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La Divina CommediaApprofittando della zuffa dei diavoli, Dante e Virgilio si allontanano velocemente: il movimento concitato e lo sguaiato vociare dei Malebranche é scomparso.
Il grottesco spettacolo é finito.
I poeti
(Taciti, soli, sanza compagnia
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
come frati minor vanno per via.
(silenziosi e soli, proseguivano il cammino uno davanti all'altro, come sono soliti camminare i frati minori).
Dopo tanto frastuono, il silenzio, una liberazione, un pò di solitudine, ma non la serenità.
Dante teme che i diavoli, imbarazzati dalla figura che hanno fatto, vogliano vendicarsi, inseguendoli. Anche Virgilio li teme, quindi avanzano con prudenza, pronti a buttarsi direttamente nella sesta bolgia.
In effetti i diavoli arrivano, volando, pronti a uncinarli.
Virgilio afferra velocemente Dante, simile a una madre che, alla vista di un incendio, "prende il figlio, fugge e non s'arresta", si getta nel fossato, scivolando lungo il pendio, tenendo sempre abbracciato Dante, "come suo figlio, non come compagno".
Giunti sul fondo della bolgia, guardano i Malebranche, che erano rimasti sul margine del fossato, ma ormai non c'era più paura, perché dice Dante, la Provvidenza che li ha voluti guardiani della quinta bolgia, non dà loro il potere di allontanarsi da essa.
Trovandosi all'interno della bolgia, Dante vede avanzare, molto lentamente, della gente "dipinta" che piange, con un'aria stanca e scoraggiata.
Hanno delle cappe (dei mantelli) con il cappuccio che scende sugli occhi, come i frati. Le cappe sono dorate, tanto da abbagliare, ma dentro sono di piombo, quindi molto pesanti. Per questo procedevano lentamente, tanto che, dice Dante, "ad ogni nostro passo, avevamo al fianco altri compagni".
Siamo nella sesta bolgia, la bolgia degli ipocriti.
Essi mostrarono in vita una falsa immagine di bontà e di giustizia, ma in realtà furono malvagi, furono "dei sepolcri imbiancati", come si legge nel Vangelo di Matteo.
Ora il peso della cappa ricorda lo sforzo sostenuto in vita, per apparire ciò che non erano. Hanno il cappuccio che copre gli occhi, perciò possono guardare solo di traverso, dopo che in vita non guardarono mai dritto negli occhi.
Nell'osservarli, Dante esclama "Oh in eterno faticoso manto!", o manto eternamente faticoso!
Il riferimento é certamente alla fatica delle anime, costrette a camminare lentamente, a causa del mantello con cappuccio, fatto di piombo, anche se dorato in superficie.
Ma il manto, che ricorda l'abito del papa, o dell'Imperatore, il cappuccio, la stola...tutto concorre a capire che Dante condanna, in questa bolgia, l'ipocrisia degli ecclesiastici.
Dante chiede a Virgilio di indicargli qualcuno, noto per il nome o per le opere.
Un peccatore, sentendolo parlare con accento toscano, lo chiama e lo invita ad ascoltarlo, procedendo di pari passo con lui, suggerisce Virgilio.
Il peccatore desideroso di parlare é Catalano de' Malvolti, un frate gaudente bolognese, che presenta a Dante un altro confratello, Loderingo degli Andalò, anch'egli bolognese.
Sono frati gaudenti, cioé appartenenti a un ordine cavalleresco di Francia, un'istituzione laica, con privilegi ed esenzioni.
Gli iscritti non risiedevano nei conventi, potevano sposarsi, non facevano voto di povertà.
Avevano il compito di pacificare le famiglie, o le città, difendendo gli oppressi.
Catalano era guelfo, era stato podestà a Milano, Parma e Piacenza.
Loderingo era ghibellino
Frati godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi,
come suole esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
ch’ancor si pare intorno dal Gardingo».
(Fummo frati gaudenti, di origine bolognese, io Catalano e lui Loderingo, e nella tua terra Firenze, fummo designati in due, non come si é soliti nominare uno, per conservare la pace nella città. Ma ci comportammo in modo tale, che ancora se ne parla presso il Gardingo).
