Silvia Laddomada |
5° INCONTRO
Relazione
di Silvia Laddomada
Appena entrati nel Purgatorio Dante e Virgilio sentono un coro di voci che intonano il Te Deum.
In ogni cornice le anime espiano il loro peccato sia con la sofferenza fisica, sia con la preghiera e il canto.
I due pellegrini si incamminano per uno stretto sentiero, scavato nella roccia ed escono su un ripiano circolare e solitario.
Le pareti sono di marmo e portano scolpiti esempi di umiltà premiata, mentre sul pavimento sono scolpiti esempi di superbia punita.
Esempi tratti da episodi della Sacra Scrittura e della mitologia pagana.
Siamo nella prima cornice del Purgatorio.
In questa cornice i due poeti vedono avanzare, lentamente, un gruppo di anime costrette a procedere curve, sotto pesanti macigni, col viso rivolto a terra.
Sono le anime dei superbi.
Essi in vita camminarono a testa troppo alta, ora sono costretti a piegarla fino a terra, oppressi e affaticati dal macigno che portano addosso, simili alle cariatidi, dice Dante, che sostengono i tetti e i solai.
Per Dante la superbia é la causa prima di ogni peccato, come dicevano i padri della Chiesa. Guardando alle discordie all'interno di Firenze, aveva detto, attraverso il personaggio Ciacco, nell'Inferno (6° canto) che una delle cause di questa discordia fosse proprio la superbia insieme all'invidia e all'avarizia (superbia, invidia, avarizia, sono le tre ferille che hanno i cuori accesi).
Per superbia e orgoglio anche Dante ha pagato, con l'esilio. Anche lui si sente colpevole.
L'incontro con i superbi offre a Dante l'opportunità di riflettere sulla vanità della fama, del successo, della gloria terrena.
E' lui il destinatario delle riflessioni, e sopratutto degli ammonimenti che riceverà in questo luogo.
CANTO XI
Le anime avanzano recitando il Padre nostro, la preghiera fondamentale per i credenti. Preghiera che si conclude con una invocazione: esse chiedono a Dio di allontanare dalle tentazioni del maligno i vivi, "coloro che dietro a noi restano".
Per cui, dice Dante, se le anime pregano per i vivi, anche i vivi non devono far mancare le loro preghiere in suffragio dei morti.
Virgilio chiede consiglio sul percorso più agevole per proseguire. Un'anima gli indica un sentiero, e non potendo alzare la testa per guardarli, presenta se stesso. Si tratta di Omberto Aldobrandeschi, un superbo feudatario, capo di una potente famiglia di ghibellini di Grosseto, acerrimo nemico dei senesi.
Egli racconta che la nobiltà di sangue, le gesta gloriose degli antenati lo avevano reso arrogante
"L’antico sangue e l’opere leggiadre
d’i miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre,
ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante,
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante." (canto XI vv.61-66).
Disprezzava tutti, a tal punto che ne morì. La sua superbia era nota ai senesi, perfino i bambini lo sapevano.
Per ascoltarlo, Dante china il capo, si piega fino al suo viso, mostrando così di condividere moralmente l'espiazione del peccato della superbia, di cui egli stesso si confesserà colpevole, nel colloquio con le anime della cornice successiva.
I Superbi
Poichè
si é chinato, un'altra anima, sia pure con fatica, lo guarda fisso
"e videmi e conobbemi e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che tutto chin con loro andava," (vv.76-78).
Mi guardò e mi riconobbe, tenendo fissi gli occhi su di me che cammino, tutto chino con loro
"«Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?».
«Frate», diss’elli, «più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
de l’eccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de l’umane posse!
com’poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l’etati grosse!
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura:
così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido." (vv.79-99).
Ma tu non sei Oderisi, l'onore di Gubbio, e l'onore di quell'arte della miniatura che a Parigi si chiama dell'illuminare? La pagina si illumina col minio.
(Oderisi era famoso per la sua tecnica della miniatura, utilizzata per decorare con un pigmento rosso-arancione, minio, le grandi lettere iniziali nei codici manoscritti).
Fratello, mi rispose, ora sono più belle le carte miniate da Franco Bolognese. La gloria ora é tutta sua, e mia solo in parte. (Franco Bolognese usava caratteri gotici, mentre Oderisi aveva una tecnica più arcaica, legata alla linearità della pittura bizantina).
Certamente non sarei stato così cortese verso di lui quando ero in vita, per il grande desiderio che ho avuto di primeggiare.
Di quell'orgoglio per i propri meriti ora sconto la pena, e se mi trovo qui é perché mi sono pentito in tempo.
L'incontro si pone ora su un piano autobiografico.
Dante e Oderisi si conoscevano, ma Oderisi guarda ora con distacco la vita terrena. Egli lancia un monito sulla caducità della gloria terrena, monito che ha come destinatario prima di tutti, proprio Dante.
Quanto é vana la gloria delle capacità dell'uomo. La fama degli artisti resta verde, é più duratura, se é seguita da un'epoca di decadenza, in cui non si producono opere di valore.
Nella pittura, Cimabue credette di essere il migliore, invece ora si parla di Giotto, per cui la fama di Cimabue si é oscurata.
Nella poesia Guido Cavalcanti ha tolto a Guido Guinizelli la gloria di poeta in lingua volgare, e forse é già nato colui che caccerà entrambi dal nido, cioè dal seggio d'onore.
