RELATORE: NICO SANTORO
Introduzione di Silvia Laddomada
"Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo". …. Tolstoj …..Anna Karenina.
Noi….come eravamo infelici ?
Il romanzo è ambientato nell’aristocrazia russa, … parla di tutto….dell'ipocrisia, della gelosia, della fede, della fedeltà, della famiglia, del matrimonio, della società, del progresso, del desiderio carnale e della passione, nonché del conflitto ….profondo…insanabile….tra lo stile di vita agricolo e quello urbano….tra la campagna e la corte.
Praticamente le nostre stesse motivazioni, la fotografia di una profonda disparità non più sostenibile tra esseri umani. E dalla parte dei ricchi…dei padroni..dei galantuomini….
L’incapacità di comprendere la sofferenza degli ultimi.
L’incapacità di comprendere delle classi agiate che faceva dire a Maria Antonietta a Versailles…”se il popolo non ha più pane, che mangi brioche”.
Gli echi della rivoluzione francese continuavano a farsi sentire.
Insomma era il vento della rivoluzione che soffiava tra le nostre campagne per portare giustizia….riuscendoci raramente…molte volte spostando solo equilibri….creando ingiustizie diverse.
Ma soffiava….
Ecco…..il brigantaggio era parte di quel vento…cercava di spostare equilibri.…..il brigantaggio per noi era una speranza.
Gramsci nei suoi “quaderni dal carcere” scriveva: “Lo Stato Italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infangare con il nome di briganti”
Certo…ma noi non potevamo coglierlo….avevamo sete di giustizia……ecco….a noi cafoni…. in quel momento...bastava che ci fosse restituita la dignità…..secoli di soprusi e vessazioni bruciavano dentro.
Il senso dello stato d’animo di quei contadini…di quella gente… ho sempre creduto fosse chiuso in una frase di Diador….uno dei nostri grandi vecchi di cui ho avuto l’onore di essere amico……Diador diceva “na putamm azà a chep, ma manc a riesciamm a chiecà”…. “La povertà non ci consentiva di sollevare la testa, la dignità non ci permetteva di chinarla”.
Poi successivamente collocai quella frase nel mio personale pantheon meridionale…. fatto con le storie degli ultimi…..degli sconfitti di cui raccontava Verga nei “Malavoglia” …il Ventre di Napoli della Serao….delle Canne al Vento della Deledda….dei Fuochi del Basento di Nigro….e di Diador.
Tutto è chiuso in questa frase detta da un vecchio su gradini di via Roma in una sera d’estate mentre parlavamo di vita vissuta, delle nostre vite, la mia che cominciava …la sua che insegnava….ecco…il brigantaggio esplode violento quando a quei contadini provarono a far chinare la testa.
E poi aggiunse…..paterno…….”Ver…ca ncuion ca te vol chieca a chep u iacchie semp….naa chiecà….ca cia chiech na vot nange a jaz cchiù”.
Queste erano le riflessioni di un vecchio che aveva attraversato la storia delle nostre terre….nato a fine ottocento…era un ragazzo del 99.. quelli famosi mandati a morire sul Carso…ma già aveva conosciuto la faccia feroce dello Stato Italiano nei racconti di suo padre e di suo nonno….contadini come lui……a cui nessuno riuscì a strappare la dignità. Mai.
E ci provarono…ci provarono in tanti.
Ed ora vi mostro la fotografia di chi provò a far chinare la loro testa. E’ una fotografia nitida di Crispiano ai primi dell’ottocento:
Questa è la fotografia fatta all’impianto del catasto murattiano (all’incirca 1806)
72 masserie sul nostro territorio producevano una rendita di 25.431 ducati più o meno 450.000 euro.
Su 72 masserie 47 sono di proprietà di 32 galantuomini martinesi che producono una rendita di 13.429 ducati …più o meno 230.000 €
2800 ducati sono 48.000 € agli enti ecclesiastici martinesi, 4421 ducati circa 80.000 € i tarantini, 2237 ducati i montemesolini circa 38.000 €…..insomma di crispianesi proprietari ce n’erano solo 2 che del guadagno di 25.431 ducati complessivi mantenevano a Crispiano 117 ducati…ovvero 1989 € divisi per due…..ovvero 1000 € a testa per poter vivere….anzi campare la loro famiglia per un anno!!
Si nota la mancanza delle rendite dell’abbazia di santa Maria che era stata assorbita dal seminario arcivescovile fondato da monsignor Capecelatro nel 1780 …insomma non avevamo niente…..ma proprio niente.
Come vedete eravamo obbligati a chinare il capo...ma non lo facemmo…..non alzavamo lo sguardo, ma non piegavamo la testa.
Ora voi immaginate i nostri due possidenti (in due possiedono 72 tomoli, 1 tomolo corrispondeva ad 8 stuppidd…uno stuppidd era più o meno 1500 mq) che si incontrano e cominciano a parlare delle possibilità che l’Italia si unisca?
Sempre ammesso che qualcuno glielo avesse detto, visto che non sapevano ne leggere ne scrivere.
L’unica cosa che aveva solleticato l’attenzione dei contadini meridionali era stata la promessa fatta da Garibaldi che chiunque avesse partecipato alla conquista del Regno delle due Sicilie avrebbe avuto le terre del demanio, era una promessa di libertà che lasciava intravedere la liberazione dalla schiavitù dei nobili proprietari terrieri….i cosiddetti galantuomini….ed i contadini ci credettero ed appoggiarono con entusiasmo l’arrivo dei mille.
Ma credete mai possibile che senza l’appoggio…il consenso entusiasta della popolazione ( oltre alla marina inglese che proteggeva la rotta ed in Sicilia della già nata mafia, e dei famosi picciotti) Garibaldi avesse potuto conquistare l’intero Regno delle due Sicilie?
Sconfiggere
un esercito ben organizzato e dotato di circa 70.000 uomini suddivisi
tra fanteria, artiglieria, cavalleria, guastatori, gendarmi,
tiragliatori, supportati dalla Real marina del Regno che aveva a
disposizione un centinaio di imbarcazioni su cui trovavano impiego
oltre 6500 uomini tra ufficiali sottufficiali e marinai.
Navi armate con oltre settecento bocche da fuoco tra cannoni e artiglieria varia?
La Real marina del Regno delle due Sicilie che era seconda solo alla Real marina inglese?
