mercoledì 15 giugno 2016

LA DIVINA COMMEDIA: CANTO XXVI - INFERNO (ULISSE)

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TESTO INTEGRALE CANTO XXVI - INFERNO

                  (ULISSE) 

Letto da Giacomo SALVEMINI

 

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza


Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!

Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.

Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai di qua da picciol tempo
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.

E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’più m’attempo.

Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee;

e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.

Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede alla zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.

E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:

tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.

Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.

E ’l duca che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso».

«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:

chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?».

Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Diomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;

e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.

Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deidamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta».

«S’ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,

che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!».

Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto».

Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:

«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.

Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,

acciò che l’uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.

"O frati", dissi "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".

Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».
 
Relazione sul Canto XXVI - INFERNO
di Silvia LADDOMADA

Il protagonista del 26° canto è Ulisse, una figura nota dell'epica classica; personaggio famoso, nato dai racconti degli aedi, esponenti della vita culturale greca, che tramandavano le gloriose imprese di grandi uomini, di eroi, di divinità. Omero, autore dell'Iliade e dell'Odissea, ha raccontato la guerra di Troia, nella quale si è distinto, tra i Greci, proprio Ulisse, intelligente e astuto, autore di ardue imprese, la più nota delle quali è il famoso cavallo di legno, offerto in dono alla dea Atena, protettrice di Troia, dichiarando di rinunciare alla guerra, ormai decennale. Sappiamo che il cavallo fu un inganno, escogitato proprio da Ulisse e dall'amico Diomede, per distruggere la città.
Nell'Odissea, Omero racconta le straordinarie avventure capitate a quest'uomo intelligente, che peregrinò per altri dieci anni, ingannando Polifemo, le sirene, la maga Circe, prima di tornare in Grecia, ad Itaca, dove lo aspettavano il padre Laerte, il figlio Telemaco e la paziente moglie Penelope
Il racconto dantesco si sgancia dalle fonti classiche. Dante non conosceva i poemi omerici, aveva letto “Le roman de Troie”, scritta da un narratore francese , Benoit de Saint Maure, nel 1170 e aveva letto certamente le opere degli scrittori latini, come il poeta Ovidio, che nelle “Metamorfosi”, parlando di eroi antichi, dice che Macareo, un compagno di Ulisse racconta come l'eroe, dopo la sosta presso la maga Circe (a Gaeta), avesse convinto i compagni a riprendere il mare, pur contro il parere della stessa maga, che lo aveva messo al corrente dei pericoli che avrebbe incontrato.
Ma dove va Ulisse? Qui Dante traccia una nuova identità del personaggio.
Intanto è un mentitore: ha mentito ai troiani, ai compagni di viaggio, merita l'Inferno, precisamente la bolgia dei consiglieri fraudolenti.
Qui, egli lo incontra nel suo viaggio ultraterreno: nell'ottavo cerchio, detto Malebolge, l'immenso regno della frode, dell'inganno in tutte le sue forme, nei confronti di chi si fida. Un cerchio diviso in dieci zone: ruffiani e seduttori, lusingatori, simoniaci, indovini e maghi, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordia e scismatici, falsari.
Nelle Malebolge si respira un nuovo clima: non c'è più quel rispetto e quella pietà umana che aveva caratterizzato i colloqui del poeta con molti dei dannati incontrati finora. Qui emerge il disprezzo che Dante prova per peccati avvilenti e degradanti, e per personaggi di bassa lega, molti dei quali fiorentini. Si vergogna Dante della sua Firenze, contro cui lancia un'invettiva, e, ironicamente, le dice : godi Firenze, perché il tuo nome noto in tutto il mondo, risuona anche nell'Inferno, per la quantità di dannati che la rappresentano. Ma Ulisse fa eccezione. Dante non lo disprezza, Dante uomo è magnanimo con lui.
Ulisse è il grande uomo solitario di Malebolge, come disse il critico letterario De Sanctis.
Intanto Virgilio e Dante hanno lasciato la settima bolgia, quella dei ladri, e affacciandosi nell'ottava, Dante vede il fondo rischiarato da tante fiammelle, che lui paragona alle lucciole che brillano al crepuscolo. E' la bolgia dei consiglieri fraudolenti, cioè di coloro che hanno spinto gli altri ad azioni temerarie, ingannandoli con i loro consigli. Sono immersi completamente in una lingua di fuoco.
