Nico Santoro |
INTRODUZIONE di
Silvia LADDOMADA
Questa sera avremo il piacere di ascoltare un nostro caro amico, Nico Santoro, che ringrazio per la disponibilità a collaborare con l'Università del Tempo Libero e del sapere Minerva e sono sicura che il suo modo di raccontare, che io conosco bene, sarà certamente ammaliante anche per tutti voi. Ci parlerà della nostra terra del Sud, delle sue tappe importanti, delle vicende che hanno accompagnato la sua storia. Avvenimenti che hanno caratterizzato la vita del nostro paese, che ci faranno riflettere sui valori della nostra comunità. Attraverso il racconto possiamo ritrovare le radici del nostro presente. Ascoltare un racconto, prima trasmesso solo oralmente, è sempre stato un momento di intrattenimento, a cui si assisteva con sacro rispetto. Era un'occasione per ampliare il proprio bagaglio di conoscenze. Non era facile avere giornali, libri, nè c'era la radio o la TV. La voce del narratore trasformava magicamente quelle parole in immagini, dando vita a personaggi rimasti poi impressi nella mente.
Se andiamo indietro nel tempo, il primo tentativo di raccontare qualcosa agli uomini è stato attraverso il mito, il primo tipo di narrazione comparso sulla terra. Il mito è nato prima del pensiero filosofico e scientifico. Esso può essere definito come il più antico tentativo di chiarire il mondo attraverso un racconto, magari con l'aiuto della fantasia , dell'immaginazione. Il mito riflette l'esigenza di rispondere alle aspettative, agli interrogativi dell'uomo, relativi alle origini dell'universo, dell'uomo, al senso della vita e della morte,alla natura dei sentimenti. (Iliade, Odissea, tutta la mitologia greca, ma anche di altri popoli).
C'è poi la "leggenda". Un tipo di racconto antico che fa parte del patrimonio culturale di un popolo, appartiene alla sua tradizione orale e mescola elementi reali ed elementi di meraviglia. Tratta argomenti religiosi o eroici, nei quali i fatti, le persone sono immaginari, ma desunti dalla realtà, solo che sono soggetti ad alterazioni fantastiche. (la leggenda di Romolo e Remo, l'epopea di Garibaldi, le tante storie dei Santi).
Oppure è un racconto che si diffonde rapidamente, ambientato in luoghi comuni, come una città, una strada. Riguarda fatti accaduti ma riferiti in maniera incontrollabile. Da un inizio banale, o tragico, si costruisce una storia, che è credibile da chi la racconta e da chi l'ascolta, che a sua volta la porta in giro - la leggenda metropolitana.
Un altro documento narrativo è la "fiaba", in cui il magico, lo straordinario sono parte essenziale. La fiaba ci introduce in un mondo popolato da fate, maghi, streghe, principi e personaggi misteriosi, non mancano oggetti magici, come anelli o specchi. Un mondo senza tempo. Cominciano con "C'era una volta" e finiscono con "Vissero felici e contenti". (Biancaneve, Cenerentola, La bella addormentata).
Poi c'è la "favola", un racconto fantastico con intento educativo. I protagonisti sono animali, o anche piante, che parlano e si comportano come persone, che simboleggiano vizi e virtù, pregi e difetti degli uomini. Alla fine c'è sempre una morale, un insegnamento. (Le favole di Fedro, Esopo, Perrault, Rodari).
Passiamo alla "novella". Una narrazione semplice: presenta i momenti essenziali di una vicenda, relativa a una realtà vissuta dall'Autore, o verosimile. (Le novelle di Verga, Pirandello, o anche Boccaccio col Decameron).
Infine il "racconto". Un componimento narrativo ricco di episodi realistici, vicende verosimili, probabili. Spesso descrive situazioni in modo fedele alla realtà, offre uno spaccato di vita quotidiana, di vita cittadina. L'ascolto lega ai fatti e alle persone che ne sono state protagoniste.