Tutte queste conquiste in cinque mesi a far data dall’arrivo a Marsala l’undici maggio del 1860?
Con solo mille uomini male armati e che di buono avevano solo le intenzioni e la camicia rossa?
No…non sarebbe stato possibile, ma era fuori da ogni dubbio che bisognava realizzare l’unità d’Italia.
I movimenti Neo borbonici sorti negli ultimi anni possono solo strapparci qualche sorriso e nessuna considerazione.
Quindi è fuori da ogni dubbio che bisognava unire l’Italia, come è fuori di ogni dubbio che il Regno delle due Sicilie avesse i due terzi dell’intera ricchezza (quella vera…le risorse auree) del futuro Regno.
E questo è un dato ripreso dalla relazione di Francesco Saverio Nitti, capo del Governo nel 1919-20 fatta in Parlamento nello stesso anno e contenuta anche nel suo libro “Principi di Scienza delle Finanze”.
Regno delle Due Sicilie: 445,2 milioni
Regno di Piemonte: 27
Toscana: 85,2
Romagna, Marche e Umbria: 55,3
Lombardia: 8,1
Parma e Piacenza: 1,2
Modena: 0,4
Venezia (1866): 12,7
Roma (1870): 35,3
Totale: 640,7 milioni di lire
Di questo parliamo quando parliamo dell’Unità d’Italia….della lungimiranza di Cavour che trasformo l’intero Meridione in una colonia del Piemonte e le nostre ricchezze nel loro “argent de poche”
In una lettera indirizzata proprio a lui, Liborio Romano - Ministro dell'Interno di Francesco II, poi deputato nel primo Parlamento unitario - dimostra come vennero depredati la Cassa di Sconto e il Banco Partenopeo, le due banche principali dell'ex Regno di Napoli.
Attraverso un sistema di trucchi finanziari e irregolarità contabili, in un solo anno (1861) il governo piemontese «prelevò» 80 milioni di lire spendendone per il Meridione meno della metà.
Inoltre l'industria settentrionale ebbe facile gioco a piazzare i propri prodotti al Sud, dopo l’eliminazione dei dazi imposti dai Borbone, mentre le sarebbe stato difficile battere la concorrenza europea.
Anche il numero dei poveri - ovvero miserabili - testimoniava, con buona pace dei luoghi comuni, uno stato sociale non disastroso: nelle cosiddette province napoletane e in Sicilia, erano poco più di centoventimila, ovvero l'1,40 per cento della popolazione.
Più che in Piemonte e in Liguria (1 per cento), ma meno che in Lombardia (1,6), Romagna (2,11), Umbria (2,14) e Toscana (1,83).
Per una corretta valutazione storiografica, occorre anche considerare lo stato in cui si trovava il Meridione prima dell'arrivo dei Borbone, nel 1734: semplicemente tragico.
Le vicende storiche - benché apparissero remote già nell'Ottocento - avevano ancora un'incidenza profonda nella vita economica e sociale dell'intera Penisola. Non si può ignorare che, mentre al Nord si sviluppavano i Comuni, al Sud, con un processo inverso, si radicava il feudalesimo.
E cresceva il latifondo. Il nostro vero cancro.
I galantuomini, un notabilato, spesso parassitario, con cui si trovò a convivere - per reciproco vantaggio - anche il ceto politico post unitario. La redistribuzione della proprietà terriera, unica via per favorire un processo moderno di economia, non fu mai presa davvero in considerazione.
I contadini venivano trattati poco meglio di animali, e niente sarebbe cambiato con l'arrivo dei «forestieri», pronti a difendere lo stato delle cose.
I liberali del Nord (gli scrittori salariati di cui parlava Gramsci) non vollero affrontare il nodo della questione agraria, che rimarrà nei pensieri di qualche sparuto illuminato e sulla bocca di pochi radicali.
Sarà una delle principali cause del cosiddetto Brigantaggio.
Il Brigantaggio è un fenomeno complesso che non può accettare semplificazioni perché esso era delinquenza comune, guerra civile ma soprattutto guerra contadina, se nel considerare i fatti non si considera uno solo di questi aspetti inevitabilmente si è costretti ad una ricostruzione errata dei fatti.
E quando parliamo di guerra civile, parliamo del ruolo che ebbero gli ex Ufficiali, Sottufficiali e Soldati borbonici nell’organizzazione della resistenza armata al nemico invasore: Lo stato Italiano; che aveva premiato come al solito i padroni e che tentava di schiacciare nuovamente i contadini….come sempre!
Crispiano non è un insieme di case, quelle le costruisci ovunque. Crispiano è una stratificazione di storie intimamente legate tra loro senza le quali tutto avrebbe avuto un senso diverso.
Io avrei un senso diverso e sarei altra cosa da quello che sono se non avessi ascoltato quelle storie, se non mi fossi sentito parte e conseguenza… compreso il dolore sordo e sottile contenuto in quelle storie.
Ed io l’ombra del brigante l’ho vista coprirmi le spalle in una mattina di primavera dei primissimi anni 70 mentre stringevo la mano di mio nonno nel bosco delle Pianelle… in quel preciso momento scoprii di essere parte di quella storia, scoprii di essere parte di quel dolore.
Mio Nonno Domenico era quel che si dice un gentiluomo di campagna….che amava la musica…era stato un musicista…un virtuoso del clarinetto nella banda del maestro Martino Bello negli anni venti dello scorso secolo …ed amava le rose…..con mia nonna ne coltivava di bellissime…. il loro balcone in via Roma era una gioia per gli occhi…..ad una era particolarmente affezionata… era il ricordo di sua madre “Jannette la belledelmondo” che l’aveva coltivava da sempre….fin da ragazza….quando verso la fine del’800 e ne era venuta in possesso facendo propagare la talea di una rosa canina raccolta in un punto preciso nel bosco delle Pianelle.
La tecnica di riproduzione per talea sfrutta le proprietà rigenerative dei vegetali e si basa sulla capacità di differenziare il tessuto indifferenziato….in sostanza le piante hanno la capacità di rigenerare anche parti perdute del proprio organismo…..se ci pensate è qualcosa sospesa tra il magico ed il divino….ora….questa propagazione era la stessa magia che si realizzava nella mente della mia bisnonna “Jannette a belledelmondo” quando curava quella rosa…ricuciva uno strappo…curava se stessa….la sua memoria.
