Come la letteratura, anche le arti
figurative, in particolare la pittura, sono travolte dal rifiuto del
passato e sono interessate da un profondo rinnovamento formale, che
trova espressione nelle avanguardie storiche: Espressionismo,
Futurismo, Cubismo, Dadaismo, Surrealismo e Astrattismo. Questi
movimenti stravolgono i canoni figurativi tradizionali e, creando
nuovi linguaggi espressivi, si distaccano progressivamente dall'idea
di un' arte come semplice imitazione della realtà.
Compito dell'artista é quello di
scuotere, sconvolgere, scatenare energie, in modo che l'arte
influenzi tutti i settori dell'esistenza, collaborando attivamente a
trasformarla e migliorarla.
E' la protesta verso la società
borghese, in cui la logica, la morale comune, i valori come
l'Ordine, la Patria, la Famiglia, l'arte, la Religione, la Libertà,
la Fratellanza sono "scheletriche convenzioni" (Tzara),
perché svuotate del loro contenuto iniziale.
Un esempio di poesia dadaista
DADA: Un movimento di
rottura
di Anna
Presciutti
Ritagliate parole di un articolo di
giornale o di una poesia; sceglietene alcune a caso, incollatele su
un foglio ed ecco un nuovo articolo, una nuova poesia.
Un’opera d’arte. Anzi, non-arte.
Questa è una cosa DADA, questo è
DADA.
Ma torniamo un attimo indietro, ai
primi del ‘900.
La società borghese sembra pervasa
dall’ottimismo.
Ci sono le belle signore sorridenti e
gentili, che affettano ingenuità. Ci sono le abitazioni delle
famiglie agiate, divani damascati e uccelli impagliati. Benessere
esplicito che le “buone cose di pessimo gusto” rendono ancora
oggi a noi familiare. Ma c’è anche la Bella Otero, la musica, i
cabaret. C’è l’industrializzazione, ci sono tante Banche, tanti
tanti soldi.
E ci sono tante ferrovie e nuove armi.
All’industria occorre carbone e
ferro per fabbricarne: L’Alsazia e la Lorena ne sono ricche e per
questo subiscono le mire alterne di Francia e Germania.
Ci sono colonie da ampliare, nuove
terre da conquistare.
C’è un’aria inquietante dietro il
sipario di una società sfavillante e apparentemente fiduciosa.
Ricordiamo una poesia di Giuseppe
Giusti, scritta a fine Ottocento ma sempre attuale:
A chi non compra, guerra
Opera di Anna Presciutti
Eh no, la guerra, in fondo,
non
è cosa civile:
d'incivilire il mondo
il genio
mercantile
s'è addossata la bega:
Marte ha messo
bottega.!
Popoli, respirate:
e gli eroi macellari cedano alle stoccate .
degli eroi milionari:
la
spada è un'arme stanca,
scanna meglio la banca.
Bollatevi
tra voi,
re, ministri e tribune;
gridate all'arme; e
poi
desinando in comune,
gran proteste di stima,
e
amici più di prima.
La pace del quattrino
ci valga
onore e gloria:
guerra di tavolino
facilita la storia;
oh
che nobili animali,
protocolli e cambiali!
Hanno tanto
gridato
sulla tratta de' negri!
Eppure era
mercato!
tedeschi, state allegri:
finché la guerra tace,
ci
succhierete in pace.
Ma che è questo scoppio
che introna
la marina?
Nulla: un carico d'oppio
da vendersi alla
China;
è una fregata inglese
che l'annunzia al
paese.
Qui l'oppio capovolta
dritti e
filantropie!
Ma i barbari una volta,
oggi le mercanzie
migran da luogo a luogo,
bisognose di sfogo.
Strumento
di conquista
fu già la guerra; adesso
è affar da
computista:
vedete che progresso!
Pace a tutta la
terra:
a chi non compra, guerra.
Poi,
d’improvviso, la guerra.
Ineluttabile, ovvia, attesa,
auspicata, emozionante per alcuni, occasione di azione.
Giovani generazioni, tra cui molti
intellettuali, la reputano una cosa “straordinaria, lirica,
sportiva”.
Partono per il fronte i richiamati,
partono giovani che si chiamano Breton, Eluard, Péret, Soupault,
Aragon… Partono i volontari, come Rigaut.
Opera di Anna Presciutti
A volte riportano un fiore scarlatto
sulla fronte (Apollinaire).
