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Nico Santoro
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RELATORE: Nico SANTOROINTRODUZIONE di
Silvia LADDOMADA
Questa sera avremo il piacere di ascoltare un nostro caro amico, Nico Santoro, che ringrazio per la disponibilità a collaborare con l'Università del Tempo Libero e del sapere Minerva e sono sicura che il suo modo di raccontare, che io conosco bene, sarà certamente ammaliante anche per tutti voi. Ci parlerà della nostra terra del Sud, delle sue tappe importanti, delle vicende che hanno accompagnato la sua storia. Avvenimenti che hanno caratterizzato la vita del nostro paese, che ci faranno riflettere sui valori della nostra comunità. Attraverso il racconto possiamo ritrovare le radici del nostro presente. Ascoltare un racconto, prima trasmesso solo oralmente, è sempre stato un momento di intrattenimento, a cui si assisteva con sacro rispetto. Era un'occasione per ampliare il proprio bagaglio di conoscenze. Non era facile avere giornali, libri, nè c'era la radio o la TV. La voce del narratore trasformava magicamente quelle parole in immagini, dando vita a personaggi rimasti poi impressi nella mente.
Se andiamo indietro nel tempo, il primo tentativo di raccontare qualcosa agli uomini è stato attraverso il mito, il primo tipo di narrazione comparso sulla terra. Il mito è nato prima del pensiero filosofico e scientifico. Esso può essere definito come il più antico tentativo di chiarire il mondo attraverso un racconto, magari con l'aiuto della fantasia , dell'immaginazione. Il mito riflette l'esigenza di rispondere alle aspettative, agli interrogativi dell'uomo, relativi alle origini dell'universo, dell'uomo, al senso della vita e della morte,alla natura dei sentimenti. (Iliade, Odissea, tutta la mitologia greca, ma anche di altri popoli).
C'è poi la "leggenda". Un tipo di racconto antico che fa parte del patrimonio culturale di un popolo, appartiene alla sua tradizione orale e mescola elementi reali ed elementi di meraviglia. Tratta argomenti religiosi o eroici, nei quali i fatti, le persone sono immaginari, ma desunti dalla realtà, solo che sono soggetti ad alterazioni fantastiche. (la leggenda di Romolo e Remo, l'epopea di Garibaldi, le tante storie dei Santi).
Oppure è un racconto che si diffonde rapidamente, ambientato in luoghi comuni, come una città, una strada. Riguarda fatti accaduti ma riferiti in maniera incontrollabile. Da un inizio banale, o tragico, si costruisce una storia, che è credibile da chi la racconta e da chi l'ascolta, che a sua volta la porta in giro - la leggenda metropolitana.
Un altro documento narrativo è la "fiaba", in cui il magico, lo straordinario sono parte essenziale. La fiaba ci introduce in un mondo popolato da fate, maghi, streghe, principi e personaggi misteriosi, non mancano oggetti magici, come anelli o specchi. Un mondo senza tempo. Cominciano con "C'era una volta" e finiscono con "Vissero felici e contenti". (Biancaneve, Cenerentola, La bella addormentata).
Poi c'è la "favola", un racconto fantastico con intento educativo. I protagonisti sono animali, o anche piante, che parlano e si comportano come persone, che simboleggiano vizi e virtù, pregi e difetti degli uomini. Alla fine c'è sempre una morale, un insegnamento. (Le favole di Fedro, Esopo, Perrault, Rodari).
Passiamo alla "novella". Una narrazione semplice: presenta i momenti essenziali di una vicenda, relativa a una realtà vissuta dall'Autore, o verosimile. (Le novelle di Verga, Pirandello, o anche Boccaccio col Decameron).
Infine il "racconto". Un componimento narrativo ricco di episodi realistici, vicende verosimili, probabili. Spesso descrive situazioni in modo fedele alla realtà, offre uno spaccato di vita quotidiana, di vita cittadina. L'ascolto lega ai fatti e alle persone che ne sono state protagoniste.