In lei si colmava un dolore antico ogni qualvolta che quella rosa sbocciava…..come accade con le talee che rigenerano le radici…al suo cuore venivano restituiti i pezzi mancanti….l’amore che le era stato negato e che non aveva mai conosciuto perché qualcuno lo aveva reciso.
Quella rosa era suo padre che non aveva mai conosciuto; ne colmava l’assenza. Restituiva il calore di baci…di abbracci mai ricevuti.
Avrebbe volentieri barattato la sua bellezza per un po’ di quel calore.
L’albero del capitano è forse uno dei lecci più antichi delle Pianelle, scavato dal tempo e da un fulmine che lo colpì nel corso della sua silenziosa esistenza… un po' come accade ad ognuno che tentiamo di sopravvivere alla vita e dai suoi colpi improvvisi…E’ al centro di un quadrivio… risalendo il sentiero a nord….ci si infila in un budello verde costeggiato sulla destra da una lama completamente muschiata a causa della difficoltà dei raggi del sole a penetrare quel muro di foglie…..continuando lungo il sentiero ad un certo punto si percepisce un senso di incombenza…la luce si attenua ulteriormente…e se sollevi il capo ti ritrovi sotto ad uno sperone roccioso che copre completamente la lama e parte del sentiero…perpendicolare ad esso c’è uno slargo….spostandosi in quella piccola radura e sollevando il capo si scorge la pentima…..molti la chiamano la pentima del brigante….che non è quella successivamente nominata più per fini paesaggistici.
Sotto quella pentima morì Domenico Tursi lanciatosi con il suo cavallo nel vuoto mentre era inseguito dai piemontesi a cavallo.
In quel punto anni dopo Anna Tursi “detta Jannetta a belledelmondo” raccolse una rosa che ancora è conservata e curata nel mio giardino.
“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (la prima rosa esiste solo in quanto nome: noi possediamo nomi nudi)….. Adso da Melk, ormai vecchio…ricordando la sua vita….la sua storia….gli insegnamenti del suo maestro fra Guglielmo da Baskerville pronuncia questa frase alla fine del Nome della Rosa il capolavoro di Umberto Eco…..alla fine di tutto resta un puro nome …un segno…un ricordo.
Una rosa, appunto….la stessa rosa che continua ad attraversare e a legare i secoli e la storia della mia famiglia.
Il brigante Domenico Tursi si lancio dalla pentima del brigante per non essere catturato dai piemontesi nel novembre del 1863….poco più di un mese dopo Garibaldi si dimetteva dalla Camera dei Deputati del neonato Parlamento per protesta contro la repressione della rivolta nel meridione d’Italia.
Quindi a Novembre del 1863 le nostre terre erano pesantemente presidiate dall’Esercito Piemontese affiancato dalla Guardia Nazionale e dai Regi Carabinieri.
Uno schieramento d’armi e di uomini impressionante…solo per dei comuni delinquenti? come sostiene qualche cognitivo disfunzionale ancora oggi?
Non era cosi…..la realtà era chiusa nelle frase di Diador…”i patron t’hon a cazz a chep p sta bun lor”
Nelle nostre terre si è combattuta una guerra di resistenza di cui non si aveva coscienza perché ci era interdetto il sapere, la conoscenza.
Fatti non foste a viver come bruti…era una frase che non avevamo mai letto ne ascoltato….ma avevamo rabbia.
Una infinita rabbia. Una dolorosa rabbia.
Contro chi aveva tradito le nostre speranze di vivere una vita dignitosa.
La prima traccia di questa guerra la troviamo negli scritti di Pasquale Mancini, il nostro primo Sindaco, che nel suo libro “origini e vicende del comune di Crispiano e della sua chiesa” edito nel 1925 riporta questa frase: “ nell’autunno del 1860 i briganti divisi in squadre e portando sulla punta della baionetta l’orecchio di una povera vittima entrano in Crispiano, ed essendo luogo sicuro vi stabiliscono il loro quartiere generale al comando di Cosimo Mazzeo (Pizzichicchio) , Valente, Crapariello, Trinchera di Ostuni e del Sergente di Gioia”.
I nomi citati sono nomi di primissimo piano e non parliamo di semplici delinquenti Mazzeo e Romano sono ex soldati dell’esercito borbonico, il Romano è oltretutto un sottufficiale quindi sa leggere e scrivere, come anche il Mazzeo…..il Valente è detto il "brigante letterato" Giuseppe Valente, fu, infatti, uno dei pochi briganti a non essere analfabeta. Egli redigeva personalmente le "missive" che, poi, inviava alle famiglie più ricche per estorcere loro denaro. …… il Trinchera di Ostuni era Tito Trinchera figlio del notaio Pietro studente di legge alla Federico II di Napoli ed attivista legittimista.
E’ evidente che non parliamo di delinquenza comune. Ma di qualcos’altro.
Il Mancini sicuramente sbaglia nella datazione dell’evento in quanto Cosimo Mazzeo e il sergente di Gioia, che altri non sarebbe che Domenico Romano…il Sergente Romano….nel novembre del 1860 erano ancora nelle fila dell’esercito borbonico e precisamente il Mazzeo come soldato del 5° battaglione cacciatori mentre Domenico Romano era un Sottufficiale del 5° Reggimento di fanteria di linea ed erano entrambi impegnati nella battaglia di Gaeta che chiuse la conquista dell’intero Regno delle due Sicilie ed il Risorgimento italiano.
Il fatto che fossero soldati borbonici ha un aspetto importantissimo per il brigantaggio….in quanto con l’avvento dei Savoia furono trattati come persone inaffidabili. Erano coloro che avevano servito i Borboni fino alla fine. Dei perdenti, gli sconfitti, gli ultimi.
Ma torniamo al Mancini, presumibilmente la data reale è da collocarsi nell’autunno successivo ovvero quello del 1861…che coincide con il primo evento realmente databile del brigantaggio a Crispiano…ovvero dai verbali di polizia troviamo che l’11 novembre 1861 viene ucciso Luigi Caliandro, ritenuto informatore dei gendarmi, nei pressi dell’aia della masseria Minco di Tata….tale aia sorgeva all’incrocio tra via Vittorio Emanuele e via D' Annunzio…praticamente di fronte all’attuale Ufficio postale.
