Giuseppe Fasano ha mantenuto la promessa. Ha eseguito il ritratto
in ceramica di Dino Abbascià, il signore della frutta che ci ha
fatto conoscere deliziosi sapori stranieri; l’uomo acuto e
vulcanico che reggeva con saggezza, competenza ed entusiasmo
presidenze e vicepresidenze di enti regionali e nazionali… Quel
ritratto, che coglie Abbascià in uno dei pochi momenti in cui il suo
luminoso sorriso latitava, lo ha consegnato, suscitando commozione,
pochi mesi dopo la morte del corregionale venuto a 13 anni a Milano
da Bisceglie per diventare qualcuno.
“Una sera a cena con me, sua moglie Teresa, Francesco Lenoci e
altri si fece pensieroso leggendo l’etichetta di una bottiglia di
vino – Don Carmelo, Rosato del Salento – donatagli da Al Bano e
dallo stesso cantante enologo personalizzata da una dedica Riserva
Dino Abbascià. Era così concentrato su quell’immagine, che non
appagò la mia curiosità su un’antica fabbrica di fiammiferi del
suo paese”.
Quell’espressione gli è tornata alla mente mentre si accingeva a
plasmare l’argilla per immortalarvi l’amico. La ceramica è
universale, millenaria, è nata quasi con l’uomo, vanta scoperte e
innovazioni; richiede abilità di gesti, fantasia fertile, oltre che
capacità tecniche, intelligenza plastica.
Al primo strillo, nudo e con la testa in giù (da allora sono passati
56 anni), Giuseppe Fasano già avvertì il profumo della creta. Il
padre Nicola la trasfigurava in capolavori (come avevano fatto i suoi
antenati), lavorando in uno degli antri di Grottaglie che hanno dato
il nome alla città. Lui non poteva deviare, avendo ereditato la
linfa dell’ispirazione, l’amore per questa materia miracolosa.
Chi non conosce in Italia e all’estero il nome dei Fasano? La loro
biografia; la qualità degli oggetti sagomati; il prestigio, la forza
di volontà, la genialità delle idee di Nicola, che pilotò
l’azienda dal 1948, estendendo il mercato, nidificando negozi,
incoraggiando i figli.
Giuseppe voleva bene a Dino. Come gliene volevano tanti. Al Bano
lo ospitò nella sua masseria di Cellino San Marco, rispondeva ai
suoi appelli e gli mandava messaggi ad ogni ricorrenza. Amico sincero
di Dino era anche il professor Francesco Lenoci, che, citandolo, lo
definisce “il mio presidente preferito”.
Adesso Dino, che io, celiando ma non troppo, indicavo come sosia
dell’attore Serge Reggiani, campeggia in quel ritratto e nel
ricordo di tanti. “Sto per mettere mano alla scultura: avevo
promesso anche quella. Ma non dev’essere statica; deve ricordare un
suo gesto tipico”, parole di Giuseppe. Che ha frequentato Abbascià
e le iniziative che sosteneva anche dopo la chiusura dei propri
negozi a Milano: quello di corso Italia 64, zona Duomo, e
successivamente quello di via Nino Bixio, a Porta Venezia. Li ha
tenuti per 25 anni, dal ’75, onorando la sua Grottaglie, dove da
secoli i figuli si tramandano il mestiere da padre in figlio,
arricchendo sempre di più le proprie esperienze.
Per incontrare Dino, Giuseppe si metteva apposta al volante
dell’auto.
E nelle loro conversazioni riemergevano spesso figure di
pugliesi idealmente iscritti nell’albo d’oro di Milano. Per
esempio, il grande gallerista martinese Guido Lenoci, che nel suo
spazio di via Brera accolse le mostre delle firme più
rappresentative dell’arte contemporanea; il giornalista troiano
Antonio Velluto, uno dei pilastri della tivù di corso Sempione;
l’avvocato Enrico Sbisà, di Bitonto; il cerignolese Peppino
Strippoli, che tra l’altro costituì il “Cenacolo Pugliese” con
Gustavo Montanari; Guglielmo Miani, di Andria, che nel capoluogo
lombardo iniziò manipolando ago e filo da sarto di talento,
inaugurando poi negozi di lusso (uno, Larus, in via Manzoni); Nino
Palumbo, di Trani, autore di “Pane verde” e di altri volumi di
successo; Giacomo Lezoche, commercialista tranese; Filippo Alto,
pittore celebrato da critici consacrati; Mario Azzella, di Trani,
giornalista Rai; e le iniziative, come la rivista “Terra di
Puglia”, sorta nel 1930 avendo come direttore Alfredo Violante, di
Rutigliano, e segretario di direzione Arnaldo De Palma, di San
Severo; e l’altra, “Ipotesi”, che nel numero dell’aprile-maggio
’76 presentava un breve scritto in cui Carlo Bo manifestava la sua
“sincera ammirazione per Nino Palumbo”….