Altri marciscono nel fango delle
trincee. E’ la noia, la malattia fisica e morale.
Quello che i giovani avevano
considerato possibilità di azione, slancio vitale, si manifesta
nella sua verità di slancio verso una morte anonima.
Non si tratta dell’agognato Atto
Eroico.
Si sceglierà poi un corpo a caso, per
gli onori in un monumento presente quasi in ogni città. Il milite
Ignoto, appunto.
Uno slancio verso l’Inferno.
Parimenti e parallelamente, in campo
letterario si fa chiarezza una realtà. C’è altro, dietro il bel
dipinto borghese, il bel romanzo e il bel verso. “Le rime hanno il
suono delle monete”.
Gli intellettuali, che avevano già
mostrato in un vicino passato l’altro lato della medaglia, la
corruzione e la decadenza morale di certi strati della popolazione in
opposizione all’apparenza di sereno benessere borghese, ora cercano
di scoprire di più.
Vogliono andare oltre la denuncia
delle disparità sociali, dello squallore e delle fatica e del dolore
della classe lavoratrice.
Vanno dentro l’UOMO.
E trovano il nulla.
DADA nasce così, dalla scoperta della
vacuità del bel parlare e del bell’apparire, dalla consapevolezza
che bei progetti sociali celano interessi, dalla scoperta che, a
cercare bene, dietro la finzione del sipario regna il nulla, almeno
in quel momento storico.
La guerra, svelata, denudata dagli
orpelli delle belle parole - Patria Eroismo Sacrificio- portata allo
scoperto colle sue armi micidiali prodotte dall’industrializzazione
avanzata, dallo sviluppo delle acciaierie Krupp, con le sue
nuovissime armi chimiche sperimentate a Ypres dai Tedeschi, la guerra
insomma a molti fa schifo e orrore.
Molti intellettuali si ritirano nella
neutrale Svizzera, dando il via a un movimento di avanguardia che
nasce durante il periodo bellico e prosegue ancora per qualche anno
dopo il suo termine.
E’ forse il movimento che più ha
segnato il solco della contestazione del primo Novecento: DADA.
Dada riunisce, al Cabaret Voltaire,
Hugo Ball, Tristan Tzara, Michel Duchamp, Marcel Janco, Hausmann,
Grosz, Sophie Tauber, Jacques Rigaut…… Quest’ultimo,
inafferrabile, malato più degli altri di quella malattia dello
spirito che è la consapevolezza del nulla, (se di malattia si
tratta), quest’ultimo non partecipa a DADA, lui è DADA fino alla
fine.
Le serate sono simili a quelle di
un’altra avanguardia, il movimento Futurista: c’è voglia di
stupire, di provocare, di dissacrare. Ma sono completamente diversi i
due movimenti nell’atteggiamento contro la guerra.
I futuristi vogliono la guerra,
occasione di movimento e slancio vitale. Sono decisamente
interventisti.
I Dadaisti invece sono
sicuramente contro la guerra.
Qualcuno ha definito il primo un
movimento di destra, il secondo di sinistra. Ma è difficile dare una
connotazione prettamente politica.
Subito ci si domandò se Il nome del
movimento avesse un significato. Si trovarono diverse risposte:
Da- Da è il balbettio del bambino che
articola le prime sillabe, i primi suoni con cui vuole comunicare con
i genitori.
Errato. DADA non vuole comunicare.
Dada è il nome che i bambini francesi
danno al loro cavalluccio a dondolo.
Che assurdità, che c’entrano
cavallucci e bambini?
Ah, sì: Da è il modo di affermare
dei Russi e dei Rumeni, l’equivalente del nostro Sì, del francese
Oui… Un doppio “sì”…
Ma sì a che cosa, se DADA dice No a
tutto?
Tristan Tzara, irritato da tante
chiacchiere ci svela il senso:
DADA non significa nulla (Manifesto
Dada 1918).
Già, perché anche Dada ha il suo
manifesto, pubblicato non al momento della formazione del movimento,
ma nel 1918.
Il dadaismo non avrebbe dovuto essere
chiamato cosi, ma semplicemente DADA, rifiutando i suoi componenti
tutti gli ISMi dei movimenti artistici.
Perché Dada non è un’arte, ma una
non-arte.
Ignora l’estetica, ignora il bel
linguaggio, rifugge soprattutto dalla guerra borghese che ha
coinvolto tutti. Nato come opposizione alla guerra, diventa un
movimento nihilista in campo artistico. E cosi influenzerà gli stili
artistici successivi, come il Surrealismo.