Questo evento è importantissimo perché indica un elemento fondamentale per la comprensione di quanto Crispiano fosse dalla parte dei briganti, infatti si era creata una rete di informatori che li supportava nell’attuazione di quella che oggi chiameremmo “intelligence”. I briganti sapevano sempre per tempo l’arrivo o la presenza di uomini del Regio esercito o della Guardia nazionale.
E questa intelligence era attivissima, tanto da individuare i delatori che mettevano in pericolo la rivoluzione in corso.
Benedetto Rodio, fu identificato come il successivo nemico da eliminare.
Benedetto Rodio era un calzolaio di origine martinese abitante a Crispiano, dove nel 1852 aveva sposato Angela Loparco…..a questa signora è legato il primo atto notarile di cui abbiamo traccia a Crispiano…perché proprio con questo atto aveva portato in dote un consistente corredo…credo si parlasse di “panna iott”…svariati mobili nonché un capitale di cento ducati esigibili alla morte del suocero Rocco Loparco (da qui l’origine delle cambiali estinguibili a babbo morto) .
Il Rodio faceva parte di quel nucleo di nuovi crispianesi emergenti e sicuramente si era schierato a favore del nuovo governo….con i Savoia….anche e soprattutto per garantire la sua condizione economica e sociale.
Per il fatto di saper leggere e scrivere e d’avere una modesta cultura si collocava, di fatto, in una posizione di riguardo all’interno della nascente comunità, tanto che nel 1892 fu maestro di Francesco Ricci, uno storico locale che ha lasciato scritti importanti dai quali abbiamo ricostruito molto della realtà del tempo.
Sicuramente possedeva una grande casa in muratura, dove vivevano la sua famiglia e quelle di due figli già sposati, nonché due grotte ed altre due case tutte ad uso abitazione e concesse in fitto.
Fu più volte delegato sindaco, ma non certo all’epoca del grande brigantaggio come invece sostiene il Ricci, in quanto in quegli anni tale carica era ricoperta da Giuseppe de Nicola, proprietario della masseria Mesolecchie e residente a Statte…. Statte e Crispiano avevano un unico rappresentante in seno al consiglio comunale di Taranto.
Rodio fu sicuramente delegato sindaco dopo il 1881 come risulta dai registri dello stato civile di Crispiano, e si era macchiato della colpa di essere un liberale…oltretutto aveva partecipato al complotto che aveva fatto allontanare da Crispiano il parroco Raffaele Tocci il 13 ottobre del 1861….parroco che proteggeva i briganti ma non per fini solidali ai contadini…..macché……in realtà la Chiesa sperava che tornassero i Borboni semplicemente per riacquistare il possesso di tutti i beni che gli erano stati sequestrati dal nascente Stato Italiano….tant’è che PIO IX aveva emesso una scomunica che colpiva tutti coloro i quali avessero acquistato all’asta i beni dello Stato Pontificio.
Qui da noi praticamente aveva scomunicato completamente i signorotti di Martina Franca!
Ma tornando al Rodio….tutti questi fatti lo avevano indicato come soggetto da punire in modo esemplare.
E cosi fu.
I briganti sapendo che il calzolaio possedeva un piccolo fondo in contrada Miola, lo attesero sul monte del tufo (cimitero) controllando la strada che avrebbe fatto al ritorno dalla campagna….Benedetto li riconobbe…. negò di essere l’uomo che cercavano e tornato a casa nascose la moglie…la signora Angela…in un forno della salita Fieramosca mentre lui si rifugiò dai suoi parenti a Martina Franca.
Scoperto l’inganno i briganti riuscirono a rintracciare la moglie e caricata su un cavallo la condussero nei pressi di Masseria Siati dove la violentarono a turno sotto un albero di fichi……da questa violenza nacque un bambino Rocco che divenne un falegname e fu a lungo organista della Madonna della Neve…..poi senza apparente motivo….andò via da Crispiano ed emigrò in America latina con moglie e figli…..e qui morì novantenne.
Come tutte le guerre le atrocità non venivano risparmiate da nessuna parte. E questa fu una delle più dolorose.
La delazione intanto continuava imperterrita a marzo del 1862 l’economo curato Vincenzo Marinò sfuggi alla cattura dei briganti perché si era recato a Taranto a trovare dei suoi parenti…per ritorsione i briganti incendiarono la sua casa in via Paisiello,39….rientrato e scoperto l’accaduto il Marinò raccolse le sue cose e torno definitivamente a Taranto….ricorda il Ricci che dopo questo evento anche il costruttore tarantino Giovanni Galeone che si era stabilito qui per provvedere alla costruzione della chiesa vecchia per cui aveva vinto l’appalto decise di andare via.
La presenza dei briganti e le loro azioni diventavano sempre più importanti….e la popolazione era sempre dalla loro parte.
Giusto per capire….Uno dei soprannomi più feroci che Crispiano abbia mai affibbiato è proprio legato ad un evento delatorio compiuto in famiglia. Due fratelli uno contro l’altro…uno che informa la guardia nazionale di dove fosse nascosto l’altro fratello…il brigante….un gesto imperdonabile che la gente condannò …..l’isolamento sociale conseguente…..la nascita del soprannome….affondando nella poca conoscenza che si aveva….prevalentemente biblica…..Caino!
Chi conosce questa famiglia sa quanto siano perbene….ma questo continua ad essere il loro soprannome….una ulteriore testimonianza della presenza del brigantaggio ancora oggi.
Saltando di palo in frasca….l’idea geniale della creazione del Pan Brigante da parte di Roberto Clemente e di Concetta Conserva della pasticceria Ideal nasce proprio da questo evento……poi magistralmente romanzato da Giorgio Di Presa.
Torniamo a noi….qui bisogna fermarsi a ragionare….ed il ragionamento ci condurrà in un'unica direzione…ovvero…i briganti avevano colto la necessità di avere un coordinamento… una regia nella guerra in corso, in maniera che le loro azioni non fossero scollegate. Avevano bisogno di un Generale comandante in modo che ogni azione potesse essere il tassello di un ragionamento più grande.
Tutte le battaglie dovevano servire a vincere la guerra.
Ora bisognerebbe parlare per ore di Carmine Crocco e del Sergente Romano, le figure più emblematiche…nobili….feroci…romantiche del nostro brigantaggio, ma questo richiederebbe ulteriori ore…fermiamoci pertanto al loro ruolo nel brigantaggio crispianese.
