica, grande e prestigioso uomo politico in Toscana ai tempi di Dante. Sono periodi tristi della storia d'Italia: la spregiudicatezza dei grandi feudatari, la loro inaffidabilità politica provocano tradimenti, morti, lotte civili continue tra le città.
Il
conte Ugolino si comportava come un tiranno, era un uomo ambizioso,
senza scrupoli, di cui erano noti difetti e inganni.
Nel corso delle guerre tra le città
marinare (Amalfi, Pisa, Genova e Venezia, città che gestivano gli
scambi commerciali con l'Impero bizantino e i paesi d'Oriente), il
conte governava Pisa, con il nipote Nino Visconti.
Per
spadroneggiare da solo, aveva organizzato una congiura contro il
nipote, chiedendo l'aiuto di un altro ambizioso signore,
l'arcivescovo Ruggieri, il quale, nonostante la carica religiosa,era
uno dei protagonisti della vita politica di Pisa. Entrambi tradirono
Nino Visconti.
Sappiamo
che le repubbliche marinare entrarono in conflitto per motivi di
concorrenza commerciale. Pisa aveva saccheggiato Amalfi già nel
1135. Nel 1284, nella battaglia della Meloria (vicino Livorno), fu
battuta da Genova.
Il
conte Ugolino comandava l'ala sinistra dello schieramento navale
pisano e riuscì a salvarsi a stento con poche navi. Dopo pochi mesi,
nominato podestà della città di Pisa, fece delle concessioni
territoriali a Firenze e a Lucca, per staccarle dalla lega con la
città di Genova. Nel 1288, la
fazione dell'arcivescovo Ruggieri riuscì a prendere il sopravvento;
dopo aver tramato contro il nipote del Conte, si volse contro di
lui. Fingendosi amico di Ugolino, lo chiamò col pretesto di
consolidare la loro amicizia e invece, nel frattempo, aveva scatenato
una sollevazione popolare, per cui il Conte fu accusato di aver
tradito Pisa, cedendo i possedimenti a Firenze e a Lucca, e quindi,
per volere dell'arcivescovo, venne catturato, insieme ai due figli e
ai due figli del nipote Visconti (1288).
Furono rinchiusi in una torre per 8 mesi, e poi abbandonati
senza più cibo, ne acqua. Il papa Niccolò VI rimproverò
l'Arcivescovo per ciò che aveva fatto, ma grazie alla morte del
Pontefice, l'Arcivescovo riuscì a conservare la Diocesi fino alla
morte (1295).
Questa
la storia.
Entrambi
traditori, entrambi la stessa pena, ma la giustizia divina li ha
posti uno vicino all'altro. Abbiamo già visto due peccatori insieme,
Paolo e Francesca associati dall'amore, anche se colpevole; Ulisse e
Diomede (fiamma a due punte), associati nelle volontà unica di
ingannare; il conte e l'arcivescovo sono uniti però dall'odio
reciproco.
E
qui comincia l'arte poetica di Dante.
Non un cenno al fatto storico, non un cenno
al loro comportamento politico. Al tempo di Dante tutti sapevano che
la politica si reggeva sui tradimenti reciproci. Ciò che preme a
Dante è l'infelice sorte del conte e soprattutto l'immatura morte
dei quattro giovani, che non c'entravano. Coinvolgere i figli nella
cattiva sorte dei padri era il risultato di un modo disumano di fare
politica; Dante pensa a se stesso, anch'egli aveva sperimentato
questo: i suoi figli, raggiunta la maggiore età, furono costretti
all'esilio, pagando da innocenti le responsabilità paterne.
Dante,
in questo nono cerchio è sprezzante con le anime, più di quanto sia
stato nelle Malebolge. Quella “plebe mal creata” gli sembra degna
di rimproveri, di calci, perfino di promesse ingannevoli. Però, in
questo abisso di ferocia, egli ha collocato l'episodio più patetico
dell'intero poema. Patetico non è il traditore Ugolino, ma il
tradito Ugolino.
All'inizio
del canto una scena cannibalesca: Ugolino affonda i denti nel cranio
dell'arcivescovo, ed è pronto a raccontare, pulendosi la bocca sui
capelli della vittima, per mettere in risalto il torto del suo
avversario.