I dadaisti si incontrano e si
esibiscono soprattutto nel Cabaret Voltaire, fondato da Ball nella
Zurigo pacifica che è un’oasi nell’orrore.
Essi combattono l’arte con un altro
tipo di arte. Ma è una non-arte provocatoria, assurda.
Nelle loro rappresentazioni declamano
le loro opere (perché l’artista, anzi il non-artista deve
pubblicare, cioè rendere pubblico, palese, il suo prodotto, non
tenerselo nel cassetto).
Sul palco, indossando spesso un gilet
rosso, danno luogo alle loro performances e provocano reazioni. Gli
spettatori sono invitati a partecipare e reagire.
E gli spettatori reagiscono: spesso
con il lancio di pomodori e insulti.
Ok, quegli intellettuali sono riusciti
nel loro intento.
Tornando quindi all’inizio, la
vostra poesia composta, secondo le indicazioni di Tzara, attingendo a
caso alle parole ritagliate, quella non-poesia è la vostra poesia, è
il vostro articolo; è un’opera d’arte? Assurda, incomprensibile,
si direbbe. Assurda come la realtà, in effetti.
Poi ci sarà qualcuno che cercherà un
significato nascosto e crederà di essere penetrato nel vostro mondo
più intimo, cercherà di spiarlo, di spiegarvi.
Lasciamoglielo credere.
Un esempio di performance dada al
Cabaret Voltaire?
Il
canto di Labadas alle nuvole, La carovana degli elefanti,
così
gadji
beri bin blassa glassala laula lonni cadorsu sassala bim
gadjama
tuffm i zimzalla binban gligia wowolimai bin beri ban
o
katalominal rhinocerossola hopsamen laulitalomini hooo gadjama
rhinocerossola
hopsamen
bluku
terullala blaulala looooo….
Dada non può sopravvivere alla
destrutturazione letteraria e alla sua distruzione delle regole.
C’è un ramo dei dadaisti che,
finita la furia distruttrice, si adegua e accetta la vita borghese
(aveva già fatto qualcosa di simile un poeta maledetto, Rimbaud,
qualche tempo prima).
C’è un ramo di DADA che è più
fecondo e dà luogo a un altro movimento: il surrealismo tout court.
C’è un ramo che, distrutta
l’ipocrisia generale e la prepotenza e l’ingiustizia, aderisce al
surrealismo ma affiancandolo all’impegno sociale e politico di
opposizione. (es. Breton)
C’è poi chi è andato oltre. Oltre
la società, oltre la guerra, oltre la ribellione, oltre la
prepotenza che la vita ci impone decidendo lei quando e come dobbiamo
inevitabilmente finire.
Costui ha baciato il fiore che portava
costantemente all’occhiello del gilet, ed ha agito a modo suo per
affermare il suo potere di risponder alla vita. Come lui stesso aveva
detto, portava il suicido come un fiore all’occhiello.
Personalmente io propendo per coloro
che, distrutto il marcio, hanno provato, col loro impegno, a
cominciare a costruire un nuovo mondo.
Risultato ancora lontano, un mondo
ancora in fieri.
Ma un altro mondo è possibile.
ESPRESSIONISMO (S.L.)
Il movimento nasce nel 1905 in
Germania. A Dresda, un gruppo di artisti fonda un movimento chiamato
"Die Brucke" - "Il Ponte". Essi si propongono di
gettare un ponte tra la pittura ottocentesca tradizionale e la nuova
arte moderna . In aperta polemica con il Positivismo e la società
borghese, essi ritengono che l'arte non deve imitare la realtà ma
deve interpretarla secondo l'emozione che suscita nell'artista. La
realtà esterna vista come mezzo per comunicare l'espressione
dell'interiorità dell'artista. E'' un'arte ricca di contenuti
sociali, di drammatica testimonianza della realtà, la realtà amara
della guerra, delle contraddizioni politiche, della perdita dei
valori ideali, delle aspre lotte di classe, ma vista attraverso la
loro soggettività inquieta e tormentata. L'immagine è spesso
deformata, ridotta a linee, tracciate con segni violenti; i colori
sono accesi, antinaturalistici, fortemente contrastanti. In questo
modo essi esprimono l'idea di un'umanità tragica, angosciata,
pervasa da un senso di morte e distruzione, come già nel precursore
Edvard Munch.