Il sergente Romano era affascinato dalle gesta di Carmine Crocco, oltretutto erano venuti in contatto proprio nell’aprile del 1862 quando le truppe di Crocco erano giunte fino nelle campagne tra Gravina ed Altamura. I due si erano incontrati ed avevano ventilato la possibilità di fondersi. La condizione sine qua non affinché ciò si realizzasse era il controllo da parte del Sergente Romano del brindisino.
Ed è quello che il Sergente riusci quasi a fare tentando la conquista prima di Cellino, poi di Carovigno infine della tenuta Serranova……nel periodo che va dal 24 ottobre al 21 novembre del 62…quando le sue gesta fecero convergere nell’area in questione la maggior parte delle truppe a disposizione del Regno…. cosa che lo obbligò per sicurezza a rientrare nel quartiere generale nel bosco delle Pianelle.
Nella grotta del Sergente Romano!
La situazione è ormai fuori controllo per il nascente Stato Italiano ed il Parlamento comincia a chiedersi come mai sia così difficile debellare quello che all’inizio veniva visto come un semplice fenomeno di banditismo, a questo scopo il 16 dicembre 1862 viene istituita una commissione d’inchiesta sul fenomeno che prenderà il nome dal suo relatore: L’inchiesta Massari sul Brigantaggio.
Giuseppe Massari era un parlamentare che conosceva bene Crispiano essendo nato a Taranto ed avendo possedimenti familiari nel circondario…poi dopo gli anni a Napoli, Firenze e Parigi in cui formo la sua anima liberale…divenne segretario di Cavour di cui condivise lo spirito unificante dell’Italia…ma non quello predatorio che il conte piemontese aveva ben chiaro….infatti dopo aver acquisito il materiale informativo redige la famosa inchiesta Massari sul brigantaggio con altri parlamentari e ne da lettura in Parlamento.
Chiaramente per evitare critiche al nuovo Governo evidenzia che tale fenomeno è fomentato dagli agenti borbonici e clericali….in realtà anni dopo….all’apertura degli archivi segreti legati all’inchiesta verrà fuori che il Massari aveva evidenziato quanto il brigantaggio fosse la risposta rabbiosa delle ingiustizie subite dai poveri….sempre gli stessi poveri che subivano…continuavano a subire sempre dagli stessi ricchi…..
Diador continuava ad avere ragione : ”i patron t’hon a cazzà a chep p sta bun lor”
Intanto i briganti continuavano le loro scorrerie per il territorio di Crispiano…..il 16 ottobre 1862 durante la festa dell’Addolorata entrano in paese e rubano gli strumenti alla banda di Locorotondo ingaggiata per la processione…il 7 novembre Pizzichicchio estorce 50 ducati e tre cavalli a Cataldo Fornaro di Montemesola, proprietario di masseria Scorcola.
Tali furti erano necessari per finanziarie e sostenere i numerosi briganti assoldati dalla banda….la povera gente restava sempre indenne da queste scorrerie….tali furti interessavano solo i ricchi proprietari.
Ed è quello che accade il 05 gennaio del 1863 al calabrese Antonio Ceneviva.
Il Ceneviva possedeva parte della contrada Triglie con il casino di caccia oggi chiamato Torre Ceneviva portata in dote dalla moglie Francesca Blasi dei baroni di Statte.
I briganti per il tramite della massara avevano avanzato una richiesta estorsiva ai danni del Ceneviva che si rifiutò di accogliere. Meditò una reazione….Informò del fatto la guardia nazionale che guidata da alcuni militi al capo del maggiore Ciro Giovinazzi accompagnarono il Ceneviva alla masseria; questi scorti i briganti si allontanò dal drappello e fece fuoco colpendo un brigante…ma rimasto isolato venne circondato e catturato…. fu poi condotto nella pagliara dove fu trucidato insieme alla massara colpevole di aver avvisato il suo padrone della presenza dei banditi.
In quelle stesse ore del 5 gennaio muore nel bosco di Vallata tra Gioia e Santeramo in colle, il Sergente Romano ucciso dai cavalleggeri di Saluzzo…il suo corpo massacrato ed il capo…. tagliato da una sciabolata e appiccato su un palo…furono esposti nella pubblica piazza e lasciati lì per una settimana come atto intimidatorio nei confronti della popolazione.
La gente di Gioia del Colle non volle mai credere che il corpo esposto fosse quello del Sergente Romano…continuarono ad aspettarlo per non interrompere il sogno…..la speranza di una rinascita.
La morte del Romano aveva lasciato senza comando le sue truppe ed i briganti si erano dispersi un po ovunque…uno di questi gruppi giunse a Crispiano la sera del 24 gennaio 1863 presso la masseria di Pilano.
La banda era capeggiata dal cegliese Francesco Monaco, dolcemente accompagnato dalla bella Menica Rosa Martinelli, una contadina di cui il Monaco si era invaghito e che lo aveva seguito per amore o per altro.
Trovarono alloggio nella masseria con i contadini che erano li a servizio…..La notte invernale era lunga ed uno dei briganti della comitiva, un certo Bolognini di Roccaforzata, pensò bene di organizzare un ballo con alcune contadine di Locorotondo che in quella masseria si trovavano a prestare la propria opera.
Fu proprio Bolognini ad invitare la bella Menica Rosa, ricevendone un rifiuto dal momento che la povera ragazza aveva "i piedi gonfi, perché avea dovuto caminare a piedi".
Il Monaco e la Menichelli venivano da Francavilla Fontana.
Non l'avesse mai fatto! Il brigante la costrinse ad un ballo improvvisato, condotto con tanta mala grazia da farla urtare con il naso contro il muro cosi violentemente tanto da far "uscire del sangue".
A questo punto intervenne il Monaco che, colpito l'altro brigante, disarmò tutta la comitiva sequestrandone le armi.
Gli animi si acquietarono e la notte scorse apparentemente serena.
Al mattino, dopo una veloce riconciliazione tra la banda ed il capo, furono " ridistribuite le armi” ad ogni brigante e si riprese la via delle campagne.
Fatte, però, poche centinaia di metri, due briganti, Carlo Francesco Di Martino di Martina Franca e Pasquale Elia di Ceglie, tirarono due schioppettate a tradimento al Monaco che, dicendo "mamma", stramazzò morto al suolo.