(Silvia)
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Silvia Laddomada
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"E' un piacere per me raccontare, trasformare Crispiano, che è un nostro grande amore, in un racconto. Il "Catalogo delle 100 masserie" è un libro storico. Da qui è cominciata una narrazione del nostro paese, dalla foto sulla copertina, fatta da Romano Gualdi. In questi giorni, come abbiamo ricordato tutti, è venuto a mancare. Romano, a cui noi in una qualche maniera siamo e dobbiamo essere intimamente e culturalmente grati, ma anche emotivamente grati, perché con quella foto ha aperto una nuova maniera di vedere, di intendere la nostra terra, perché una terra esiste, un paese esiste, solo se ne costruisce una narrazione. Cioè se il paese in cui vivi diventa il teatro, il palcoscenico di uomini e di storie. La foto che campeggia sul libro delle Cento masserie è quella che conosciamo tutti: un fuoco acceso e sopra un paiolo a cuocere qualcosa. E' un indizio neurovisivo, come lo chiamerebbe Ceccarelli dalle Colonne del Venerdì di Repubblica, perché parla di un mondo, di un universo, il nostro. Quella fotografia ferma magicamente con quei colori, con quei chiaroscuri il nostro mondo, che era quello di una società contadina, che del suo "sacro poco", come lo chiamava Pasolini, ne aveva fatto la propria bandiera. Una bandiera fatta con i colori di quei valori semplici che sono il motore della società contadina, i valori dell'educazione, del rispetto, della dignità, dell'onestà, della pulizia morale. Quella fotografia racconta anche il valore della sconfitta, che nel mondo contadino è un valore, che faceva parte delle nostra vita. Piantare un campo di grano e lasciare alla sorte la possibilità di condannare alla fame con una grandinata, implicitamente nascondeva l'accettazione della sconfitta. Quindi era un evento sempre possibile, era un mondo infinitamente lontano
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Nico Santoro on line
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da quella antropologia del
vincente che devasta il nostro quotidiano, che devasta i nostri
rapporti, anche i più intimi.
Anche per questo sono grato a quella foto e al mio paese, perché mi ha
insegnato che esiste una comunanza di destino dal quale non possiamo prescindere, che la tua felicità è
possibile solo se si realizza anche per gli altri intorno a te. Che il
tuo paese è un luogo dove puoi fallire e ricominciare senza che il tuo
valore e la tua dignità ne siano intaccati. Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al
valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne
scaturisce.
A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo.
In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori
falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che
scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del
successo, dell’apparire, del diventare.
A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde.
E’ un esercizio che mi riesce bene.
E mi riconcilia con il mio "sacro poco."
Questo è il mio paese, infatti quel fuoco acceso e quel
paiolo parlano di un sacro poco, di frutti della terra intenti a
cucinarsi. Chiudendo gli occhi ne sentiamo ancora l’odore, di
quella foto potremmo recuperarne anche una memoria olfattiva…odore di
fagioli…o di cavolo…..o odore di bucato …della liscivia…di una
vita intera che girava intorno a quel fuoco. Al focolare.
E quell’universo, come tutto d’altronde dalle nostre parti,
nel nostro finto patriarcato, era dato in custodia alle nostre donne.
Che avevano cura di tutto.
Avevano cura che non si spegnesse niente di quanto loro
affidato: dagli amori, alle amicizie, dalla cucina alle piante di
basilico.
Avevano cura che il fuoco non si spegnesse mai.
Qualsiasi fuoco.
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Romano Gualdi con la moglie Lilia Biondi
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Intorno a quel paiolo girava la vita, le vite. Era un centro di gravità. Ecco la genialità della foto di Romano Gualdi. Intorno a quel fuoco si ascoltavano anche cose magiche, Crispiano ha una piccola storia, ma è come un sogno: sull'altipiano delle Murge narra delle storie, poi scompare, poi ritorna. C' è una Crispiano magno greca, c'è una Crispiano romana, bizantina dei monaci basiliani. Crispiano che costantemente appare, racconta delle storie e poi scompare, lasciando il suo universo di umiltà. Perchè Crispiano è sempre stata fatta dagli ultimi, ed è una di quelle cose che sempre mi ha appassionato. Una delle frasi di più grande generosità che io abbia mai
ascoltato, la pronunciava la mia bisnonna, “Annette a belledelmonde”.
Quando scopriva che una sua vicina era in difficoltà, diceva:“Uagliò va pigghie
u’ fuche e purtele”, dove u fuche era la paletta con delle braci
accompagnata sempre da altro.
La generosità era un esercizio quotidiano praticato da
ognuno, perché avevano ben compreso che il bisogno, come il desiderio,
si manifesta di fronte ad una mancanza. Non davano nulla per scontato,
avevano cura di tutto ciò che la vita aveva affidato loro. Affetti
compresi.
Insomma il nostro era un patriarcato ad interim….in attesa che arrivasse una donna.
Una delle nostre donne. Una donna del Sud!