( contrappasso per analogia: nella vita hanno usato la lingua per dare i loro infiammati consigli)
Dante nota che una lingua ha due punte e chiede spiegazione a Virgilio. Questi gli comunica che in quella fiamma sono avvolte le anime di Ulisse e dell'amico Diomede, entrambi condannati alla stessa pena, perché hanno commesso gli stessi peccati. Sempre insieme, anche nell'aldilà.
E' Virgilio che si rivolge a Ulisse, e gli chiede di raccontare cosa sia accaduto dopo aver lasciato la maga Circe a Gaeta. E qui inizia l'affascinante e grandiosa invenzione dantesca. Ulisse racconta che con il piccolo gruppo dei sopravvissuti intraprese un viaggio verso l'ignoto.
Questa decisione di Ulisse è al centro del colloquio tra Dante e l'eroe greco. L'Ulisse dantesco diventa il simbolo della curiosità e della sete di conoscenza dell'uomo, disposto a misurarsi con i propri limiti, per scoprire il nuovo.
Ulisse racconta di aver rivolto ai pochi compagni rimasti con lui “un'orazion picciola”, un breve discorso, non privo di astuzia. Facendo leva sull'orgoglio di quei fidati compagni che avevano come lui indirizzato la vita al sapere e alla scoperta, conquista il loro appoggio e li sprona a un'avventura che nessun uomo aveva mai tentato: quella di forzare i limiti della conoscenza e spingersi alla scoperta dell'ignoto. Considerate la vostra origine, egli dice, siete stati creati per segnalarvi nel valore, per arricchirvi di cognizioni, e non per vegetare come bestie, come bruti. Non vogliate negare al poco tempo della vita che vi resta, della possibilità di conoscere il mondo disabitato.
E così, da Gaeta, Ulisse volge la prua della piccola nave verso ovest, supera le colonne d'Ercole, guadagna il mare aperto, procede verso sud-ovest, entra nell'emisfero australe e intravvede un'altissima montagna. Un grido di gioia, ma un turbine, improvviso e violento, fa capovolgere e inabissare la nave. Il volo intrapreso è stato folle, dice ora Ulisse. Sembra che egli comprenda il senso della punizione divina per la sua presunzione.
Dopo l'immagine del naufragio, del mare che si chiude sulla nave, della calma e del silenzio spettrale che circonda l'episodio, è chiaro il messaggio che Dante rivolge al lettore.
Siamo nel luogo in cui sono puniti i consiglieri fraudolenti e Ulisse lo è, perché l'orazion picciola è in realtà un'orazione arguta e fraudolenta, ma quasi dimentichiamo che quest'anima è immersa in una fiamma, ci rimane l'immagine di un'enorme solitudine oceanica in cui naviga Ulisse.
Siamo angosciati e timorosi, perché costretti a pensare alla sua temeraria infrazione ai divieti divini.
Questa trasgressione non è accettata da Dante, uomo del medioevo cristiano. Pur se nobile nella sua origine il desiderio di conoscenza può trasformarsi in superbo orgoglio, eccesso di fiducia nelle capacità umane. Per questo l'eroe del folle volo precipita verso la morte.
Emerge , dal racconto, il tema del limite del sapere umano e delle conoscenze, rappresentato dalle colonne d'Ercole. Oggi questo luogo, noto come Stretto di Gibilterra, è attraversato senza problemi, ma nell'antichità quelle colonne rocciose dei due promontori, quello marocchino e quello spagnolo, ai lati dello Stretto, si attribuivano ad Ercole, il quale aveva anche scritto “non plus ultra”, non più oltre, per scoraggiare chi avesse voluto avventurarsi nelle correnti dell'Oceano.
Per Dante e per buona parte della cultura medievale, le colonne d'Ercole separavano l'emisfero noto e popolato da quello ignoto e disabitato. Quest'ultimo era per Dante il territorio del soprannaturale, perciò vi colloca la sede del Purgatorio, la montagna altissima intravista da Ulisse. Il problema è affrontato da un punto di vista religioso: è un errore, anzi un peccato, supporre di poter perseguire virtù e conoscenza, sconfinando con le sole forze umane nel territorio dell'ignoto.
Pensiamo al peccato di superbia di Adamo ed Eva e alla punizione divina: la cacciata dall'Eden, dal paradiso terrestre, uguale al naufragio di Ulisse.
L'errore di Ulisse, quindi, è stato quello di oltrepassare le colonne d'Ercole, è stato quello di voler indagare il mondo dell'essere, fidando solo sulla miseria dell'umana intelligenza. Ecco perché Dante non lo disprezza, da un lato quasi lo ammira, perché anch'egli è animato dalla sete di conoscenza, ma mentre Ulisse è il simbolo dell'umanità curiosa , dotata di particolari strumenti intellettivi, che presume di dare risposte alle proprie ansie, facendo a meno di Dio, Dante si lascia guidare, nel suo viaggio alla ricerca della Verità, dalla ragione ma soprattutto dalla grazia divina.
All'inizio del canto Dante dice di aver capito cose che ancor lo rattristano, e si sforza di frenare il suo ingegno, affinché esso non corra senza la guida della virtù, perché se la Provvidenza gli ha dato una grande intelligenza, egli non diventi superbo e orgoglioso per questo.
Concludo ricordando ciò che Virgilio dice a Dante all'inizio del viaggio in Purgatorio. “State contenti, umana gente al quia; chè se possuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria”. Un monito e un freno alla presunzione intellettuale.