(Silvia)
Silvia Laddomada |
Nico Santoro on line |
da quella antropologia del vincente che devasta il nostro quotidiano, che devasta i nostri rapporti, anche i più intimi.
Anche per questo sono grato a quella foto e al mio paese, perché mi ha
insegnato che esiste una comunanza di destino dal quale non possiamo prescindere, che la tua felicità è
possibile solo se si realizza anche per gli altri intorno a te. Che il
tuo paese è un luogo dove puoi fallire e ricominciare senza che il tuo
valore e la tua dignità ne siano intaccati. Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al
valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne
scaturisce.
A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo.
In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori
falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che
scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del
successo, dell’apparire, del diventare.
A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde.
E’ un esercizio che mi riesce bene.
E mi riconcilia con il mio "sacro poco."
Questo è il mio paese, infatti quel fuoco acceso e quel paiolo parlano di un sacro poco, di frutti della terra intenti a cucinarsi. Chiudendo gli occhi ne sentiamo ancora l’odore, di quella foto potremmo recuperarne anche una memoria olfattiva…odore di fagioli…o di cavolo…..o odore di bucato …della liscivia…di una vita intera che girava intorno a quel fuoco. Al focolare.
E quell’universo, come tutto d’altronde dalle nostre parti, nel nostro finto patriarcato, era dato in custodia alle nostre donne. Che avevano cura di tutto.
Avevano cura che non si spegnesse niente di quanto loro affidato: dagli amori, alle amicizie, dalla cucina alle piante di basilico.
Avevano cura che il fuoco non si spegnesse mai.
Qualsiasi fuoco.
Romano Gualdi con la moglie Lilia Biondi |
Intorno a quel paiolo girava la vita, le vite. Era un centro di gravità. Ecco la genialità della foto di Romano Gualdi. Intorno a quel fuoco si ascoltavano anche cose magiche, Crispiano ha una piccola storia, ma è come un sogno: sull'altipiano delle Murge narra delle storie, poi scompare, poi ritorna. C' è una Crispiano magno greca, c'è una Crispiano romana, bizantina dei monaci basiliani. Crispiano che costantemente appare, racconta delle storie e poi scompare, lasciando il suo universo di umiltà. Perchè Crispiano è sempre stata fatta dagli ultimi, ed è una di quelle cose che sempre mi ha appassionato. Una delle frasi di più grande generosità che io abbia mai ascoltato, la pronunciava la mia bisnonna, “Annette a belledelmonde”. Quando scopriva che una sua vicina era in difficoltà, diceva:“Uagliò va pigghie u’ fuche e purtele”, dove u fuche era la paletta con delle braci accompagnata sempre da altro.
La generosità era un esercizio quotidiano praticato da ognuno, perché avevano ben compreso che il bisogno, come il desiderio, si manifesta di fronte ad una mancanza. Non davano nulla per scontato, avevano cura di tutto ciò che la vita aveva affidato loro. Affetti compresi.
Insomma il nostro era un patriarcato ad interim….in attesa che arrivasse una donna.
Una delle nostre donne. Una donna del Sud!
La pelle, gli occhi, il cuore delle donne del Sud! Le voci roche, i gesti felini, la protezione animale della famiglia, l’ira nuda, primitiva, la vita agra, l’alibi della speranza, le rivolte disarmate contro il resto di niente.
Si dice che le donne del Sud siano tutte donne, veramente donne e basta. Desolate e coraggiose, nel portare il peso della loro esistenza con apparente levità.
Curavano i loro uomini, provvedevano giorno e notte alle loro passioni e ai loro bisogni feroci e infantili, amministravano famiglie affamate e ignoranti.
Erano queste donne, regine del luogo che abitavano, fosse grotta o tugurio o casa, a fare dei meridionali un popolo.
La loro fatica e la loro sofferenza intrecciavano, in un ordito di sollecitudine e di temperamento, ciò che altrimenti sarebbe stato un insieme di vite perdute.