Qui occorre un chiarimento storico:
Dopo la battaglia di Montaperti (1260), in cui ci fu un feroce scontro tra guelfi fiorentini e ghibellini di Siena, entrambi, proprio perchè di fazioni contrarie, erano stati nominati podestà di Firenze, per sei mesi, con lo scopo di reggere le sorti della città, e con la speranza di mettere pace tra le opposte fazioni (guelfi e ghibellini).
Ma dopo alcuni mesi furono allontanati, corrotti con denaro dai Guelfi, il loro operato non fece altro che aumentare gli odi politici e culminò in una sommossa popolare, conclusasi con la distruzione della casa degli Uberti, ghibellini, e con il loro definitivo esilio.
Una pagina ancora viva nella coscienza dei fiorentini, per la rovina della nobile famiglia degli Uberti, capi dei ghibellini. Ne dà testimonianza, dice Catalano, la torre di guardia fiorentina, di origine longobarda, il Gardingo (dove sorge il Palazzo della Signoria), distrutta, insieme alle case degli Uberti, che sorgevano là vicino, dopo l'esodo ghibellino.
E di questa cacciata definitiva dei Ghibellini, da Firenze, Dante aveva parlato nell'incontro con Farinata degli Uberti, nel cerchio degli eretici.
In questo ricordo, Dante si rivela il poeta della rettitudine. Dante é guelfo nell'anima e tale si manifesta fieramente nell'incontro con Farinata e in altre occasioni; ai guelfi bianchi teneva fede per tutta la vita, ma ora, nel cerchio degli ipocriti, non si astiene dal rimproverare gli eccessi dei guelfi nella vittoria definitiva sui ghibellini.
Catalano ha detto infatti: " Noi, assoldati dai guelfi, fummo quali si può vedere vicino alla torre di Gardingo".
Per questo Dante dice "o frati, i vostri mali" - ma non continua.
Non é pietà, ma é invettiva, "o frati il vostro tormento ve lo siete meritato", o anche "i vostri misfatti sono ben puniti". Sono tante le interpretazioni.
Ma Dante non continua, volge lo sguardo intorno e subito é attirato da un altro gruppo di anime, crocifissi in terra, con dei pali al posto dei chiodi, calpestati e schiacciati dalla schiera degli ipocriti che camminano lentamente, ma per l'eternità.
Dante guarda uno di questi crocifissi, che si contorce per il dolore e forse per la rabbia di essere stato visto in quella condizione.
Catalano subito spiega
e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,
mi disse: «Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo a’ martìri.
Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
qualunque passa, come pesa, pria.
E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
che fu per li Giudei mala sementa».
Chi sono questi peccatori, ipocriti anch'essi, ma sottoposti a pene maggiori?
Sono il sommo sacerdote Caifa, il suocero Anna e tutti i membri dei Sinedrio, che condannarono a morte Gesù.
(Quel peccatore crocifisso, che tu guardi, consigliò i farisei che sarebbe convenuto mettere a morte un solo uomo per salvare il popolo).
Cioè Caifa, sommo sacerdote ebreo, sostenne la condanna a morte di Gesù, con falsi pretesti di utilità pubblica, dicendo che la sua morte avrebbe scagionato gli Ebrei dall'accusa, da parte dei Romani, di essere degli agitatori.
Involontariamente proclamava la missione di Gesù: morire per la salvezza dell'umanità.
(E' messo di traverso sul pavimento, quindi di inciampo per i dannati ipocriti, ed é normale che soffra, perché calpestato da chi avanza pesantemente vestito con abiti di piombo. Nello stesso modo soffre il suocero Anna in questa bolgia, insieme agli altri del Sinedrio, che generò cattivi semi, cioè presero una decisione che generò terribili conseguenze per gli Ebrei).
Ipocriti, però condannati a una pena peggiore. Circa le terribili conseguenze, Dante fa riferimento, ovviamente, alla profezia di Gesù: la distruzione di Gerusalemme, operata da Tito nel 70 d.C. e la dispersione degli Ebrei, nel mondo.