INTERVENTI:
- Carmine PRISCO
"L’isola di Itaca (Ιθάκη) è uno degli 8 comuni in cui è divisa in Grecia la regione delle isole ionie. Il suo capoluogo è la cittadina di Ithaki, chiamata anche Vathi (Βάθη), pittoresco porto in stile veneziano adagiato a forma di anfiteatro in una ampia baia naturale. Il nome di Itaca è noto in tutto il mondo per il suo legame con Ulisse (Odisseo), l’eroe greco cantato da Omero nell’Iliade e nell’Odissea, che nella letteratura mondiale e nell’immaginario collettivo è considerato il simbolo della avventura, della ricerca, del destino dell’uomo fatto per “seguire virtute e canoscenza”, come gli fa dire il nostro Alighieri (Inferno- canto XXVI- 119).
Il poeta greco Kostantino Kavafis ha dedicato a Itaca una sua composizione, scritta nel 1911.

Veduta della baia di Ithaki (Vathi)
Il titolo (Ιθάκη) si riferisce al celeberrimo viaggio di Ulisse, il protagonista dell’Odissea di Omero. Itaca è una struggente poesia sul senso della vita, concepita come viaggio verso una meta che si raggiungerà dopo lunghe peregrinazioni. Il poeta afferma in questa lirica che non bisogna avere fretta di giungere a destinazione, alla propria "Itaca", ma bisogna approfittare del viaggio (e quindi della vita) per esplorare il mondo, crescere intellettualmente e ampliare il proprio patrimonio di conoscenze. E se poi Itaca si rivelerà deludente, valeva comunque la pena raggiungerla, per tutto ciò che si è vissuto per arrivarci."

 ITACA
"Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sara‘ questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
ne’ nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia -
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta;
va in molte citta‘ egizie
impara una quantita‘ di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca -
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
Konstantinos Petrou Kavafis

metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avra‘ deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
gia‘ tu avrai capito cio‘ che Itaca vuole significare
"




- Anna  PRESCIUTTI  

ha letto alcuni versi de "L'ultimo viaggio", tratto dai Poemi conviviali di Giovanni Pascoli
Giovanni Pascoli


 il vero

     Ed il prato fiorito era nel mare,
nel mare liscio come un cielo; e il canto
non risonava delle due Sirene,
ancora, perché il prato era lontano.
E il vecchio Eroe sentì che una sommessa
forza, corrente sotto il mare calmo,
spingea la nave verso le Sirene;

e disse agli altri d’inalzare i remi:
     La nave corre ora da sé, compagni!
Non turbi il rombo del remeggio i canti
delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto
placidi udite, il braccio su lo scalmo.
     E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E il divino Odisseo vide alla punta
dell’isola fiorita le Sirene
stese tra i fiori, con il capo eretto
su gli ozïosi cubiti, guardando
il mare calmo avanti sé, guardando
il roseo sole che sorgea di contro;
guardando immote; e la lor ombra lunga
dietro rigava l’isola dei fiori.
     Dormite? L’alba già passò. Già gli occhi
vi cerca il sole tra le ciglia molli.
Sirene, io sono ancora quel mortale
che v’ascoltò, ma non poté sostare.
     E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E il vecchio vide che le due Sirene,...