La pelle, gli occhi, il cuore delle donne del Sud! Le voci
roche, i gesti felini, la protezione animale della famiglia, l’ira
nuda, primitiva, la vita agra, l’alibi della speranza, le rivolte
disarmate contro il resto di niente.
Si dice che le donne del Sud siano tutte donne, veramente
donne e basta. Desolate e coraggiose, nel portare il peso della loro
esistenza con apparente levità.
Curavano i loro uomini, provvedevano giorno e notte alle
loro passioni e ai loro bisogni feroci e infantili, amministravano
famiglie affamate e ignoranti.
Erano queste donne, regine del luogo che abitavano, fosse grotta o tugurio o casa, a fare dei meridionali un popolo.
La loro fatica e la loro sofferenza intrecciavano, in un
ordito di sollecitudine e di temperamento, ciò che altrimenti sarebbe
stato un insieme di vite perdute.
Erano donne fiere, donne dolci, donne indulgenti e pietose.
Donne docili, che facevano dell’amore uno spettacolo vivo e vibrante.
Donne che aravano i campi, lavavano i panni, coprivano mancanze.
Donne forti e pazienti che seguivano ovunque i loro uomini.
Donne disperatamente razionali che spaccavano il soldo per procurarsi
il pane.
Donne di precoce senilità, donne minate, che rammendavano
al sole poverissimi stracci e cardavano al sole dei marciapiedi la lana
appena tosata alle greggi per riempire i loro materassi.
Donne intrepide, dagli sguardi sfrontati, con lividi sui seni per le carezze violente di uomini ubriachi.
Donne che con il loro afrore irradiavano vertigini carnali.
Donne che col sorriso promanavano una luce liquida. Donne defraudate
dalla bellezza che scivolava via da un giorno all’altro come la pelle di
un serpente nel periodo della muta. Donne malinconiche che sapevano
tendere le corde del cuore e parlare anche con i loro silenzi.
Donne del Sud, belle come orchidee selvagge nate in
gravina, come la Serapia orientalis, l’orchidea crispianese. Donne per
cui la bellezza era un pericolo da nascondere, perché poteva essere
motivo di dolore o di affronto.
Queste erano le nostre donne.
“Uagliò va pigghie u’ fuche e purtele”….diceva Jannette a
belledelmonde….oltretutto questo comando, a me bambino, dava un senso di
onnipotenza assoluto. In quel momento cessavo di essere “u piccinne” e
diventavo grande…mi veniva riconosciuta una responsabilità…anzi per me
era la responsabilità più grande. In quel momento diventavo Prometeo, il
titano che ruba il fuoco agli Dei per donarlo agli uomini.
Prometeo (in greco: colui che riflette prima) che aveva
un fratello Epimeteo (colui che riflette dopo). Noi, sempre
sospesi tra Prometeo e Epimeteo, tra colui che riflette prima e colui che
riflette dopo. Sono le nostre due anime in eterno conflitto, tra
ragionamento e irruenza, tra la calma e la tempesta, tra demonio e
santità.
Proprio come le due anime che albergano in ogni essere umano, a cui resta la scelta di chi essere.
“Viet u pruvvedote” ….ripeteva sempre la mia bisnonna…chi altro era se non Prometeo ovvero “colui che riflette prima”.
D'altronde, come ripeto sempre a mio figlio noi siamo Magna Grecia; la Grecia è a 300 km da qui, Milano a 1000.
Mentre da Amsterdam la distanza è di circa 2600 km. ( e che c’entra?)
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Il prof. Gert Burgers in visita nel territorio di Crispiano |
Parlando di Grecia col Prof. Gert Burgers, dell'Università di Amsterdam, impegnato con un gruppo di studenti negli scavi archeologici dell'Amastuola,
dopo ogni spiegazione forbita si fermava ridendo: “Alcune cose possono
accadere solo qui”. Lui sosteneva la grandezza della nostra terra e
della nostra storia, cosa che condividevo assolutamente, ma tentavo
anche di spiegargli che la nostra vera forza era il sapere di discendere
dagli “ultimi”, la nostra grandezza era legata alla coscienza degli
“ultimi”, di chi ha perso tutto e tutto deve ricostruire.
Come nella poesia di Kipling. Noi siamo il verso della
poesia quando indica la strada della tenacia al proprio figlio, o ” a
vedere le cose per le quali hai dato la vita, distrutte. E piegarti a
ricostruirle con i tuoi attrezzi ormai logori”. Questo eravamo, e siamo,
noi.