Dopo averlo depredato di tutti i suoi averi, i briganti si gettarono addosso alla povera Menica Rosa, togliendole gli ori ed il denaro che aveva. Diviso il bottino, ognuno se ne andò per la propria strada lasciando libera Menica Rosa che corse subito dai carabinieri di Martina a raccontare l'accaduto. Lungamente interrogata, rilasciò la deposizione che ci permette oggi di ricostruire l'accaduto.
Intanto tra episodi di minore rilevanza si arriva al 18 maggio del 1863 ed al duplice ed efferato assassinio dei frati cappuccini Mariano da Erchie del convento di Grottaglie e Zaccaria da Taranto dimorante in Monteiasi per mano di Pizzichicchio, divenuto sempre più audace e aggressivo.
Il primo, padre Mariano era stato a celebrare messa alla masseria Levrano d’Aquino tra Monteiasi e Montemesola.
Padre Zaccaria invece aveva celebrato a Masseria Marrese in agro di Taranto.
Pizzichicchio che stazionava con 25 uomini sulla piccola altura di Montecastello nei pressi di Montemesola, li scorse ed inviò due gruppi dei suoi uomini a prelevare i frati e a condurli al suo cospetto.
Dopo un sommario processo li condannò per essere al servizio dei padroni, e dopo averli fatti denudare ed averli seviziati, sgozzo personalmente i due poveri frati.
Padre Zaccaria venne accecato prima di essere ucciso….questo forse come punizione per di aver visto troppo ed anche parlato…a Padre Mariano Pizzichicchio tolse la tabacchiera che tenne per se.
I sai dei due frati vennero invece indossati come un trofeo da due uomini della banda.
Dopo questo evento i sindaci dei paesi interessati dalle scorribande si riunirono al castello di Taranto con il colonnello dei carabinieri Edoardo Sannazzaro di Giaorle per trovare una soluzione al problema che era ormai diventata insostenibile.
In quella riunione si stabili che era necessario intervenire militarmente per porre fine alla questione.
Arriva così al 16 giugno 1863. E le prime luci dell’alba che illuminavano la Piana di Belmonte.
La masseria Belmonte ospitava spesso i briganti, in quanto era un luogo protetto bene sul lato meridionale dalle ripide balze delle Coste dell’Angelo, un gradone naturale della prima terrazza per murgiana, che permetteva di avvistare immediatamente eventuali spostamenti di truppe da Taranto verso Martina. Dagli altri era invece completamente scoperta, per questo motivo i briganti temevano una eventuale incursione dal versante di Taranto.
La notte era stata un manto nero per le truppe che si erano mosse silenziose e fugaci per evitare di essere avvistate.
Un reparto del 16° reggimento fanteria si apposto nella contrada circostante “ a Rifes”; quaranta carabinieri a piedi e a cavallo comandati dal capitano Francesco Allisio si disposero a semicerchio dietro la testa d’ariete costituita dai fanti.
Era presente un reparto della guardia nazionale composto da undici militi di Massafra e tre di Grottaglie guidati dal comandante Nicola Perrone di Laterza
Un reparto della Guardia nazionale comandato dal capitano Giovanni Cordiglia e dal tenente Davide Conversano s’attestò a sud della masseria per tagliare ogni possibile via di fuga ai briganti.
Con un lungo giro trentuno cavalleggeri di Saluzzo comandati dal tenente Guido Guidelli si acquartierarono nel piazzale della Masseria Orimini.
Con le prime luci la guardia nazionale e i carabinieri di Massafra si mossero per sferrare il primo attacco.
I briganti scorgendo l’esiguo numero dei militari pensarono si trattasse di una azione di controllo del territorio.
In virtù della loro presunta superiorità numerica partirono all’attacco…. la guardia nazionale fece intendere di volersi ritirare ed incomincio a indietreggiare…a questo punto intervennero insieme la fanteria, la cavalleria ed i restanti carabinieri a cavallo.
Fu un massacro.
Al termine della battaglia restarono sul campo 17 uomini… undici vennero fatti prigionieri, gli altri riuscirono a darsi alla fuga.
Tra i catturati c’era Tito Trinchera…il figlio del notaio, lo studente di giurisprudenza….tal Michele Greco di Crispiano..Francesco Maniglia, il tignoso di San Giorgio…. furono condotti a Taranto e la mattina dopo fucilati con un colpo alla testa presso il cimitero di San Brunone a Taranto.
Due di loro indossavano il saio rubato ai frati ammazzati a Montecampo.
Il racconto di questa battaglia è magistralmente riportato in un libro dedicato a questo evento…il libro si chiama “Belmonte” l’autore è Franco Zoppo…si intreccia con una storia d’amore sofferta e ricostruisce alla perfezione la battaglia di Belmonte.
Pizzichicchio era riuscito a salvarsi e a sfuggire alla cattura.
Riapparve il 24 giugno a masseria Medichiccio dove uccise un bue e ne ferì altri tre, lasciando un biglietto estorsivo al proprietario Giuseppe Zigrino con la richiesta di 100 piastre.
Riapparve ancora il 01 luglio a masseria Scorcola dove diede fuoco ai pagliai per vendicarsi del Fornaro, peraltro già ripetutamente vessato, che si era rallegrato per la fucilazione dei briganti catturati a Belmonte.
Insomma era un uomo allo sbando…aveva perso ormai la carica propulsiva della rivolta politica e contadina….era rimasto solo.
Forse per questo con gli altri scampati al massacro di Belmonte si uni alla banda di Coppolone di Montescaglioso e con questi il 30 agosto del 1863 uccise il padre cappuccino Nicola Vinci, anch’esso di Montescaglioso, presso la masseria Vallenza Blasi perché ritenuto un informatore delle forze dell’ordine.
Nello stesso giorno veniva approvata la Legge Pica che introduceva il reato di brigantaggio.
Di questo assassinio abbiamo una ricostruzione orale fornita a Pasquale Mancini da Angelo di Gregorio, all’epoca dei fatti dodicenne e figlio del colono di Masseria Vallenza.