Erano donne fiere, donne dolci, donne indulgenti e pietose. Donne docili, che facevano dell’amore uno spettacolo vivo e vibrante. Donne che aravano i campi, lavavano i panni, coprivano mancanze.
Donne forti e pazienti che seguivano ovunque i loro uomini. Donne disperatamente razionali che spaccavano il soldo per procurarsi il pane.
Donne di precoce senilità, donne minate, che rammendavano al sole poverissimi stracci e cardavano al sole dei marciapiedi la lana appena tosata alle greggi per riempire i loro materassi.
Donne intrepide, dagli sguardi sfrontati, con lividi sui seni per le carezze violente di uomini ubriachi.
Donne che con il loro afrore irradiavano vertigini carnali. Donne che col sorriso promanavano una luce liquida. Donne defraudate dalla bellezza che scivolava via da un giorno all’altro come la pelle di un serpente nel periodo della muta. Donne malinconiche che sapevano tendere le corde del cuore e parlare anche con i loro silenzi.
Donne del Sud, belle come orchidee selvagge nate in gravina, come la Serapia orientalis, l’orchidea crispianese. Donne per cui la bellezza era un pericolo da nascondere, perché poteva essere motivo di dolore o di affronto.
Queste erano le nostre donne.
“Uagliò va pigghie u’ fuche e purtele”….diceva Jannette a belledelmonde….oltretutto questo comando, a me bambino, dava un senso di onnipotenza assoluto. In quel momento cessavo di essere “u piccinne” e diventavo grande…mi veniva riconosciuta una responsabilità…anzi per me era la responsabilità più grande. In quel momento diventavo Prometeo, il titano che ruba il fuoco agli Dei per donarlo agli uomini.
Prometeo (in greco: colui che riflette prima) che aveva un fratello Epimeteo (colui che riflette dopo). Noi, sempre sospesi tra Prometeo e Epimeteo, tra colui che riflette prima e colui che riflette dopo. Sono le nostre due anime in eterno conflitto, tra ragionamento e irruenza, tra la calma e la tempesta, tra demonio e santità.
Proprio come le due anime che albergano in ogni essere umano, a cui resta la scelta di chi essere.
“Viet u pruvvedote” ….ripeteva sempre la mia bisnonna…chi altro era se non Prometeo ovvero “colui che riflette prima”.
D'altronde, come ripeto sempre a mio figlio noi siamo Magna Grecia; la Grecia è a 300 km da qui, Milano a 1000.
Mentre da Amsterdam la distanza è di circa 2600 km. ( e che c’entra?)
Il prof. Gert Burgers in visita nel territorio di Crispiano |
Come nella poesia di Kipling. Noi siamo il verso della poesia quando indica la strada della tenacia al proprio figlio, o ” a vedere le cose per le quali hai dato la vita, distrutte. E piegarti a ricostruirle con i tuoi attrezzi ormai logori”. Questo eravamo, e siamo, noi.
L’immagine della Crispiano romana o della Taranto spartana, raccontavo al professore, avrebbe dovuto abbandonare il romanticismo della mitologia e fare i conti con la verità e con il realismo della storia.
Per spiegarci…Taranto affonda le origini della sua nascita
nei retroscena della guerra di Troia. Così come narrata da Omero
nell’Iliade; la guerra di Troia ebbe inizio a causa del rapimento di
Elena, regina di Lacedemone (la futura Sparta), ritenuta la donna più
bella del mondo, per mano di Paride, figlio di Priamo, re di Troia.
Il re Menelao, marito di Elena, per vendicare l’offesa subita, chiede
l’aiuto di Agamennone, suo fratello e re di Micene, e di tutti gli altri
principi achei. La flotta salpa verso Troia dove ha inizio l’assedio. I
Troiani resistono per nove anni, ma nel decimo Troia viene conquistata
grazie all’astuzia di Ulisse, il re di Itaca.
