mercoledì 25 novembre 2015

Corso innovativo di informatica con il Software Libero L.R. 20/12

Print Friendly and PDF

Avviata l'attività dell'Università Minerva



L'Associazione Minerva di Crispiano ha compiuto un anno e cerca spazi innovativi nel campo del volontariato.
Opera nei settori dei servizi, della formazione e del tempo libero. In particolare propone iniziative varie dell'Università del Tempo libero e del Sapere (ogni proposta sarà un'occasione per ospitare studenti, adulti, anziani del territorio, in uno spazio pensato per parlare, per confrontarsi, per sciogliere dubbi, per informarsi) e una attività formativa informatica alternativa a quella che conosciamo e usiamo ogni giorno.
Si pensi all'aspetto strategico-economico dei software per far funzionare dispositivi, come telefonini, elettrodomestici, giochi, automobili, apparecchiature di diagnosi medica, telecomunicazioni, macchine fotografiche, videocamere, navigazione, macchine industriali, ecc. L'alternativa è il software libero, promosso anche dalla Regione Puglia con Legge n. 20 del 24 luglio 2012, che consente assoluta libertà di utilizzo e costanti aggiornamenti a costo zero.
Il software libero sono tutti i programmi rilasciati con una particolare licenza che garantisce le quattro libertà fondamentali enunciate nel 1985 da Richard Stallman (la libertà di eseguirlo per qualsiasi scopo ed installarlo su qualsiasi tipo e numero di PC; la libertà di studiarne il funzionamento e di modificarlo secondo le proprie esigenze; la libertà di ridistribuirne copie a chiunque con qualsiasi mezzo; la libertà di distribuire a chiunque le modifiche apportate).
Il sistema operativo libero Linux può essere installato insieme a quello Windows.
Da quest'anno, nella sede dell'Associazione, in via degli Aranci, viene proposto un corso specifico, con l'uso del software libero, tenuto da docente esperto, diretto ai ragazzi e operatori di aziende pubbliche e private. (info@associazioneminerva.org – tel. 3486711036).

Crispiano, 25 novembre 2015

                                                                                                    Michele Annese

mercoledì 4 novembre 2015

IL “PRINCIPE DELLA CERAMICA” A MILANO – RICORDI E PERSONAGGI DI FRANCO PRESICCI

Print Friendly and PDF



Giuseppe Fasano ha mantenuto la promessa. Ha eseguito il ritratto in ceramica di Dino Abbascià, il signore della frutta che ci ha fatto conoscere deliziosi sapori stranieri; l’uomo acuto e vulcanico che reggeva con saggezza, competenza ed entusiasmo presidenze e vicepresidenze di enti regionali e nazionali… Quel ritratto, che coglie Abbascià in uno dei pochi momenti in cui il suo luminoso sorriso latitava, lo ha consegnato, suscitando commozione, pochi mesi dopo la morte del corregionale venuto a 13 anni a Milano da Bisceglie per diventare qualcuno.
“Una sera a cena con me, sua moglie Teresa, Francesco Lenoci e altri si fece pensieroso leggendo l’etichetta di una bottiglia di vino – Don Carmelo, Rosato del Salento – donatagli da Al Bano e dallo stesso cantante enologo personalizzata da una dedica Riserva Dino Abbascià. Era così concentrato su quell’immagine, che non appagò la mia curiosità su un’antica fabbrica di fiammiferi del suo paese”.
Quell’espressione gli è tornata alla mente mentre si accingeva a plasmare l’argilla per immortalarvi l’amico. La ceramica è universale, millenaria, è nata quasi con l’uomo, vanta scoperte e innovazioni; richiede abilità di gesti, fantasia fertile, oltre che capacità tecniche, intelligenza plastica.
Al primo strillo, nudo e con la testa in giù (da allora sono passati 56 anni), Giuseppe Fasano già avvertì il profumo della creta. Il padre Nicola la trasfigurava in capolavori (come avevano fatto i suoi antenati), lavorando in uno degli antri di Grottaglie che hanno dato il nome alla città. Lui non poteva deviare, avendo ereditato la linfa dell’ispirazione, l’amore per questa materia miracolosa. Chi non conosce in Italia e all’estero il nome dei Fasano? La loro biografia; la qualità degli oggetti sagomati; il prestigio, la forza di volontà, la genialità delle idee di Nicola, che pilotò l’azienda dal 1948, estendendo il mercato, nidificando negozi, incoraggiando i figli.
Giuseppe voleva bene a Dino. Come gliene volevano tanti. Al Bano lo ospitò nella sua masseria di Cellino San Marco, rispondeva ai suoi appelli e gli mandava messaggi ad ogni ricorrenza. Amico sincero di Dino era anche il professor Francesco Lenoci, che, citandolo, lo definisce “il mio presidente preferito”.
Adesso Dino, che io, celiando ma non troppo, indicavo come sosia dell’attore Serge Reggiani, campeggia in quel ritratto e nel ricordo di tanti. “Sto per mettere mano alla scultura: avevo promesso anche quella. Ma non dev’essere statica; deve ricordare un suo gesto tipico”, parole di Giuseppe. Che ha frequentato Abbascià e le iniziative che sosteneva anche dopo la chiusura dei propri negozi a Milano: quello di corso Italia 64, zona Duomo, e successivamente quello di via Nino Bixio, a Porta Venezia. Li ha tenuti per 25 anni, dal ’75, onorando la sua Grottaglie, dove da secoli i figuli si tramandano il mestiere da padre in figlio, arricchendo sempre di più le proprie esperienze.
Per incontrare Dino, Giuseppe si metteva apposta al volante dell’auto.