Qui quindi, sono stati condannati Caifa, Anna e i membri del Sinedrio, la più alta assemblea ebraica, con compiti di amministrazione della giustizia e decisione su problemi religiosi, composta da 70 persone, divise in tre categorie: sommi sacerdoti, scribi e anziani.
Dante nota che anche Virgilio é impressionato da questo supplizio, ma subito il maestro chiede a Catalano come andare nella settima bolgia e Catalano ripete quello che già Malacoda, il capo dei diavoli aveva detto: il ponte é rotto dal 1266, cioé da quando Gesù era morto (1266 + 34 = 1300).
La sua morte aveva provocato un grande terremoto e nell'Inferno era crollato il ponte della sesta bolgia, per cui arrampicandosi sulle macerie, che si elevavano dal fondo della bolgia, dice Catalano, potranno arrivare al margine della settima bolgia.
Malacoda lo aveva ingannato, capisce ora Virgilio, perché gli aveva assegnato una scorta di 10 diavoli uncinati, dicendo che avrebbero dovuto fare un lungo percorso. Il bolognese Catalano, frate gaudente, ricorda ironicamente a Virgilio che nella scuola di teologia, egli aveva imparato che il diavolo, fra i tanti vizi, ha anche quello della bugia, anzi é padre della menzogna.
Virgilio alterato da questo rimprovero, affretta il passo e Dante lo segue.
Una riflessione merita il comportamento di Virgilio. Dante non dà sempre significati allegorici e simbolici a questo poeta; ce lo presenta a volte con contorni più umani, la sua sicurezza ha qualche sbandamento, come se cedesse allo sconforto, alla malinconia, appare stanco, si sente quasi a disagio alla vista di tanto male.
E' stato spesso ingannato dai diavoli, non solo dalle Malebranche, ma anche nei pressi della città di Dite, avevano ricevuto minacce.
Ma proprio nel pericolo, nella scatenata irruzione del male, mostra una umana saggezza, sollecito sempre della salvezza di Dante.
Infatti dopo un momento di smarrimento, Virgilio torna a rivolgersi a Dante "con quel piglio dolce che io vidi prima a piè del monte", cioè con lo stesso contegno amabile che aveva dimostrato ai piedi del colle, quando lo vidi per la prima volta.
Lasciati gli ipocriti, Virgilio stringe con le braccia la vita di Dante e lo sospinge su, per lo scoglio scosceso. Ma la fatica di Dante é tanta.
Giunto sull'orlo del fossato, Dante si arresta, per prendere fiato, ma Virgilio lo rimprovera
«Omai convien che tu così ti spoltre»,
disse ’l maestro; «ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre;
sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere e in acqua la schiuma.
E però leva sù: vinci l’ambascia
con l’animo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non s’accascia.
Più lunga scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia».
(Devi spoltrirti, perché adagiandosi tra i cuscini, o sotto le coltri, non si sale mai in fama! Chi consuma la sua vita senza ottenere fama, sulla terra lascia un'orma simile al fumo nell'aria o alla schiuma nell'acqua).
Più che un consiglio, sembra un' esortazione. Dante dopo lo spettacolo grottesco dei diavoli e quello lento dei frati incappucciati che vivono in un'atmosfera pesante e grigia da convento, riprende le coordinate più importanti del racconto. Il suo valore é simbolico, il significato è essenziale.
(Perciò alzati, vinci il grande affanno con l'animo coraggioso che vince tutte le battaglie, se non si lascia abbattere dal peso del corpo. Devi ancora salire una scala molto più lunga e faticosa: il Purgatorio.
Non basta aver lasciato qui gli ipocriti, non basta aver conosciuto il male, bisogna conoscere e operare il bene! Se hai capito, fai in modo di giovartene. Allora io mi alzai, mostrando di avere più fiato di quanto in realtà sentissi, e dissi " Va pure avanti, che io mi sento forte fisicamente e moralmente coraggioso ).
Morale: la fama non si raggiunge senza fatica.
Dante si riprende e , arrivati sul ponte che sovrasta la settima bolgia, il poeta guarda in giù, ma non scorge nulla. E' buio completo, per cui si trascina sull'argine della bolgia.