Ora in questi dieci anni di guerra, alcuni si imboscarono evitando il fronte, e siccome le donne erano sole, come dire, si consolarono con gli imboscati. Da questa consolazione nacquero i Partheni, ovvero i figli illegittimi delle donne spartane, che al rientro dalla guerra dei legittimi mariti furono cacciati da Sparta.
Il capo degli scacciati era Falanto, colui che fondò Taranto
Abbastanza lontani dal concetto di guerriero spartano che si sta impossessando ultimamente dei Tarantini, convinti che Leonida da Taranto sia lo stesso Leonida che eroicamente si oppose a Serse alle Termopili.
Tarentum non è rude, Tarentum è sempre molle. La molle Tarentum….proprio come l’interno di una cozza…. La molle Tarentum che con un' impepata uccise pure uno che di relazioni pericolose se ne intendeva. Choderlos de Laclos, generale napoleonico di stanza a Taranto e autore delle famose Liasons dangereus.
Ma, come diceva il Monti…. se Sparta piange Atene non ride.
L’immagine della Crispiano romana, provincia lontana dell’Impero, che affondava la speranza delle sue origini nella gloria militare del cavaliere Crispius…tra l’altro mai esistito, in quanto mai trovata alcuna traccia storica, era sbagliata anch’essa. La realtà, invece, era che le nostre contrade erano state date in dono a Calvia Crispinilla, una delle favorite dell’Imperatore Nerone, così favorita che Tacito nelle sue “Historie “ la identificava come “magistra libidinum Neronis”…non serve traduzione…come dire!!!
Insomma per dirla elegantemente, sia nel capoluogo che nelle terre della provincia discendevamo da grandissimi figli di madri e di padri incerti.
Di solito a questo punto della discussione, con il prof. Burgers dell’Università di Amsterdam, eravamo alla seconda o terza Raffo e più che della storia o dell’archeologia ci chiedevamo di quanto Calvia Crispinilla avesse collaborato nella stesura dell’ars amandi di Ovidio o sull’importanza tattica di Gullit e Van Basten nel Milan di Sacchi.
E comunque in quel 2006, tra una Raffo e l’altra, noi vincemmo il mondiale e l’Olanda arrivò 11°, allenata da Van Basten….e il prof. Burgers tornò mestamente ad Amsterdam.
Queste mie considerazioni, sospese tra il serio ed il faceto, chiaramente erano antecedenti allo studio dettagliato, appassionato ed approfondito, che Giorgio Sonnante ha fatto con il suo libro “Gravine e tratturi, pascoli e campi di Crispiano”, che ogni crispianese dovrebbe avere nella propria biblioteca in cui introduce e, brillantemente attribuisce, l’origine del nome dei nostri luoghi ai toponimi latini e greci.
Saltus liminis (San Simone) dove i saltus nella lingua latina corrispondevano alle radure o ai boschi. Talvolta alle gole o ai passi. Tutte condizioni rispettate dal luogo che sorge ai piedi del dislivello murgiano; è circondato da fitti boschi; si trova sulla strada di Pilano, che geograficamente legava Taranto all’Adriatico.
Callis plana (Crispiano) dove l’aggettivo “plana” deriva da planus pianeggiante ovvero una via erbosa. E della Callis plana e del transito costante di pastori nel nostro territorio, ne parlano Virgilio, Orazio, Svetonio e Tito Livio.
la regola di Aulon (non latina ma greca) nella determinazione dei toponimi
· Fogliano: dal greco Falai Aulon- gravina scura.