L’immagine della Crispiano romana o della Taranto spartana,
raccontavo al professore, avrebbe dovuto abbandonare il romanticismo
della mitologia e fare i conti con la verità e con il realismo della
storia.
Per spiegarci…Taranto affonda le origini della sua nascita
nei retroscena della guerra di Troia. Così come narrata da Omero
nell’Iliade; la guerra di Troia ebbe inizio a causa del rapimento di
Elena, regina di Lacedemone (la futura Sparta), ritenuta la donna più
bella del mondo, per mano di Paride, figlio di Priamo, re di Troia.
Il re Menelao, marito di Elena, per vendicare l’offesa subita, chiede
l’aiuto di Agamennone, suo fratello e re di Micene, e di tutti gli altri
principi achei. La flotta salpa verso Troia dove ha inizio l’assedio. I
Troiani resistono per nove anni, ma nel decimo Troia viene conquistata
grazie all’astuzia di Ulisse, il re di Itaca.
Ora in questi dieci anni di guerra, alcuni si imboscarono
evitando il fronte, e siccome le donne erano sole, come dire, si
consolarono con gli imboscati. Da questa consolazione nacquero i
Partheni, ovvero i figli illegittimi delle donne spartane, che al
rientro dalla guerra dei legittimi mariti furono cacciati da Sparta.
Il capo degli scacciati era Falanto, colui che fondò Taranto
Abbastanza lontani dal concetto di guerriero spartano che
si sta impossessando ultimamente dei Tarantini, convinti che Leonida da
Taranto sia lo stesso Leonida che eroicamente si oppose a Serse alle
Termopili.
Tarentum non è rude, Tarentum è sempre molle. La molle
Tarentum….proprio come l’interno di una cozza…. La molle Tarentum che
con un' impepata uccise pure uno che di relazioni pericolose se ne
intendeva. Choderlos de Laclos, generale napoleonico di stanza a Taranto e
autore delle famose Liasons dangereus.
Ma, come diceva il Monti…. se Sparta piange Atene non ride.
L’immagine della Crispiano romana, provincia lontana
dell’Impero, che affondava la speranza delle sue origini nella gloria
militare del cavaliere Crispius…tra l’altro mai esistito, in quanto mai
trovata alcuna traccia storica, era sbagliata anch’essa. La realtà,
invece, era che le nostre contrade erano state date in dono a Calvia
Crispinilla, una delle favorite dell’Imperatore Nerone, così favorita
che Tacito nelle sue “Historie “ la identificava come “magistra
libidinum Neronis”…non serve traduzione…come dire!!!
Insomma per dirla elegantemente, sia nel capoluogo che
nelle terre della provincia discendevamo da grandissimi figli di madri e
di padri incerti.
Di solito a questo punto della discussione, con il prof.
Burgers dell’Università di Amsterdam, eravamo alla seconda o terza Raffo e
più che della storia o dell’archeologia ci chiedevamo di quanto Calvia
Crispinilla avesse collaborato nella stesura dell’ars amandi di Ovidio o
sull’importanza tattica di Gullit e Van Basten nel Milan di Sacchi.
E comunque in quel 2006, tra una Raffo e l’altra, noi
vincemmo il mondiale e l’Olanda arrivò 11°, allenata da Van Basten….e il
prof. Burgers tornò mestamente ad Amsterdam.
Queste mie considerazioni, sospese tra il serio ed il
faceto, chiaramente erano antecedenti allo studio dettagliato,
appassionato ed approfondito, che Giorgio Sonnante ha fatto con il suo
libro “Gravine e tratturi, pascoli e campi di Crispiano”, che ogni
crispianese dovrebbe avere nella propria biblioteca in cui introduce e,
brillantemente attribuisce, l’origine del nome dei nostri luoghi ai
toponimi latini e greci.
Saltus liminis (San Simone) dove i saltus nella lingua
latina corrispondevano alle radure o ai boschi. Talvolta alle gole o ai
passi. Tutte condizioni rispettate dal luogo che sorge ai piedi del
dislivello murgiano; è circondato da fitti boschi; si trova sulla strada
di Pilano, che geograficamente legava Taranto all’Adriatico.
Callis plana (Crispiano) dove l’aggettivo “plana” deriva da
planus pianeggiante ovvero una via erbosa. E della Callis plana e del
transito costante di pastori nel nostro territorio, ne parlano Virgilio,
Orazio, Svetonio e Tito Livio.
la regola di Aulon (non latina ma greca) nella determinazione dei toponimi
· Fogliano: dal greco Falai Aulon- gravina scura.