E nelle loro conversazioni riemergevano spesso figure di pugliesi idealmente iscritti nell’albo d’oro di Milano. Per esempio, il grande gallerista martinese Guido Lenoci, che nel suo spazio di via Brera accolse le mostre delle firme più rappresentative dell’arte contemporanea; il giornalista troiano Antonio Velluto, uno dei pilastri della tivù di corso Sempione; l’avvocato Enrico Sbisà, di Bitonto; il cerignolese Peppino Strippoli, che tra l’altro costituì il “Cenacolo Pugliese” con Gustavo Montanari; Guglielmo Miani, di Andria, che nel capoluogo lombardo iniziò manipolando ago e filo da sarto di talento, inaugurando poi negozi di lusso (uno, Larus, in via Manzoni); Nino Palumbo, di Trani, autore di “Pane verde” e di altri volumi di successo; Giacomo Lezoche, commercialista tranese; Filippo Alto, pittore celebrato da critici consacrati; Mario Azzella, di Trani, giornalista Rai; e le iniziative, come la rivista “Terra di Puglia”, sorta nel 1930 avendo come direttore Alfredo Violante, di Rutigliano, e segretario di direzione Arnaldo De Palma, di San Severo; e l’altra, “Ipotesi”, che nel numero dell’aprile-maggio ’76 presentava un breve scritto in cui Carlo Bo manifestava la sua “sincera ammirazione per Nino Palumbo”….
Fu Chechele, Michele Jacubino, titolare del ristorante “La Porta rossa” di via Vittor Pisani, a parlarmi per primo di Giuseppe Fasano, proclamandolo “principe della ceramica”. Comperava da lui ‘capase’, boccali e altri oggetti da schierare sulle mensole del locale; o in un angolo illuminato della sala sottostante in cui troneggiava un “capasone” con le anse alzate come le braccia di Mussolini negli atteggiamenti oratori. “Ti porterò a visitare la sua bottega e vedrai che ti piacerà”, mi promise una mattina del ’76, successiva ad una festa pugliese al Cida (Centro informazioni d’arte), retta dall’architetto d’interni Lambros Dose, proprietario del Museo delle Cere che stava nel mezzanino della stazione Centrale.
Poi cambiò discorso: “Io vorrei dire grazie a Milano, per ciò che mi ha consentito di realizzare. Vorrei fare qualcosa…non so…un libro…magari con tutte le fotografie delle personalità che ho ricevuto”. Parlava e vagava con lo sguardo dalla parete affollata di “quadretti” di attori del teatro e del cinema, cantanti, scrittori al forno dove cuoceva il pane. Accettò invece la mia idea di istituire un premio di giornalismo. E, sollecito com’era, dopo un paio di mesi si riunì per la prima volta la giuria, nutrita di vip della carta stampata, dell’editoria, della tavolozza, da Ugo Ronfani, vicedirettore de “Il Giorno”, a Baldassarre Molossi, de “La Gazzetta di Parma. ” , a Raffaele De Grada, critico e storico dell’arte. La prima edizione venne assegnata al barese Giovanni Valentini, che a 29 anni dirigeva con saggezza “L’Europeo”.
Chechele era di Apricena, che si vuole costruita per decisione di Federico II, che in una cena – si racconta – proprio in quella città da lui prediletta si fece portare in tavola un cinghiale da lui stesso ucciso. Il papà de “La Porta Rossa” aveva studiato alla scuola della vita e sapeva come trattare le persone. Misurava le parole quando s’intratteneva con i clienti che gli erano diventati amici; li aspettava sulla soglia abbracciandoli, ed era spesso sulle pagine dei giornali ad esaltare la sua Puglia.