· Triglie: dal greco - tria Aulon – confluenza di tre gravine
· Pilano: pyle Aulon –porta della gravina, Pilano costituisce l’accesso a Taranto dai territori posti a Nord
· Cacciagualani: kath aulones – sopra alle gravine. Cacciagualani meriterebbe un racconto a sè. Infatti nelle sue terre sono stati rinvenuti quelli che ormai sono noti in tutto il mondo come gli Ori di Taranto, in realtà sono gli ori di Crispiano, opera di un orafo che tanto ha fatto discutere gli archeologi per la sua abilità, sono suoi anche gli ori della sacerdotessa di Taranto, insomma era un maestro orafo arrivato dalla Grecia orientale e famoso in ambito archeologico, conosciuto con il nome di “maestro di Crispiano”
Sonnante è fantastico! La sua ricerca è acuta, si spinge fino ad arrivare a trovare le tracce della permanenza di Orazio e Virgilio nel territorio di Crispiano, in particolare di Virgilio, quando nelle Georgiche (che chiaramente non ho mai letto, fidandomi ciecamente del prof. Sonnante) individua nel verso “saltus et saturi petito longinqua Tarenti”, dove i saltus e le aree lontane da Taranto corrispondono al territorio compreso tra Crispiano e la Masseria Coppola.
Insomma si dimostra che Virgilio ed Orazio hanno frequentato intensamente il nostro territorio, tanto che, approfondendo il ragionamento si arriva a pensare che Virgilio sia morto a Crispiano e non a Taranto o Brindisi, come sostenuto dalle biografie ufficiali. Solo questo motivo restituisce ai nostri luoghi una magia insospettata.
Sempre gloria al prof. Giorgio Sonnante. Ed al suo libro che vi invito a leggere appassionatamente.
E allora pensi a quella magia e a quello che poteva accadere solo qui e a quanto avesse ragione il prof. Gert Burgers della stupefacente Università di Amsterdam.
In realtà la magia di un luogo la sperimenti nelle parole che usi, quando cambia la prospettiva con cui la osservi.
Quando aumenta la distanza che ti separa da lui.
Ad esempio io la magia della mia terra, di Crispiano, l’ho scoperta nella voce di Marco Polo quando raccontava al Kublai Khan delle città del suo Sterminato Impero. Vivendola!
Chiaramente, pur avendo una certa età, non ero presente a quei dialoghi. Li ho rivissuti attraverso le pagine delle “Città invisibili” di Italo Calvino, in cui il Kublai Khan ormai vecchio e stanco affida a Marco Polo il compito di attraversare il suo impero e di raccontarne le situazioni.
Marco Polo fornisce le descrizioni di queste città parlando degli uomini che l’hanno costruite, della forma delle città stesse, delle relazioni tra la gente che vi abita. Marco Polo le descrive nei più minuziosi dettagli che ad altri appaiono invisibili, creando la loro anima durante il racconto.
- ... Di là l'uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante... - riprendeva a dire Marco, e a enumerare nomi e costumi e commerci d'un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d'arrendersi. Era l'alba quando disse: -Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco.
- Ne resta una di cui non parli mai.
Marco Polo chinò il capo.
- Venezia, - disse il Kan.
Marco sorrise. - E di che altro credevi che ti parlassi?
L'imperatore non batté ciglio. - Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome.
E Polo: - Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia.
- Quando ti chiedo d'altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia.
- Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia.
- Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia così com'è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei.
L'acqua del lago era appena increspata; il riflesso di rame dell'antica reggia dei Sung si frantumava in riverberi scintillanti come foglie che galleggiano.
- Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano, - disse Polo. - Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d'altre città, l'ho già perduta a poco a poco.
Ora, in una translitterazione di natura sentimentale, Marco Polo ero Io e il Kublai Khan erano Diador e Cusimin, a cui raccontavo , sui gradini di via Roma nelle infinite serate estive, delle città in cui ero stato per studio o per ventura.
Diador e Cusimin erano due contadini, che mi avevano onorato del loro affetto e della loro amicizia, io ero appena ventenne e loro avevano superato abbondantemente gli ottant’anni. Erano due querce solide, di quelle che ognuno di noi dovrebbe incontrare per avere contezza di cosa significhi essere Uomini. Con un valore aggiunto: essere uomini del Sud.