E' la bolgia in cui vengono condannati i ladri.
Riesce così a vedere una massa di serpenti, di vario colore, forma e dimensione, tra cui corrono le anime dei peccatori "nude e spaventate", con le mani legate dietro la schiena mediante serpenti che si annodano nella parte anteriore del corpo e li mordono.
Non i diavoli, ma i serpenti tormentano le anime, colpevoli di malizia fraudolenta, sono ladri ingannatori, hanno le mani legate, perché in vita le usarono per impadronirsi delle cose altrui con l'inganno.
E qui i serpenti ricordano il primo serpente ingannatore, ai tempi di Adamo ed Eva, e lo stesso Gerione, mostro e custode di tutto l' 8° cerchio, ha il corpo di serpente, ma il viso di uomo di fiducia.
In questo incontro Dante sottolinea ancora di più, la congiunzione tra natura umana e natura bestiale.
Mentre i due poeti osservano, inorriditi, questa penosa condizione delle anime, ai loro occhi si presenta uno spettacolo mostruoso: un dannato, morso al collo da un serpente, si incendia e diventa cenere. Poi subito la polvere si raccoglie e l'anima riprende forma umana. Una metamorfosi, ricorda Dante, simile a quella che caratterizza la Fenice.
Essa é un uccello leggendario che si nutre di resine aromatiche, e dopo 500 anni, profuma il nido, dove sceglie di morire, di altre resine profumate, che al calore del sole si incendiano e la riducono in cenere, poi la rugiada fa sì che essa rinasca dalle sue ceneri.
Ritornato in sè, il peccatore ladro appare stordito e stanco, trasognato, come un epilettico dopo la crisi, o un indemoniato dopo un esorcismo, dice Dante. Il quadro drammatico é di nuovo pronto per l'irruzione di un altro dannato.
Interrogato da Virgilio, il peccatore rivela la sua identità, e con un cinismo brutale, tira fuori i titoli della sua degradazione
Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana».
(Vengo dalla Toscana, giunto in questa bolgia da poco. Mi piacque la vita bestiale, violenta, non quella umana. Fui bastardo come un mulo. Sono Vanni Fucci, detto bestia, e Pistoia fu la mia città d'origine).
Dante lo conosceva come un uomo sanguinario, un brigante, un assassino e ora gli chiede come mai sia finito nella bolgia dei ladri. E il peccatore, con dispetto e rabbia, confessa
poi disse: «Più mi duol che tu m’hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l’altra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’io fui
ladro a la sagrestia d’i belli arredi,
e falsamente già fu apposto altrui.
(Mi rincresce più che tu mi abbia colto nella miseria del luogo in cui mi vedi, che la morte che mi tolse dalla vita terrena. Sono sprofondato nell'Inferno perché rubai gli arredi sacri della sacrestia e ingiustamente furono condannati altri).
I suoi misfatti erano noti a Dante, che lo conosceva, e a molti toscani, ma Dante vuole che si smascheri da solo, ecco perché la rabbia vergognosa di Vanni Fucci.
Si sapeva che egli avesse rubato il tesoro della sacrestia del duomo di Pistoia, ma anche registri e documenti che, per statuto, le autorità comunali, conservavano nella sacrestia. Furto del quale vennero accusati, falsamente, altri. Poi aveva rubato arredi sacri in altre Chiese. Era quindi un ladro sacrilego, ma il suo gesto fu considerato anche un atto di sfida verso le autorità di Pistoia, le quali lo arrestarono in Chiesa, dove si era rifugiato sperando nel diritto d'immunità, e forse fu impiccato, nel 1293.
Dopo la confessione, Vanni Fucci, indispettito per esser stato riconosciuto, quasi sfidando Dante, lo apostrofa con durezza
Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,
apri li orecchi al mio annunzio, e odi:
(Non voglio che tu goda di avermi visto quaggiù. Se mai uscirai dal buio inferno, ascolta bene quello che ti annunzio, ti profetizzo). Un'altra profezia.