....

le ciglia alzate su le due pupille,
avanti sé miravano, nel sole
fisse, od in lui, nella sua nave nera.
E su la calma immobile del mare,
alta e sicura egli inalzò la voce.
     Son io! Son io, che torno per sapere!
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?
     E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E il Vecchio vide un grande mucchio d’ossa
d’uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente
stese sul lido, simili a due scogli.
     Vedo. Sia pure. Questo duro ossame
cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!
     E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
     E s’ergean su la nave alte le fronti,
con gli occhi fissi, delle due Sirene.
     Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io! chi ero!
     E tra i due scogli si spezzò la nave.




L'ULTIMO VIAGGIO DI ULISSE
(in Opere, a cura di G. Contini) 

L'ultimo viaggio è il più ampio e significativo dei Poemi conviviali. Diviso in ventiquattro brevi canti (come l'Odissea era divisa in ventiquattro libri), descrive la delusione dell'Ulisse omerico nel rivisitare i luoghi delle sue avventure.
I versi che presentiamo, tratti dall'ultimo canto (XXIV), rievocano l'ultimo approdo all'isola  di Ogigia e l'incontro di Ulisse con la ninfa Calypso, che secondo la narrazione omerica aveva ospitato per sette anni l'eroe prima del rientro in patria.
La forma metrica è in endecasillabi sciolti.

  E il mare azzurro che l’amò, più oltre
spinse Odisseo, per nove giorni e notti,
e lo sospinse all’isola lontana,
alla spelonca, cui fioriva all’orlo
carica d’uve la pampinea vite.
E fosca intorno le crescea la selva
d’ontani e d’odoriferi cipressi;
e falchi e gufi e garrule cornacchie
v’aveano il nido. E non dei vivi alcuno,
nè dio nè uomo, vi poneva il piede.
Or tra le foglie della selva i falchi
battean le rumorose ale, e dai buchi
soffiavano, dei vecchi alberi, i gufi,
e dai rami le garrule cornacchie
garrian di cosa che avvenia nel mare.
Ed ella che tessea dentro cantando,
presso la vampa d’olezzante cedro,
stupì, frastuono udendo nella selva,
e in cuore disse: Ahimè, ch’udii la voce
delle cornacchie e il rifiatar dei gufi!
E tra le dense foglie aliano i falchi.
Non forse hanno veduto a fior dell’onda
un qualche dio, che come un grande smergo
viene sui gorghi sterili del mare?
O muove già senz’orma come il vento,
sui prati molli di viola e d’appio?
Ma mi sia lungi dall’orecchio il detto!
In odio hanno gli dei la solitaria
Nasconditrice. E ben lo so, da quando
l’uomo che amavo, rimandai sul mare
al suo dolore. O che vedete, o gufi
dagli occhi tondi, e garrule cornacchie?
     Ed ecco usciva con la spola in mano,
d’oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori
del mare, al piè della spelonca, un uomo,
sommosso ancor dall’ultima onda: e il bianco
capo accennava di saper quell’antro,
tremando un poco; e sopra l’uomo un tralcio
pendea con lunghi grappoli dell’uve.
     Era Odisseo: lo riportava il mare
alla sua dea: lo riportava morto
alla Nasconditrice solitaria,
all’isola deserta che frondeggia
nell’ombelico dell’eterno mare.
Nudo tornava chi rigò di pianto
le vesti eterne che la dea gli dava;
bianco e tremante nella morte ancora,
chi l’immortale gioventù non volle.
     Ed ella avvolse l’uomo nella nube
dei suoi capelli; ed ululò sul flutto
sterile, dove non l’udia nessuno:
— Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più! —













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