Pochissime parole e una moltitudine di fatti. (na parole je picche e ddoje so assè)
Erano entrambi cavalieri di Vittorio Veneto, per aver fatto e superato la prima guerra mondiale, e per essere ritornati a casa ed aver ripreso la vita dal punto esatto in cui l’avevano lasciata. Senza dire una sola parola.
La Torre Cacace in rovina |
E lì comprendevo che il metro di misura del mondo che incontravo, era e restava sempre il mio paese e la mia gente..Tutto era misurato con il ricordo che avevo dentro di me dei luoghi e delle persone conosciute.
Per dirla con Calvino…” D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere” e sarà che io sono sempre stato una persona oltremodo noiosa, ma le mie risposte le ho sempre trovate qui.
Perché in ogni nuovo luogo visitato ritrovavo un passato che non ricordavo di avere e quello che credevo di aver perso o di non possedere più mi aspettava proprio nei passi non ancora percorsi, nelle nuove città che visitavo.
Di Diador e Cusimin ho un ricordo intenso, ho scritto di entrambi, sono stati per me il metro di misura e di valutazione delle persone e di comprensione delle cose. Ricordo un pomeriggio dopo una lunga chiacchierata, mentre andavo via, li avevo lasciati sui gradoni di via Roma, sentii che parlottavano tra di loro di me.
- Je proprie brev u uagnone….
- sine, je nu bune figghie…
- e ce studie?
- …sacce….desce architetture
- E ce je?
- Sacce…
- E c’ha fa?
- Sarà u siniche!
Fortunatamente per tutti, non ho fatto né l’architetto né
il sindaco, ma questo dialogo avveniva alla fine degli anni 80, gli anni
in cui il sindaco del paese era Peppino Scialpi, appunto l’architetto e
pur avendo avuto Crispiano sempre Sindaci molto bravi, bisogna
riconoscere a Peppino Scialpi la grandissima capacità di aver immaginato una
narrazione, ancor prima di una costruzione, dell’immagine di Crispiano. Gloria a lui, lo dico pubblicamente, e faccio ammenda se ho detto qualcosa fuori posto nei suoi confronti.
L’assoluta importanza del racconto.
Peppino Scialpi ha avuto il merito di aver iniziato la scrittura di una storia da raccontare intorno al luogo in cui vivevamo, utilizzando l'arguzia e la lungimiranza di un signore che si chiama Michele Annese, non so se lo conoscete, vorrei farvelo conoscere, che negli anni precedenti aveva organizzato una sezione fotografica, all'interno della Biblioteca comunale e aveva costruito il cuore di quella narrazione, che poi è stata la "terra delle 100 masserie". Michele Annese aveva accumulato quel patrimonio di foto, di memorie, di ricordi, di orgoglio che potevamo avere e che poi fu messo a frutto, grazie alla sua intuizione e a quella di Peppino Scialpi. Così furono valorizzate le nostre masserie.
Il fuoco era il testimone di fronte a cui, nelle sere d’inverno, si saldava un patto tra consanguinei e si trasferiva tra le generazioni il sapere conosciuto.
Addò s facev u cunt, dove avveniva “lu cuntu”….e mentre la storia precedente era ricostruita sui libri, Calvia Crispinilla…Virgilio…Orazio….lì, intorno a quel fuoco, venivamo a conoscenza di storie che in una qualche maniera avevano toccato personalmente chi in quel momento le raccontava.
E capii quanto la sottomissione, lo sfruttamento,
l’ingiustizia… avessero lacerato le carni dei nostri avi, di chi in
epoche passate aveva portato il nostro stesso nome. Mio nonno, il mio bisnonno, di chi era stato prima di me Santoro Domenico, di Michele Annese, di Peppino Scialpi, di Francesco Scarano. C'erano storie che portavamo chiuse nel cuore.