Dante
sa calibrare il racconto, sa cogliere il precipitare dei prigionieri
verso la disperazione, Dante sa suscitare lo sdegno e la pietà,
verso questo peccatore, dei lettori. Man mano che il conte racconta,
non pensiamo quasi più alla pena che sconta nell'Inferno, ma alla
sofferenza inflitta a lui e ai figli, quando era sulla terra.
Cosa
è accaduto in quella torre?
Dopo 8 mesi di infelice e ingiusta
prigionia, il conte sogna una scena di caccia: un lupo e i suoi
lupacchiotti sono inseguiti da avidi cacciatori, tra cui
l'arcivescovo Ruggieri. Ad un tratto sopraggiungono delle cagne
affamate, che sbranano il lupo e i suoi figli. Un sogno premonitore,
e, si sa, nel Medioevo i sogni del mattino erano rivelatori di
verità.
Il conte si sveglia agitato, sente i suoi ragazzi che nel sonno piangono, chiedendo da mangiare. La loro situazione diventa tragica quando capiscono che la porta, attraverso cui arrivava il cibo, viene chiusa a chiave. Il conte fa intendere a Dante lo strazio di un padre, che deve controllarsi per impedire che i figli, smarriti e angosciati, debbano soffrire ancora. Quindi si frena, ma il giorno dopo, per la disperazione, compie un gesto inconsulto: si morde le mani, e i giovani offrono se stessi come pasto al padre affamato. E muoiono, a uno a uno. Scontato lo strazio del conte, politico malvagio, ma padre amorevole con i figli.
Poi,
scendono le ultime ambigue parole del conte, prima di riprendere il
suo feroce pasto a danno dell'arcivescovo. “Poi, più che il dolor,
potè il digiuno”.
Cosa vogliono
dire queste ultime parole? Ugolino, dopo aver pianto disperatamente
sui corpi dei figli morti, morì anch'egli per fame? O il conte
Ugolino, per sopravvivere ancora, si cibò dei corpi dei figli? Si
può pensare a due possibili agonie, per fame o per antropofazia. La
critica è divisa sull'interpretazione da dare a questi versi. Forse
Dante ha voluto che lo sospettassimo, correva questa diceria ai suoi
tempi, ma la visione che ci lascia è terribile.
Ugolino
non parla più, l'atto bestiale di riprendere a rosicchiare il capo
dell'altro non suscita certo la nostra simpatia, ma ci riporta a
quella congiura, il traditore è stato tradito, la sua morte è stata
straziante, quella dei giovani ancora di più. Questa compassione che
noi proviamo, quasi ci spinge a dare il consenso a quei morsi atroci,
a quell'atto bestiale. Del resto il tutto si svolge in un luogo
soprannaturale, c'è quasi il permesso di Dio: l'arcivescovo è
collocato in eterno proprio davanti al conte, la vittima è stato il
suo carnefice. La crudeltà di Ugolino è eterna, perché eterno è
il suo rancore.
Da ciò lo sdegno
di Dante verso i pisani, verso i reggitori di un Comune, verso un
uomo di Chiesa, per aver imposto un supplizio crudele al conte, e per
averlo esteso alla discendenza. Dante arriva ad augurarsi che Pisa
venga sommersa dall'Arno, chiedendo alle isole Capraia e Gorgona di
bloccare la foce del fiume.
Nella
seconda parte del canto, Dante e Virgilio passano nel Settore Tolomea
dove sono condannati i traditori degli amici e degli ospiti; il vento
freddo alimentato da Lucifero che agita le ali fa sì che il ghiaccio
che li copre solidifichi anche le lacrime dei condannati. Dante
incontra due peccatori, un guelfo fiorentino, frate Alberigo, che
finse di riconciliarsi con due parenti invitandoli a pranzo, ma al
momento della frutta, i suoi servi trucidarono i due ospiti.
Un altro dannato è il genovese Branca d'Oria, che però non
è morto, osserva Dante, e Alberigo gli spiega che nel cerchio dei
traditori, spesso l'anima arriva prima della morte e nel corpo del
peccatore entra un demone. Dante non è cortese con lui, promette di
togliere dagli occhi il duro velo di ghiaccio, per consentirgli di
sfogare per un momento l'intimo dolore, ma poi non glieli libera,
ritenendolo quasi un atto di giustizia. Colpevole anche Genova di
aver avuto simili traditori; ai genovesi Dante augura di essere
dispersi per il mondo.
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