Era schietto, leale, accorto, rispettoso, sempre pronto a mettere progetti in cantiere. Mario Dilio, gustando le orecchiette preparate da Nennella, la moglie di Chechele, con il noto e apprezzato pittore suo concittadino Filippo Alto, sentenziò che il ristoratore di via Vittor Pisani meritava di essere nominato ambasciatore della Puglia a Milano. Qualcuno ascoltò, la voce si sparse e il titolo venne informalmente assegnato. Del resto Mario Dilio non era uno qualunque: scriveva di economia e di movimenti migratori, di storia anche in libri (“Puglia antifascista”…). Era rientrato a Bari dopo aver lasciato il posto di capo ufficio stampa di un’azienda automobilistica e lì continuava a pubblicare, riprendendo i contatti con l’amico Vittore Fiore, giornalista, scrittore e poeta (si aggiudicò un Premio Fraccacreta a San Severo; lavorò all’ufficio stampa della Fiera del Levante), figlio di Tommaso, l’autore di “Un popolo di formiche”, Premio Viareggio nel ’52, e di altre opere, tra cui “Il cafone all’inferno”, del ’55.
A Dilio Chechele riferì il proposito di creare anche un altro Premio per i pugliesi meritevoli di Milano. Aveva già pensato a Daniele Piombi come presentatore della cerimonia di consegna; e ad alcuni candidati da sottoporre al giudizio della giuria. Uno di questi, Giuseppe Fasano, “che esporta le sue ceramiche in tutto il mondo ed è presente in fiere e mostre dappertutto, a Berlino, New York, Germania, Milano” (e, se fosse ancora tra noi, il dinamico e sensibile apricenese avrebbe accennato anche all’Expo 2015, dove Giuseppe ha presentato i suoi preziosi manufatti)..
Il 6 agosto dell’anno scorso il professor Francesco Lenoci, nell’ambito delle sue numerose e dotte conferenze su “Creazioni di valore”, ha parlato in pubblico a Grottaglie sulle vicende dei Fasano e della ceramica (qualcuno ha ipotizzato che proprio con quella “pasta” Dio ha fatto l’uomo), tra l’altro soffermandosi sulla figura di Nicola, del quale, davanti a lui, troneggiava il busto. Che probabilmente sarà presto affiancato da quello di Dino Abbascià.