Fu Chechele, Michele Jacubino, titolare del ristorante “La Porta
rossa” di via Vittor Pisani, a parlarmi per primo di Giuseppe
Fasano, proclamandolo “principe della ceramica”. Comperava da lui
‘capase’, boccali e altri oggetti da schierare sulle mensole del
locale; o in un angolo illuminato della sala sottostante in cui
troneggiava un “capasone” con le anse alzate come le braccia di
Mussolini negli atteggiamenti oratori. “Ti porterò a visitare la
sua bottega e vedrai che ti piacerà”, mi promise una mattina del
’76, successiva ad una festa pugliese al Cida (Centro informazioni
d’arte), retta dall’architetto d’interni Lambros Dose,
proprietario del Museo delle Cere che stava nel mezzanino della
stazione Centrale.
Poi cambiò discorso: “Io vorrei dire grazie a Milano, per ciò che
mi ha consentito di realizzare. Vorrei fare qualcosa…non so…un
libro…magari con tutte le fotografie delle personalità che ho
ricevuto”. Parlava e vagava con lo sguardo dalla parete affollata
di “quadretti” di attori del teatro e del cinema, cantanti,
scrittori al forno dove cuoceva il pane. Accettò invece la mia idea
di istituire un premio di giornalismo. E, sollecito com’era, dopo
un paio di mesi si riunì per la prima volta la giuria, nutrita di
vip della carta stampata, dell’editoria, della tavolozza, da Ugo
Ronfani, vicedirettore de “Il Giorno”, a Baldassarre Molossi, de
“La Gazzetta di Parma. ” , a Raffaele De Grada, critico e storico
dell’arte. La prima edizione venne assegnata al barese Giovanni
Valentini, che a 29 anni dirigeva con saggezza “L’Europeo”.
Chechele era di Apricena, che si vuole costruita per decisione di
Federico II, che in una cena – si racconta – proprio in quella
città da lui prediletta si fece portare in tavola un cinghiale da
lui stesso ucciso. Il papà de “La Porta Rossa” aveva studiato
alla scuola della vita e sapeva come trattare le persone. Misurava le
parole quando s’intratteneva con i clienti che gli erano diventati
amici; li aspettava sulla soglia abbracciandoli, ed era spesso sulle
pagine dei giornali ad esaltare la sua Puglia.
Era schietto, leale,
accorto, rispettoso, sempre pronto a mettere progetti in cantiere.
Mario Dilio, gustando le orecchiette preparate da Nennella, la moglie
di Chechele, con il noto e apprezzato pittore suo concittadino
Filippo Alto, sentenziò che il ristoratore di via Vittor Pisani
meritava di essere nominato ambasciatore della Puglia a Milano.
Qualcuno ascoltò, la voce si sparse e il titolo venne informalmente
assegnato. Del resto Mario Dilio non era uno qualunque: scriveva di
economia e di movimenti migratori, di storia anche in libri (“Puglia
antifascista”…). Era rientrato a Bari dopo aver lasciato il posto
di capo ufficio stampa di un’azienda automobilistica e lì
continuava a pubblicare, riprendendo i contatti con l’amico
Vittore Fiore, giornalista, scrittore e poeta (si aggiudicò un
Premio Fraccacreta a San Severo; lavorò all’ufficio stampa della
Fiera del Levante), figlio di Tommaso, l’autore di “Un popolo di
formiche”, Premio Viareggio nel ’52, e di altre opere, tra cui
“Il cafone all’inferno”, del ’55.
A Dilio Chechele riferì il proposito di creare anche un altro
Premio per i pugliesi meritevoli di Milano. Aveva già pensato a
Daniele Piombi come presentatore della cerimonia di consegna; e ad
alcuni candidati da sottoporre al giudizio della giuria. Uno di
questi, Giuseppe Fasano, “che esporta le sue ceramiche in tutto il
mondo ed è presente in fiere e mostre dappertutto, a Berlino, New
York, Germania, Milano” (e, se fosse ancora tra noi, il dinamico e
sensibile apricenese avrebbe accennato anche all’Expo 2015, dove
Giuseppe ha presentato i suoi preziosi manufatti)..
Il 6 agosto dell’anno scorso il professor Francesco Lenoci,
nell’ambito delle sue numerose e dotte conferenze su “Creazioni
di valore”, ha parlato in pubblico a Grottaglie sulle vicende dei
Fasano e della ceramica (qualcuno ha ipotizzato che proprio con
quella “pasta” Dio ha fatto l’uomo), tra l’altro
soffermandosi sulla figura di Nicola, del quale, davanti a lui,
troneggiava il busto. Che probabilmente sarà presto affiancato da
quello di Dino Abbascià.
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