· Triglie: dal greco - tria Aulon – confluenza di tre gravine
· Pilano: pyle Aulon –porta della gravina, Pilano costituisce l’accesso a Taranto dai territori posti a Nord
· Cacciagualani: kath aulones – sopra alle
gravine. Cacciagualani meriterebbe un racconto a sè. Infatti nelle sue
terre sono stati rinvenuti quelli che ormai sono noti in tutto il
mondo come gli Ori di Taranto, in realtà sono gli ori di Crispiano, opera
di un orafo che tanto ha fatto discutere gli archeologi per la sua
abilità, sono suoi anche gli ori della sacerdotessa di Taranto, insomma
era un maestro orafo arrivato dalla Grecia orientale e famoso in ambito
archeologico, conosciuto con il nome di “maestro di Crispiano”
Sonnante è fantastico! La sua ricerca è acuta, si spinge
fino ad arrivare a trovare le tracce della permanenza di Orazio e
Virgilio nel territorio di Crispiano, in particolare di Virgilio, quando
nelle Georgiche (che chiaramente non ho mai letto, fidandomi ciecamente
del prof. Sonnante) individua nel verso “saltus et saturi petito
longinqua Tarenti”, dove i saltus e le aree lontane da Taranto
corrispondono al territorio compreso tra Crispiano e la Masseria
Coppola.
Insomma si dimostra che Virgilio ed Orazio hanno
frequentato intensamente il nostro territorio, tanto che, approfondendo
il ragionamento si arriva a pensare che Virgilio sia morto a Crispiano e
non a Taranto o Brindisi, come sostenuto dalle biografie ufficiali. Solo questo motivo restituisce ai nostri luoghi una magia insospettata.
Sempre gloria al prof. Giorgio Sonnante. Ed al suo libro che vi invito a leggere appassionatamente.
E allora pensi a quella magia e a quello che poteva
accadere solo qui e a quanto avesse ragione il prof. Gert Burgers della
stupefacente Università di Amsterdam.
In realtà la magia di un luogo la sperimenti nelle parole che usi, quando cambia la prospettiva con cui la osservi.
Quando aumenta la distanza che ti separa da lui.
Ad esempio io la magia della mia terra, di Crispiano, l’ho
scoperta nella voce di Marco Polo quando raccontava al Kublai Khan delle
città del suo Sterminato Impero. Vivendola!
Chiaramente, pur avendo una certa età, non ero presente a
quei dialoghi. Li ho rivissuti attraverso le pagine delle “Città
invisibili” di Italo Calvino, in cui il Kublai Khan ormai vecchio e
stanco affida a Marco Polo il compito di attraversare il suo impero e di
raccontarne le situazioni.
Marco Polo fornisce le descrizioni di queste città parlando
degli uomini che l’hanno costruite, della forma delle città stesse,
delle relazioni tra la gente che vi abita. Marco Polo le descrive nei
più minuziosi dettagli che ad altri appaiono invisibili, creando la
loro anima durante il racconto.
- ... Di là l'uomo si parte e cavalca tre giornate tra
greco e levante... - riprendeva a dire Marco, e a enumerare nomi e
costumi e commerci d'un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva
dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d'arrendersi. Era l'alba quando
disse: -Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco.
- Ne resta una di cui non parli mai.
Marco Polo chinò il capo.
- Venezia, - disse il Kan.
Marco sorrise. - E di che altro credevi che ti parlassi?
L'imperatore non batté ciglio. - Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome.
E Polo: - Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia.
- Quando ti chiedo d'altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia.
- Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia.
- Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi
dalla partenza, descrivendo Venezia così com'è, tutta quanta, senza
omettere nulla di ciò che ricordi di lei.
L'acqua del lago era appena increspata; il riflesso di rame
dell'antica reggia dei Sung si frantumava in riverberi scintillanti
come foglie che galleggiano.
- Le immagini della memoria, una volta fissate con le
parole, si cancellano, - disse Polo. - Forse Venezia ho paura di
perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d'altre
città, l'ho già perduta a poco a poco.
Ora, in una translitterazione di natura sentimentale, Marco
Polo ero Io e il Kublai Khan erano Diador e Cusimin, a cui raccontavo ,
sui gradini di via Roma nelle infinite serate estive, delle città in
cui ero stato per studio o per ventura.