lunedì 2 novembre 2015

VIAGGIO IN TRENO... DI ALTRI TEMPI di Franco Presicci

Print Friendly and PDF
Il jazz ha viaggiato in treno. Un treno speciale, straordinario, festoso. Percorso: da Bari a Martina Franca e ritorno. Partenza alle 16.25; arrivo alle 18.35. Settembre, giorno 19. Un convoglio affollatissimo non solo di turisti, ma anche di gente desiderosa di godersi la novità, di affrontare una piccola avventura, di vivere appieno l’originale esperienza, di stare in compagnia in modo diverso, ammirando la bellezza paesaggistica, architettonica dei paesi attraversati, godendo i colori, il clima, il calore. In quelle ore milanesi, bolognesi, pugliesi, compresi alcuni stranieri, hanno familiarizzato, si sono scambiati gli indirizzi, qualcuno ha addirittura gettato le basi per un‘amicizia; si sono dati appuntamento, degustando prodotti tipici di questa terra ricca di ospitalità e cortesia. Negli intervalli tra un brano musicale e l’altro suonato da più orchestre rimbalzavano, s’intrecciavano curiosità sulle prelibatezze assaggiate, sulle caratteristiche dei luoghi, sulla storia del locomotore (diesel, del 1959) che trainava tre carrozze Carminati anni ’30-’40, con i sedili di legno, una a terrazza del 1903, un bagagliaio del 1940. Reperti storici, insomma. “Le vetture sembrano quelle del Far West”, ha insinuato un patito di Bud Spencer e Terence Hill, ma la battuta è naufragata nelle note di “Summertime”, accolta da applausi fragorosi. Poi, mentre la motrice rallentava e si apprestava all’ultimo sbuffo, un signore con i baffi all’Einstein ha ricordato il Treno Blu della Bèlle Epoque; e tale era almeno l’atmosfera briosa esplosa sul marciapiede e dai finestrini. Un novantenne dal passo traballante, ma dallo sguardo espressivo, vivace, rivolgendosi a un accompagnatore, ha accennato ai tempi della guerra, risvegliati dall’arredo delle vetture, comunque restaurate a dovere e ben tenute.
Il fascino del treno ci accompagna dall’infanzia. Va bene l’aereo; altrettanto bene il pullman, l’auto, ma vuoi mettere il piacere di andare su rotaie da un luogo ad un altro, con ulivi solenni, vigneti in preghiera, casupole sbrecciate, tetti, muri a secco… che corrono come frecce? Una “madame” dall’aria sognante confessava che tutta la luce bevuta durante il viaggio aveva dato ristoro alla sua anima; che il verde della Puglia, intenso, non lo aveva mai visto da nessun’altra parte. E sollecitava informazioni sul “Valle d’Itria Express”. Tempo al tempo. Gli organizzatori (l’Aisaf di Bari con la collaborazione dell’Associazione culturale musicale “Nel gioco del jazz” e la Scuola musicale Il Pentagramma di Bari) ce la mettevano tutta per spiegare, illustrare, raccontare, soprattutto ai ragazzi, i più incalzanti, insaziabili, alla vista delle immagini esaltanti, scenografiche che la nostra regione può offrire; a cominciare dai trulli con i tetti come i berretti dei maghi delle fiabe, sormontati da pompon o palle da biliardo “Il treno chiamato jazz” sibilava quasi in segno di allegria e i bambini tripudiavano. Dario De Simone, dell’Aisaf di Bari, psicopompo dell’iniziativa, era frastornato, sballottato tra il cronista ansioso di sapere mille particolari e l’operatore di Telenorba che lo riprendeva di faccia, di profilo, nascosto dal contrabbasso che il suonatore faceva fatica a salvare dalla ressa.