Queste sono le sue parole: “una domenica, in su le otto, dopo essere il Vinci giunto da poco giunto da Massafra e si recava per la celebrazione della santa messa, seguito dal colono De Gregorio Giuseppe, alla vicina cappella gli si fecero avanti 6 o 7 uomini di fiero aspetto, coperti di armi…tra i quali vi era il noto brigante Pizzichicchio, Coppolone ed il Sergente di Gioia dicendogli in modo brusco: “Padre, hai celebrato?”. Alla risposta data dal Vinci che andava subito a celebrare gli fu soggiunto in coro: “ non sei più a tempo, perché siamo stati assicurati di essere spione e per non poterci più nuocere è uopo subito ammazzarti”. Il povero padre cerco di fuggire, ma il più vicino di quei manigoldi lo afferro per la cintola; alla violenta scossa il cordone che gli cingeva i fianchi si spezzo, padre Nicola che era caduto, subito si alzo; i masnadieri gli si fecero immediatamente addosso, egli provo a schermirsi menando calci e mordendo chi gli si accostava, ma uno di quei furfanti dicendo “più ti dobbiamo tenere innanzi?” gli sparo un colpo di fucile, mentre altre due schioppettate lo colpivano alla testa. Padre Vinci cadde così morto, presso il pozzo della masseria, mentre il suo cadavere non veniva risparmiato dagli insulti e dalle pedate degli assassini”
In questa testimonianza è evidente l’errore relativo al sergente di Gioia, in quanto il Romano era stato ammazzato dieci mesi prima, cioè il 5 gennaio. In questo delitto è presente Giovanni Console di Crispiano, brigante. Citato negli atti per la prima volta.
Pizzichicchio continua ad Imperversare nel crispianese… il 27 settembre a Fogliano in compagnia di Coppolone ruba oggetti per un valore di 144 lire….i giorni successivi a Cigliano tentano di estorcere 500 piastre a Antonio Natale…..il 21 novembre venne intercettato a Pilano dalla tredicesima compagnia del 24 reggimento di fanteria agli ordini del capitano Rossi, in questa occasione viene arrestato il brigante gioiese Giovanni Cuscito detto Annella …..il 6 dicembre irrompe alla masseria Scorace dove ruba la cena al massaro.
Il 4 gennaio del 1864 nel corso di una perlustrazione i militi della guardia nazionale di Martina e due carabinieri raggiunsero masseria Ruggeruddo che risultava disabitata e s’accorsero che nel focolare c’era della cenere ancora calda nella quale brillava un anello d’oro…..insospettiti guardarono nella canna fumaria e vi rinvennero un uomo cui intimarono di abbandonare quel nascondiglio.
Era Pizzichicchio.
La tradizione popolare vuole che prima di consegnarsi si fece giurare sulla Madonna del Carmine che non sarebbe stato passato immediatamente per le armi. Il brigante aveva con se un fucile a due canne con cartucciera, un orologio d’oro con catena, una spilla da donna, vari anelli d’oro la tabacchiera di padre Mariano da Erchie 4 piastre ed un portafogli.
Fu arrestato e condotto a Potenza dove fu processato ed ucciso il 28 novembre 1864. Aveva 27 anni.
Dall’esame degli atti del processo viene la cosa che maggiormente colpisce è la giovane età di tutti i protagonisti, possiamo serenamente dire, se si tiene conto delle migliaia e migliaia di renitenti al servizio di leva che in quel periodo si diedero alla macchia diventando briganti per forza….che il primo impatto dei giovani meridionali con il regno d’Italia fu traumatico e che una intera generazione si perse senza nemmeno comprendere la portata dell’unita nazionale, che comunque tradì le aspettative della gente del Sud.
Fra questi giovani tanti contadini della povera Crispiano furono sconfitti in partenza perché schierati dal lato del perdente….i veri vincitori furono i gattopardeschi Galantuomini di Martina Franca, già convinti borbonici e proprietari di floride masserie che prevaricarono politicamente persino gli idealisti liberali della vigilia e che nella difesa dei loro antichi privilegi continuarono imperterriti a occupare i demani e a prepararsi ad acquistare i beni ecclesiastici, malgrado la scomunica da parte della chiesa.
Questa era solo la storia crispianese….ma è replicabile ad ogni angolo del Regno delle due Sicilie.
Ora la vera domanda è…..dopo un secolo e mezzo di dualismi economici, ritardi sociali e culturali, cattiva amministrazione; dopo un secolo e mezzo di questione meridionale: si poteva fare diversamente?
Prima ancora dei risultati, la storia di briganti, soldati, contadini, preti e civili - tutti morti ammazzati - offre una risposta scontata.
Si doveva sostituire uno Stato assente, paternalistico ma dalla forte carica simbolica, con un altro Stato che non apparisse da subito la totale negazione del precedente, dai modi impositivi e ostili.
L'errore è stato nell'incapacità di creare il nuovo invece di limitarsi a distruggere il vecchio; nell'incapacità - o cattiva volontà - di cercare un rimedio a quelle carenze, perfino a quelle patologie, che la società meridionale ereditava dalla sua storia complessa, dalla mentalità dei suoi regnanti, dalle strutture della sua vita associata, dai retaggi di un'organizzazione politica oppressiva, dalla resistenza dei suoi vincoli economici e sociali.
Nulla venne fatto per favorire la nascita di una borghesia imprenditoriale; per creare un ceto dirigente in grado di autogovernarsi senza perpetuare antiche logiche clientelari e trasformistiche; per modernizzare e sviluppare l'economia in senso capitalistico come nel resto d'Europa; per impiegare capitali allo scopo di costruire infrastrutture, aprire banche e mercati.
Se è innegabile che il Sud abbia infine tratto vantaggi dall'Unità, tutti i dati statistici - dall'occupazione alla salute - dimostrano che la subalternità è stata mantenuta. Ne cito solo uno, perché recentissimo (luglio 2020): da un'indagine dell'Unione delle Camere di commercio italiane risulta che in Meridione c'è il 38 per cento di infrastrutture - strade, ferrovie, aeroporti, ospedali - in meno che al Nord.
E che da dieci anni il divario tende a accentuarsi, piuttosto che a diminuire. Dopo la repressione, la convinzione che il Sud fosse un malato da guarire ha comportato l'uso dell'assistenza filantropica, dell'elemosina benefattrice, del sostegno che si riserva ai diseredati, Gli stessi politici meridionali hanno sempre rinnovato l'immagine di una terra bisognosa di prebende e finanziamenti a pioggia: un’impostazione che ha garantito più il mantenimento di vantaggi a ristrette élite di privilegiati che non il miglioramento del tessuto sociale, politico, economico e culturale del Mezzogiorno.