Diador e Cusimin erano due contadini, che mi avevano
onorato del loro affetto e della loro amicizia, io ero appena ventenne e
loro avevano superato abbondantemente gli ottant’anni. Erano due querce
solide, di quelle che ognuno di noi dovrebbe incontrare per avere
contezza di cosa significhi essere Uomini. Con un valore aggiunto:
essere uomini del Sud.
Pochissime parole e una moltitudine di fatti. (na parole je picche e ddoje so assè)
Erano entrambi cavalieri di Vittorio Veneto, per aver fatto
e superato la prima guerra mondiale, e per essere ritornati a casa ed
aver ripreso la vita dal punto esatto in cui l’avevano lasciata. Senza
dire una sola parola.
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La Torre Cacace in rovina
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Ed io in ogni racconto che facevo loro su quei gradini, mi
rendevo conto di raccontare di città che in una qualche maniera
parlavano di Crispiano, come le torri ottagonali di Chivasso o la torre
di Enna, che ricordavano nelle loro forme la torre di Cacace o che la
basilica di San Miniato a Firenze ricalcava il romanico della facciata
della Madonna della Neve.
E lì comprendevo che il metro di misura del mondo che
incontravo, era e restava sempre il mio paese e la mia gente..Tutto era
misurato con il ricordo che avevo dentro di me dei luoghi e delle
persone conosciute.
Per dirla con Calvino…” D’una città non godi le sette o le
settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. O la
domanda che ti pone obbligandoti a rispondere” e sarà che io sono sempre
stato una persona oltremodo noiosa, ma le mie risposte le ho sempre
trovate qui.
Perché in ogni nuovo luogo visitato ritrovavo un passato
che non ricordavo di avere e quello che credevo di aver perso o di non
possedere più mi aspettava proprio nei passi non ancora percorsi, nelle
nuove città che visitavo.
Di Diador e Cusimin ho un ricordo intenso, ho scritto di
entrambi, sono stati per me il metro di misura e di valutazione delle
persone e di comprensione delle cose. Ricordo un pomeriggio dopo una
lunga chiacchierata, mentre andavo via, li avevo lasciati sui gradoni di
via Roma, sentii che parlottavano tra di loro di me.
- Je proprie brev u uagnone….
- sine, je nu bune figghie…
- e ce studie?
- …sacce….desce architetture
- E ce je?
- Sacce…
- E c’ha fa?
- Sarà u siniche!
Fortunatamente per tutti, non ho fatto né l’architetto né
il sindaco, ma questo dialogo avveniva alla fine degli anni 80, gli anni
in cui il sindaco del paese era Peppino Scialpi, appunto l’architetto e
pur avendo avuto Crispiano sempre Sindaci molto bravi, bisogna
riconoscere a Peppino Scialpi la grandissima capacità di aver immaginato una
narrazione, ancor prima di una costruzione, dell’immagine di Crispiano. Gloria a lui, lo dico pubblicamente, e faccio ammenda se ho detto qualcosa fuori posto nei suoi confronti.
L’assoluta importanza del racconto.
Peppino Scialpi ha avuto il merito di aver iniziato la scrittura di una storia da raccontare
intorno al luogo in cui vivevamo, utilizzando l'arguzia e la lungimiranza di un signore che si chiama Michele Annese, non so se lo conoscete, vorrei farvelo conoscere, che negli anni precedenti aveva organizzato una sezione fotografica, all'interno della Biblioteca comunale e aveva costruito il cuore di quella narrazione, che poi è stata la "terra delle 100 masserie". Michele Annese aveva accumulato quel patrimonio di foto, di memorie, di ricordi, di orgoglio che potevamo avere e che poi fu messo a frutto, grazie alla sua intuizione e a quella di Peppino Scialpi. Così furono valorizzate le nostre masserie.
E torniamo alla foto di Romano Gualdi e del paiolo. Perché
oltre ad essere l’immagine del nostro sacro poco, della fatica
contadina, dell’attenzione delle nostre donne, quel fuoco era anche il
luogo in cui si trasmetteva la nostra memoria. Si tramandava
l’esperienza.
Il fuoco era il testimone di fronte a cui, nelle sere
d’inverno, si saldava un patto tra consanguinei e si trasferiva tra le
generazioni il sapere conosciuto.
Addò s facev u cunt, dove avveniva “lu cuntu”….e mentre la storia precedente era
ricostruita sui libri, Calvia Crispinilla…Virgilio…Orazio….lì, intorno a
quel fuoco, venivamo a conoscenza di storie che in una qualche maniera
avevano toccato personalmente chi in quel momento le raccontava.