E' chiaro il riferimento a Dante, che quindi superbamente si sentiva capace di oscurare con la sua poesia la fama dei due poeti stilnovisti precedenti. Ma l'ammonimento di Oderisi continua
"Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ‘l ‘dindi’,
pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto." (vv.100-108)
La gloria mondana non é altro che un soffio di vento, che vaga e cambia nome ogni volta che cambia la direzione. Che fama maggiore avrai tu, se muori vecchio, di quella che avresti avuto morendo più giovane, fra mille anni? I quali, di fronte alla durata dell'eternità sono più brevi di un battito di ciglia.
Così, continuando faticosamente a camminare, Oderisi indica un'altra anima, Provenzan Salvani, potente e arrogante signore conosciuto in tutta la Toscana.
Ora se ne parla a malapena a Siena, dove esercitò un potere assoluto.
Non si é pentito di questa sua superbia, ma ha compiuto un gesto pietoso, umiliante, che lo ha salvato. Oderisi racconta che di fronte alla sciagura di un amico, caduto prigioniero di Carlo d'Angiò, Provenzan Salvani si impegnò a raccogliere la somma di 10 mila fiorini d'oro, per riscattare l'amico.
Non possedendo questa somma, si sedette a terra, su un tappeto, nella piazza del Campo a Siena, e "si condusse a tremar per ogni vena", si umiliò, si ridusse a elemosinare a vantaggio dell'amico.
Uno dei grandi versi della poesia dantesca, capace di racchiudere un'intensa situazione emotiva.
E Oderisi conclude
"e lì, per trar l’amico suo di pena
ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena.
Più non dirò, e scuro so che parlo;
ma poco tempo andrà, che ‘ tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo." (vv.136-141).
Non ti dirò altro e so che le mie parole sono oscure, ma trascorrerà poco tempo, e i tuoi concittadini faranno sì che tu potrai capire.
Oderisi gli preannuncia un futuro triste, allude infatti alle umiliazioni e alla sofferenza del poeta nel periodo dell'esilio.
Qui hanno parlato tre anime che hanno peccato per orgoglio: l'anima di un nobile (Omberto), l'anima di un'artista (Oderisi) e l'anima di un politico (Provenzan).
Dante ha inteso, la sofferenza personale é evidente.
Dante era un nobile, un'artista, un uomo politico.
CANTO 13°
Lasciati i superbi, un angelo vestito di bianco, l'angelo dell'umiltà, indica ai due poeti un passaggio agevole per continuare la salita.
E con un battito d'ala cancella una P dalla fronte di Dante.
I due poeti si ritrovano in un paesaggio desolato. Non ci sono scene scolpite alle pareti. Risalta solo il "livido color della petraia". In questa squallida solitudine, lo stesso Virgilio, smarrito, chiede al "dolce lume", cioé al Sole, di guidarli per la giusta via.
Ad un certo punto odono delle "voci volanti", che esortano le anime con esempi di amore caritatevole. Frugando con lo sguardo il deserto di pietra, i due pellegrini scorgono le anime degli invidiosi, che sono quasi aderenti alla roccia.
Indossano delle tuniche ruvide, pungenti, dello stesso colore della pietra; si appoggiano una all'altra fraternamente come i poveri ciechi che sul sagrato della Chiesa nei giorni di festa, chiedono l'elemosina, uno addossato all'altro. Queste anime recitano la litania dei santi a cori alterni.
Gli invidiosi peccarono in terra sopratutto con gli occhi, guardando con invidia la fortuna altrui, e negli occhi sono puniti
"ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra
e cusce sì, come a sparvier selvaggio
si fa però che queto non dimora". (canto XIII vv. 70-72).
A tutti un filo di ferro perfora le palpebre e le cuce, cos' come i falconieri cucivano gli occhi degli sparvieri selvatici, affinchè non fuggissero (operazione di accigliatura).
Orribili cuciture che facevano scendere le lacrime sulle guance.
Dante prova tanta pietà e chiede se tra loro c'é qualcuno che sia italiano. Solleva il capo la gentildonna Sapia, zia di Provenzan Salvani, originaria di Siena
"Savia non fui, avvegna che Sapìa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni
più lieta assai che di ventura mia". (v.109-111).
Io fu senese, non fui saggia, nonostante mi chiamassi Savia e Sapia. A causa dell' invidia fui lieta dei mali altrui molto più che della mia buona fortuna.
Un personaggio popolaresco, bizzarro e pettegolo, Sapia racconta che la sua vita é stata dominata da un'invidia smisurata. Odiò tanto i suoi concittadini ghibellini, da giungere a pregare Dio per vederli sconfitti, nelle solite guerre tra fazioni guelfe e ghibelline.
Quando essi furono messi in fuga, provò un'allegrezza insensata, tanto da lanciare una sfida a Dio; volgendo la faccia temeraria al Cielo, gridò: ormai non ti temo più, come il merlo, dice Sapia, che pensando fosse primavera, disse scioccamente all'inverno: non ti temo più. (leggenda dei giorni della merla).
Attraverso Sapia, Dante ci dà un'idea dei feroci rancori politici e famigliari che travagliavano l'Italia del suo tempo.
Sapia aggiunge di essersi però pentita, prima di morire.
Poi Pier Pettinaio, un umile artigiano, ebbe compassione di lei e pregò per la salvezza della sua anima. Sapia ora vuole sapere qualcosa di quest'anima appena giunta.
Ma Dante dice solo che é vivo e che dopo la morte anch'egli espierà le sue colpe nel cerchio degli invidiosi, ma, precisa Dante, starà molto di più nel cerchio dei superbi.
Sapia infine lo prega di "rimetterla in buona fama"; cioé di parlare bene di lei ai suoi parenti, se mai dovesse incontrarli.
Comunicazioni di Gabriele Annese
Nessun commento:
Posta un commento