Scene già viste un mese prima, quando sullo stesso binario il “Salento Express” aveva fatto la sua prima corsa. La macchina era dei primi anni ’50: pezzo da museo, sì, ma ancora nel pieno della sua potenza. I vagoni risalivano forse al tempo della guerra: quasi gli stessi di quelli che ci portavano da Taranto a Martina, dove la notte ci svegliavano terribili boati: le bombe che facevano lampeggiare l’orizzonte e crollare i palazzi. Allora il treno non oltrepassava la stazione di Nasisi, perché quella di Taranto era a rischio. Da lì alle Tre Carrare, dove abitavo (saranno venti chilometri? Di più?) bisognava andare a piedi. Camminata stancante, che dovevamo fare dopo ogni bombardamento per accertarci che la nostra via non fosse sommersa dalle macerie. Quando il conflitto si concluse e si raccoglievano i cocci, alla stazione della Bimare andavamo con la carrozza. Il vetturino, sempre lo stesso, in cassetta con il cappello a cilindro, si presentava alle sei del mattino, quando le strade erano deserte, le finestre chiuse e i negozi pure, a parte quello del fornaio. Il treno per Martina partiva alle 7.30. Le tappe: Nasisi, Statte, Crispiano, Madonna del Pozzo, San Paolo. Mi inebriava il fischio “d’a Ciucculatera” che a volte aveva un respiro affannoso.
Passarono gli anni, e non so più quante volte, arrivando a Bari da Milano, raggiungevo Martina con la Sud-Est. E riscoprivo dettagli dimenticati, provando emozioni che mi inumidivano lo sguardo. Un giorno, non so più se a Casamassina o a Conversano, l’altoparlante annunciò che i contadini, per una protesta, avevano occupato le rotaie, per cui non era possibile proseguire. Non mi scomposi: scesi, mi sedetti su una panchina rinunciando ad accendere il solito toscanello per meglio osservare i viaggiatori: contrariati o adirati o impennati. Io avevo tempo, ero libero da impegni: ero già in Puglia, nella mia Puglia, che per Giuseppe Carrieri è la patria di Andersen, “un Andersen mediterraneo, con più balenanti misteri”…E gioivo, respiravo aria familiare, ritrovavo vecchie fragranze. .. Ero diretto a Martina, e ricordavo:… “la Murgia dei Trulli raggiunge qui la sua vetrina domenicale, la sua stravaganza espressiva”.
“E’ un indecenza”, urlò un tale con una voce da gallinaceo. “Uno schifo”, gli si associò un altro. “La polizia che fa; sta a guardare?”, tuonò un terzo. Poi un coro assordante. Io, serafico, quando potetti, azzardai: “Ognuno si difende come può. Subiscono un’ingiustizia e reagiscono”. Uscii indenne dall’intervento. Nessuno ebbe la tentazione di ridurmi in poltiglia. Era quasi mezzogiorno; l’interruzione doveva concludersi alle 16. Guardavo il locomotore e invidiavo i macchinisti che dalla cabina di guida si godono il treno che filando divorano la strada ferrata. E pensavo alla piattaforma girevole della stazione di Martina, sepolta sotto uno strato di terra. Mi dicono che prossimamente verrà riscoperta, restaurata e sistemata come base di una “Ciucculatera”: un monumento al treno, che alimenta i sogni, le chiacchierate, le confidenze, gli sfoghi, gli incontri.
Il mio amico Gerardo voleva andare a vedere il luogo della sepoltura della piattaforma. Ma non c’era tempo. Le sbarre del passaggio a livello erano state abbassate. Il “Treno chiamato jazz”, o meglio “Salento Express”, aveva già lasciato lo scalo di Locorotondo. Erano quasi le 19. “Attenzione al terzo binario”, ha avvertito una voce. Subito dopo la baraonda. Mille macchine fotografiche scattavano foto. Duecentottanta viaggiatori salutavano con in fazzoletti in mano, il marciapiede formicolava di gente che sbucata improvvisamente assediava il convoglio: un’accoglienza calorosa che bloccava i gitanti sulla piattaforma, sugli scalini. Il trombettista vinceva la tentazione di intonare il silenzio, per agevolare uno dello “staff” che informava, sgolandosi: “Chi vuole può andare a visitare il centro storico, ma deve tornare puntuale”, mentre una siepe umana s’ingrossava attorno a un complesso che, non ancora defatigato, riprendeva il concerto sul piazzale. Un 19 settembre da inserire negli annali, ha commentato il papà di Gerardo, Nicola, uomo di poche parole, ma sempre ben dosate, che con il suocero Vito e la moglie Antonella aveva atteso lungo l’ora dell’evento. “A parte lo spettacolo davvero grandioso, avete notato la pianta di capperi spuntata proprio sul terzo binario?”.