Un racconto mi colpiva in particolare, ed era quello legato alla paura di portare troppo pane con sè quando si andava in campagna per lavorare nei campi. Non potevi portarne più di un chilo.
Chiedevo perché….mi rispondevano “pe campà” ed io – da bambino - pensavo fosse legato al fatto che bisognava mangiare poco per non appesantirsi durante il lavoro.
Invece erano gli effetti della legge sul brigantaggio, la famigerata legge Pica, che permetteva la immediata esecuzione di tutti i sospettati di brigantaggio o di connivenza con i briganti.
Rimase in vigore dal 1863 al 1865 e permise l’uccisione di oltre 14.000 briganti o presunti tali, nelle regioni meridionali.
La questione agraria e la questione meridionale si sovrapposero drammaticamente in quegli anni, ed il racconto che ascoltavo era quello ascoltato direttamente dai figli di chi lo aveva vissuto.
La lettura dei “Fuochi del Basento” di Raffaele Nigro, successivamente, svelò con precisione quanto fosse accaduto nel nostro Sud… ai briganti. Che non erano altro che uomini che chiedevano di avere la terra, come atto di giustizia sociale.
Leggo la deposizione di un brigante prima della esecuzione sommaria, rimasta agli atti: “perché sono troppo pochi quelli che possiedono la terra con i pascoli, i seminativi, i boschi, i fiumi. E quando ncappi la mala annata la prima, la seconda, la terza volta e tieni solo un piatto di cicerchia per far mangiare otto persone, e non trovi manco le ciucredde perchè il sole ha asc-cuato tutto, allora…tra vivere in ginocchio e morire di fame…..e morire in piedi lottando…è meglio morire in piedi”.
Con nelle orecchie queste parole , che mi ero appuntato dolorosamente su un foglietto, uscii di casa e a piedi e lentamente raggiunsi la piana di Belmonte e guardai quella terra a lungo.
Noi credevamo; ma non era quella l’Italia sperata, il sogno raccontato. Anche questo era un furto.
E allora, tra morire di fame e morire ammazzati, cambia poco; o cambia tutto.
Allora sia bosco, sia notte, sia paura, sia giorno, sia fuga, sia vento, sia pioggia, sia grotta, sia neve, sia freddo, sia fame, sia piemontese e sia morte. Sia Belmonte.
“Jomme se nasce, brigante se more”; era il percorso obbligato se - come vela - volevi gonfiarti dei venti di speranza e libertà che cominciavano a soffiare. In tanti lo colsero, pochi ebbero il coraggio di dirlo. E l’eco dei loro nomi si spense nel segreto, custodito dall’ombra dei lecci e dei fragni, del bosco delle Pianelle; un mistero verde in cui sparire, rifugio nei territori tra Gioia del Colle, Noci, Martina Franca, Ceglie Messapico, Grottaglie e, soprattutto, Crispiano. Teatro di briganti dai nomi familiari: Sergente Romano, Ninco Nanco, Crapariello, Pizzichicchio.
Dal 1831 al 31 dicembre 1865 (termine di efficacia della legge Pica) la popolazione crispianese passò da 871 anime ad oltre 2000; troppe per un piccolo paese, affacciato sul mare e ai piedi di un bosco.
Alcuni, con il loro fardello di miseria, arrivarono dai paesi vicini; altri abbandonate le greggi presero la vanga ed eressero confini di pietra; tanti, abbandonato il bosco, e nascosto il brigante nel cuore, prestarono le loro braccia alla terra. Tutti insieme ripopolarono le grotte del Vallone. Tutti insieme, scambiandosi amore e miseria, ci fecero nascere.
Siamo i figli di quegl’ultimi, questa è la traccia del nostro essere. Abbracciando i nostri vecchi e chiudendo gli occhi - tra quelle braccia - ci riprenderemo il caldo fuoco del bivacco e il profumo del bosco; l’odore acre del sole e il freddo tagliente della notte, la pazienza del pastore e la saggezza del contadino. E, ultimo, impercettibile, lontano, il battito lento di un cuore.