E capii quanto la sottomissione, lo sfruttamento,
l’ingiustizia… avessero lacerato le carni dei nostri avi, di chi in
epoche passate aveva portato il nostro stesso nome. Mio nonno, il mio bisnonno, di chi era stato prima di me Santoro Domenico, di Michele Annese, di Peppino Scialpi, di Francesco Scarano. C'erano storie che portavamo chiuse nel cuore.
Un racconto mi colpiva in particolare, ed era quello legato
alla paura di portare troppo pane con sè quando si andava in campagna
per lavorare nei campi. Non potevi portarne più di un chilo.
Chiedevo perché….mi rispondevano “pe campà” ed io – da
bambino - pensavo fosse legato al fatto che bisognava mangiare poco per
non appesantirsi durante il lavoro.
Invece erano gli effetti della legge sul brigantaggio, la
famigerata legge Pica, che permetteva la immediata esecuzione di tutti i
sospettati di brigantaggio o di connivenza con i briganti.
Rimase in vigore dal 1863 al 1865 e permise l’uccisione di oltre 14.000 briganti o presunti tali, nelle regioni meridionali.
La questione agraria e la questione meridionale si
sovrapposero drammaticamente in quegli anni, ed il racconto che ascoltavo
era quello ascoltato direttamente dai figli di chi lo aveva vissuto.
La lettura dei “Fuochi del Basento” di Raffaele Nigro,
successivamente, svelò con precisione quanto fosse accaduto nel nostro
Sud… ai briganti. Che non erano altro che uomini che chiedevano di
avere la terra, come atto di giustizia sociale.
Leggo la deposizione di un brigante prima della esecuzione
sommaria, rimasta agli atti: “perché sono troppo pochi quelli che
possiedono la terra con i pascoli, i seminativi, i boschi, i fiumi. E
quando ncappi la mala annata la prima, la seconda, la terza volta e
tieni solo un piatto di cicerchia per far mangiare otto persone, e non
trovi manco le ciucredde perchè il sole ha asc-cuato tutto, allora…tra
vivere in ginocchio e morire di fame…..e morire in piedi lottando…è
meglio morire in piedi”.
Con nelle orecchie queste parole , che mi ero appuntato
dolorosamente su un foglietto, uscii di casa e a piedi e lentamente
raggiunsi la piana di Belmonte e guardai quella terra a lungo.
Noi credevamo; ma non era quella l’Italia sperata, il sogno raccontato. Anche questo era un furto.
E allora, tra morire di fame e morire ammazzati, cambia poco; o cambia tutto.
Allora sia bosco, sia notte, sia paura, sia giorno, sia
fuga, sia vento, sia pioggia, sia grotta, sia neve, sia freddo, sia
fame, sia piemontese e sia morte. Sia Belmonte.
“Jomme se nasce, brigante se more”; era il percorso
obbligato se - come vela - volevi gonfiarti dei venti di speranza e
libertà che cominciavano a soffiare. In tanti lo colsero, pochi ebbero
il coraggio di dirlo. E l’eco dei loro nomi si spense nel segreto,
custodito dall’ombra dei lecci e dei fragni, del bosco delle Pianelle;
un mistero verde in cui sparire, rifugio nei territori tra Gioia del
Colle, Noci, Martina Franca, Ceglie Messapico, Grottaglie e,
soprattutto, Crispiano. Teatro di briganti dai nomi familiari: Sergente
Romano, Ninco Nanco, Crapariello, Pizzichicchio.
Dal 1831 al 31 dicembre 1865 (termine di efficacia della
legge Pica) la popolazione crispianese passò da 871 anime ad oltre 2000;
troppe per un piccolo paese, affacciato sul mare e ai piedi di un
bosco.
Alcuni, con il loro fardello di miseria, arrivarono dai
paesi vicini; altri abbandonate le greggi presero la vanga ed eressero
confini di pietra; tanti, abbandonato il bosco, e nascosto il brigante
nel cuore, prestarono le loro braccia alla terra. Tutti insieme
ripopolarono le grotte del Vallone. Tutti insieme, scambiandosi amore e
miseria, ci fecero nascere.