Tutte queste riflessioni sono ancora più pressanti adesso che si dovranno utilizzare i fondi del Recovery plan, in cui la Comunità Europea ha stabilito che il 70 per cento deve essere destinato al Sud ed il Governo Draghi per bocca del ministro del Sud Mara Carfagna ne destina meno del 40 %.
Credo ci sia la necessità di riprendere lo spirito ribelle dei briganti.
Chiudo leggendovi quelli che secondo me furono i pensieri di Domenico Tursi, nonno di Jannete a belledelmondo, mentre spronava il suo cavallo prima di saltare dalla Pentima del Brigate inseguito dai piemontesi.
Sono le parole che probabilmente avrebbe voluto rivolgere a sua moglie incinta di un figlio che non avrebbe conosciuto mai…
“Non credere più a niente, Ninetta mia, che tu non possa stringere al petto, non pregare nessuno. Credi in Noi, prega per il nostro coraggio tremante e per la nostra forza esausta, stanchi ma non vinti in questo novembre del cuore. Sorridi Ninè, sorridi sempre, perché torneranno le notti di maggio e sarete felici… sarai felice stringendolo sul cuore dopo averlo cullato nel ventre.
Parlagli di me, nei giorni di vento quando il grecale mi lascerà carezzare i vostri capelli e raccontagli di tutto quello che abbiamo provato a sognare senza chiudere gli occhi.
Insegnagli a sognarlo più forte perché chi sogna non dorme mai.
Parlagli di tutte le risposte cercate che non siamo riusciti a trovare. Perché non sapevamo, non potevamo sapere: non abbiamo avuto maestri, non abbiamo conosciuto memoria.
Parlagli Ninetta mia, anche per me, raccontagli di tutto quello che avremmo voluto essere e che non siamo stati.
Parlagli, perché instilleranno in Lui la vergogna di appartenerci.
Gli diranno che siamo la polvere che piaga la ferita, la mosca posata che disonora il pane, il grumo di sale tra i denti, Il cane preso a calci sul sagrato, la mano nell’ombra che prende, la ruota spaccata che precipita il carro nel fosso, la grandine all’alba della vendemmia, la brace crepitata dal fuoco, la saliva sputata che offende il volto, l’offesa del silenzio dopo il saluto.
Diglielo che tutto questo non siamo mai stati.
Digli che suo padre è morto da brigante per non morire ogni giorno di vergognata rabbia, perché era l’unica ribellione possibile.
Digli che non volevamo niente di più che essere felici, che anche solo per un attimo, abbiamo creduto di poter avere sulla nostra tavola imbandita nel giorno di festa, il pane e le rose.
«In genere, si può dire che i significati radunati dal luogo costituiscono il suo Genius Loci.»
(Christian Norberg-Schulz)
Il Genius loci è un'entità naturale e soprannaturale legata a un luogo e oggetto di culto nella religione romana. Tale associazione tra Genio e luogo fisico si originò forse dall'assimilazione del Genio con i Lari a partire dall'età augustea.
Come nel film “Il Gladiatore” il comandante Massimo Decimo Meridio, la sera prima della battaglia confida i suoi pensieri più profondi al fuoco che illumina i lari….le statuette del figlio e della moglie trucidate dall’imperatore Commodo, figlio del saggio ed avveduto Marco Aurelio.
“Madre mia indicami il volere degli Dei per il mio futuro…….padre mio vigila su mia moglie e su mio figlio con rapida spada e digli che vivo solo per poterli riabbracciare….”
Per comprendere Crispiano bisogna osservare questa foto in religioso silenzio ed immaginare che quel fuoco sia vero……e che tu sia seduto li….che ne percepisca il calore e l’odore come l’unica carezza possibile alla tua vita….. per comprendere la sofferenza che restava muta di fronte a quel fuoco, la povertà, la fame, l’ingiustizia, la fatica, il sudore.
Il Brigantaggio è un dolore a cui ti avvicini lentamente e che sai che non ti abbandonerà più.
Il brigantaggio è un altare laico di fronte al quale inginocchiarsi lentamente ascoltando i racconti fatti ancora sottovoce, come per non farsi sentire, quasi ci fosse ancora la necessità di mantenere segreti, racconti che lentamente scavano le anime, fino a farti sentire parte di quella storia; fino farti sentire figlio di quel dolore.
Il brigantaggio è uno stigma.
Non ci sono buoni e cattivi, non è possibile una semplificazione perché non si può spiegare o comprendere la disperazione. La puoi intuire.
Fino a sentire nella propria carne tracce di quel dolore.
Fino a scoprire di essere ancora quel dolore.
E non è un iperbole letteraria.
La posizione strategica di Crispiano è evidente osservando la cartina geografica…si trova al centro di un immenso polmone verde che si apre ad arco sopra il suo abitato nel versante Nord.
Questo bosco infinito parte da Matera…si raccorda alla selva di San Vito di Laterza…scivola nella gravina che va a sua volta a raccordarsi alla gravina di Castellaneta, scende fino a San Basilio sotto Mottola e lento raggiunge il bosco di Sant’Antuono ai piedi di Gioia del Colle, prosegue fino al bosco di Sant’Elia fino a congiungersi con il bosco delle pianelle che si estende fino a lambire Grottaglie. Ecco lo scenario, il teatro verde del grande brigantaggio….praticamente potevi muoverti dalla Basilicata al centro del Salento senza essere visto ed il baricentro naturale di questo immenso territorio era Crispiano; sicuro in quanto borgo nascente, e quindi nel suo territorio non prevedeva la presenza di caserme...ne dei regi carabinieri ne della guardia nazionale
Ma la certezza che Crispiano stesse per diventare il cuore pulsante del grande brigantaggio la si ha la sera del 13 maggio 1862 allorquando i carabinieri di stazione allocati presso la Masseria Orimini avvistarono 23 briganti a Cavallo sulla via nuova Martina-Taranto diretti verso Crispiano.
Erano gli uomini del Sergente Romano che si muovevano per fissare il loro quartier generale nel bosco delle Pianelle, cosa che realizzano occupando una grotta raggiungibile solo dopo un lungo cammino nella gravina del Vuolo. Da questo punto…da questa grotta…cominciano a coordinare tutti i briganti della zona chiamandoli a raccolta per tentare una cooperazione.
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