Brigante. Nascosto. Pronto.
Ecco, questo era quello che pensavo di fronte alla piana di Belmonte.
Ed anche in quel momento, come nel passato, erano sempre gli ultimi a dare vita a Crispiano.
Era il destino di un qualsiasi paese del Sud che la povera gente, gli ultimi, fossero motore di ogni possibile miglioramento. Anche perché i governi italiani che seguirono all’Unità d’Italia, per avere i voti del Sud concessero i pieni poteri alla piccola borghesia, delinquente e putrefatta, spiantata, imbestialita, cacciatrice d’impieghi e di favori personali, ostile a qualunque iniziativa potesse condurre a una vita meno ignobile e più umana.”
Che poi è la condizione di ogni Sud. Non c’è un Sud felice in nessuna latitudine planetaria.
Il Sud è categoria sensibile dello spirito, è scintilla primaria del pensiero e della poesia.
E’ invenzione di dèi, afosi abitanti la controra, punto di confluenza di sensazioni, terra del lutto senza riscatto. E’ cognizione del dolore.
Il Sud è rupe, serra, melma argillosa, chianca sbrecciata, murgia ferrigna da spietrare.
Il Sud è calanco, dolina, lama, gravina; è muriccia di pietre silicee, accanita divisione di campi, schiena spezzata, rumore di zappa, solco di terra; è ulivo laminato, vite torva, fico crepitante, mora selvaggia, grano bruciato. Sud è ferita aperta, rimarginata , riaperta.
Come la Macondo del colonnello Aureliano Buendia, in cui gli abitanti cercano in ogni modo di riscattarsi dall’isolamento, di avere relazioni con il resto del mondo, l’altrove. Ma dall’universo che li circonda arrivano malattie, domini, sfruttamenti, sconvolgimenti e uomini e donne che nulla hanno a che vedere con gli abitanti locali e che stravolgeranno la storia della cittadina.
Ogni Sud è antico preludio di rughe, dove si torna sempre, come si torna sempre all’amore.
Ed un amore che mi ha sempre affascinato si è consumato alle spalle della torre di Cacace, in un villino dei primi del 900 , nascosto da una folta vegetazione. La casa poggiava sul limitare dell’altipiano che si affaccia sul nascere della lama, proprio nel punto in cui il vallone si raccorda alla gravina di Triglie.
Da quel punto la visione del paesaggio riconcilia con l’illusione di Dio, scorgi Taranto e poi la costa che continua in un abbraccio infinito fino alle coste della Calabria. Quello era il panorama che si gustava sedendosi nel giardino all’ombra dei limoni.
Alda Merini |
Era il 1984. Poi partii e non la rividi più.
Anni dopo mi fecero leggere dei versi che aveva scritto seduta in quel giardino:
«Non vedrò mai Taranto bella/ non vedrò mai le betulle/ né la foresta marina;/ l’onda è pietrificata/ e le piovre mi pulsano negli occhi./ Sei venuto tu, amore mio,/ in una insenatura di fiume,/ hai fermato il mio corso/ e non vedrò mai Taranto azzurra,/ e il Mare Ionio suonerà le mie esequie».
Aveva ragione il prof. Burgers….alcune cose possono accadere solo qui. Come io che entravo nel tabacchino ed aspettavo che Ninidd finisse di incartare la stecca di MS ad Alda Merini, che ci sorridesse ed andasse via.
Quel villino mezzo diroccato adesso è in vendita, continua a
guardare la costa che si allunga come in un abbraccio, all'ombra della
torre di Cacace, che resiste al suo prossimo crollo, là al suo fianco. E' un dolore, però è Crispiano.
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”
Bisogna raccontare di Crispiano….per salvarla.
Bisogna raccontare. Per salvarci.
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