Siamo i figli di quegl’ultimi, questa è la traccia del
nostro essere. Abbracciando i nostri vecchi e chiudendo gli occhi - tra
quelle braccia - ci riprenderemo il caldo fuoco del bivacco e il profumo
del bosco; l’odore acre del sole e il freddo tagliente della notte, la
pazienza del pastore e la saggezza del contadino. E, ultimo,
impercettibile, lontano, il battito lento di un cuore.
Brigante. Nascosto. Pronto.
Ecco, questo era quello che pensavo di fronte alla piana di Belmonte.
Ed anche in quel momento, come nel passato, erano sempre gli ultimi a dare vita a Crispiano.
Era il destino di un qualsiasi paese del Sud che la povera
gente, gli ultimi, fossero motore di ogni possibile miglioramento. Anche
perché i governi italiani che seguirono all’Unità d’Italia, per avere i
voti del Sud concessero i pieni poteri alla piccola borghesia,
delinquente e putrefatta, spiantata, imbestialita, cacciatrice
d’impieghi e di favori personali, ostile a qualunque iniziativa potesse
condurre a una vita meno ignobile e più umana.”
Che poi è la condizione di ogni Sud. Non c’è un Sud felice in nessuna latitudine planetaria.
Il Sud è categoria sensibile dello spirito, è scintilla primaria del pensiero e della poesia.
E’ invenzione di dèi, afosi abitanti la controra, punto di
confluenza di sensazioni, terra del lutto senza riscatto. E’ cognizione
del dolore.
Il Sud è rupe, serra, melma argillosa, chianca sbrecciata, murgia ferrigna da spietrare.
Il Sud è calanco, dolina, lama, gravina; è muriccia di
pietre silicee, accanita divisione di campi, schiena spezzata, rumore di
zappa, solco di terra; è ulivo laminato, vite torva, fico crepitante,
mora selvaggia, grano bruciato. Sud è ferita aperta, rimarginata ,
riaperta.
Come la Macondo del colonnello Aureliano Buendia, in cui
gli abitanti cercano in ogni modo di riscattarsi dall’isolamento, di
avere relazioni con il resto del mondo, l’altrove. Ma dall’universo che
li circonda arrivano malattie, domini, sfruttamenti, sconvolgimenti e
uomini e donne che nulla hanno a che vedere con gli abitanti locali e
che stravolgeranno la storia della cittadina.
Ogni Sud è antico preludio di rughe, dove si torna sempre, come si torna sempre all’amore.
Ed un amore che mi ha sempre affascinato si è consumato
alle spalle della torre di Cacace, in un villino dei primi del 900 ,
nascosto da una folta vegetazione. La casa poggiava sul limitare
dell’altipiano che si affaccia sul nascere della lama, proprio nel punto
in cui il vallone si raccorda alla gravina di Triglie.
Da quel punto la visione del paesaggio riconcilia con
l’illusione di Dio, scorgi Taranto e poi la costa che continua in un
abbraccio infinito fino alle coste della Calabria. Quello era il
panorama che si gustava sedendosi nel giardino all’ombra dei limoni.
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Alda Merini
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La signora che lo abitava era stravagante e sfuggente,
sempre assorta nel fumo delle sue infinite sigarette, ogni tanto la
vedevo scendere e raggiungere il tabacchino proprio sotto la chiesa di
San Francesco. Comprava una stecca e ritornava via, non sapevo chi
fosse, ma mi incuriosiva il suo modo di guardare.
Era il 1984. Poi partii e non la rividi più.
Anni dopo mi fecero leggere dei versi che aveva scritto seduta in quel giardino:
«Non vedrò mai Taranto bella/ non vedrò mai le betulle/ né
la foresta marina;/ l’onda è pietrificata/ e le piovre mi pulsano negli
occhi./ Sei venuto tu, amore mio,/ in una insenatura di fiume,/ hai
fermato il mio corso/ e non vedrò mai Taranto azzurra,/ e il Mare Ionio
suonerà le mie esequie».
Aveva ragione il prof. Burgers….alcune cose possono
accadere solo qui. Come io che entravo nel tabacchino ed aspettavo che
Ninidd finisse di incartare la stecca di MS ad Alda Merini, che ci
sorridesse ed andasse via.
Quel villino mezzo diroccato adesso è in vendita, continua a
guardare la costa che si allunga come in un abbraccio, all'ombra della
torre di Cacace, che resiste al suo prossimo crollo, là al suo fianco. E' un dolore, però è Crispiano.
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene
via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle
piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei
resta ad aspettarti.”
Bisogna raccontare di Crispiano….per salvarla.
Bisogna raccontare. Per salvarci.