Pistoia caccerà i Neri con l'aiuto dei Bianchi di Firenze (1301) ma poi i Neri ritorneranno e sconfiggeranno definitivamente sia i Bianchi di Firenze (1302) che i Bianchi di Pistoia (1306).
Quindi non ci fu nessuna speranza di rivincita dei Bianchi, tra cui Dante, per il quale si aprì la via dell'esilio.
E conclude
E detto l’ho perché doler ti debbia!».
(E questo ha voluto dirtelo, perché tu te ne debba dolere).
Fino alla fine, Vanni Fucci é vendicativo, e si compiace del male imminente.
Questo spirito di vendetta e di dispetti, tra Dante guelfo bianco e il dannato, guelfo nero, dà l'idea dell'atmosfera che regnava nelle città italiane, e soprattutto nelle due città toscane Pistoia e Firenze, le due città in cui si documentano atroci violenze tra Bianchi e Neri con devastante sconvolgimento della gente. Dante fa trasparire il suo odio, il suo disgusto per l'avversario politico, non gli rivolge mai la parola, e si serve della mediazione verbale di Virgilio.
Dopo aver espresso la sua soddisfazione per aver addolorato Dante, Vanni Fucci inveisce anche contro Dio, facendo un gesto blasfemo, offensivo, paragonato al nostro dito medio, dicendo "prendi Dio, a te lo rivolgo", ma subito i serpenti lo immobilizzano.
A questo punto Dante lancia un'invettiva contro Pistoia
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
d’incenerarti sì che più non duri,
poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi?
Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.
(Ahi Pistoia, perchè non decreti di incenerirti, così che tu sparisca dal mondo, visto che hai superato i tuoi fondatori nel fare del male?)
Il riferimento ovviamente é al disordine e la faziosità dei Comuni, si disgregava la società feudale e le autorità non usavano la forza della legge per regolare la vita cittadina.
Secondo una leggenda, Pistoia era stata fondata dai sicari di Catilina, crudeli e sanguinari, come il loro capo.
(Attraverso i tenebrosi cerchi non ho incontrato uno spirito tanto superbo contro Dio, come lui. Non fu tale nemmeno Capaneo, che cadde dalle mura di Tebe, fulminato da Giove per la sua superbia).
Dopo questo sfogo, Dante quasi si compiace di osservare Vanni Fucci, inseguito dal centauro Caco (un personaggio mitologico, ucciso da Ercole, per il furto delle giovenche) che reca sulle spalle un drago che sputa fuoco dalla bocca, e una massa incredibile di serpenti , da lanciare sul peccatore.
Il Centauro é un dannato, ma anche un esecutore della punizione.
Rimanendo in questa bolgia, Dante osserva altre mostruose metamorfosi.
Intravvede altri cinque fiorentini che non conosce, ma tali sono dall'accento e dai nomi che sente fare tra loro, vittime dei serpenti.
Uno, dopo esser stato morso, diventa tutt'uno col serpente, dando vita a una creatura metà uomo e metà serpente. Un altro si trasforma in serpente e il serpente in uomo. Dante segue questo continuo "mutare e trasmutare" dicendo che nemmeno Ovidio e Lucano, poeti latini incontrati nel Limbo, autori di metamorfosi di uomini in elementi della natura, avrebbero immaginato quello che lui ha visto (c'é una certa auto celebrazione di Dante, che si ritiene capace di competere con i grandi autori classici, con ottimi risultati).
Dante, per lo sdegno di aver trovato 5 fiorentini tra i ladri, inveisce contro Firenze
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
(Godi Firenze, che vai sulle ali della fama per mare e per terra e persino nell'Inferno si diffonde il tuo nome, troppi dannati sono fiorentini.
Tra i ladroni ho incontrato 5 tuoi concittadini, e di un certo ceto, per cui mi vergogno, nè tu puoi salirne in grande onore).
E poi si augura che quanto prima le piccole città si liberino dell'oppressione di Firenze.
Quindi i due poeti si incamminano per il sentiero, evitando di inciampare nelle schegge della roccia crollata, ancora presenti sul percorso, e giungono sul ponte che sovrasta l'ottava bolgia.
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