Il gruppo, trasferitosi nel 1911 a
Berlino, trova nella grande città lo spunto per la rappresentazione
di ambienti urbani dinamici e inquietanti, dominati spesso da
singolari figure femminili
Donne per strada
di Ernest Kirchner
Marcella di
E. Kirchner
La Torre rossa a Le Halle
di E. Kirchner
Scene di strada di
Kirchner
Sera sulla via Karl Johann
di Edvard Munch
L'Urlo
di E. Munch
"Marcella" di Ernest Kirchner
"Donne per strada" di E. Kirchner
"La torre rossa a Le Halle" diE. Kirchner
"Scene di strada" di E. Kirchner
"Sera sulla via Karl Johann" di Edvard Munch"
"La stanza rossa" di Henri Matisse"
Nell'ambito degli Espressionisti, si
affermò in Francia, tra il 1905 e il 1906, il gruppo dei "Fauves".
Il termine, che significa "belve", venne usato in senso
spregiativo dalla critica per indicare una pittura rozza, dai colori
fortemente contrastanti. Per questi artisti "il brutto è un
bello scaduto e degradato"
L'idea dietro il dipintoPochi dipinti possono vantare un successo universale come L’Urlo di Munch, e nessun altro ha saputo in una sola immagine incarnare il dramma esistenziale dell’uomo moderno.
L’opera nasce intorno al 1893, negli anni berlinesi e insieme ad altri dipinti era destinata a formare, nell’idea dell’artista, un grande manifesto dell’intera esperienza umana, dalla nascita alla perdita, dall’amore all’ossessione, dalla solitudine alla morte.
Edvard Munch, L'urlo (prima versione) —
Fonte: ansa
L'essere umano in primo piano: descrizioneL’Urlo di Munch mostra in primo piano il volto di un essere umano totalmente sfigurato, con la carnagione di un colore tra il giallo e il verdognolo. I suoi lineamenti sono così alterati e scarnificati
da rendere impossibile distinguere se si tratti di un uomo o di una
donna. Le orbite oculari sono due cerchi privi di colore e profondità,
il naso è scomparso lasciando solo due punti neri a suggerire le narici,
la bocca è spalancata in un urlo lancinante. La testa è clava e la sua
struttura è più vicina a quella di un teschio che a quella di un essere umano vivo. È visibile anche parte del corpo. Il busto è reso attraverso linee ondulate,
è ricoperto da una tunica scura, che mette in risalto l’eccessiva
magrezza, la mancanza di proporzione. Questa figura sembra a malapena
mantenersi in posizione eretta, quasi non avesse spina dorsale.
Le
braccia sono piegate, le mani appoggiate al volto in un gesto che allo
stesso tempo sembra suggerire la volontà di sostenere la testa e di
chiudere le orecchie, come se la stessa persona non fosse in grado di sostenere il grido che lei stessa sta emettendo.
Lo sfondoAlle sue spalle, verso sinistra, un ponte lunghissimo, descritto con sicure pennellate di colore bruno. In lontananza due sagome scure, due persone di cui si distinguono gli abiti borghesi. Sulla destra un paesaggio naturale, un lembo di terra, il mare e alcune piccole imbarcazioni che campeggiano all’interno di una chiazza gialla, evidente riflesso della luce del sole. Sullo sfondo, una porzione vasta della superficie pittorica è occupata dal cielo. Un cielo al tramonto, reso con larghe pennellate ondulate, giallo intenso e rosso sangue.
Edvard Munch, autore de L'urlo —
Fonte: ansa
Chi è l'uomo in primo piano?Una serie di domande colpiscono l’osservatore già dalla prima visione de L'Urlo di Edvard Munch.
Chi è la persona raffigurata
in primo piano? Donna. Uomo. Il pittore medesimo. Quest’ultima è la
risposta che più comunemente viene avanzata. Stando al dato oggettivo
però nessuna di queste appare soddisfacente. L’autore ha infatti
eseguito nel corso della sua carriera numerosi autoritratti e se avesse
voluto rendersi riconoscibile all’osservatore lo avrebbe fatto con una
accurata resa fisiognomica. Il personaggio in primo piano è un essere
umano e l’impossibilità di determinarne l’identità rende possibile
attribuirgli qualsiasi identità. In altre parole è “l’uomo”, è ciascuno di noi, è l’intera umanità.
La causa del dolorePerché grida? Il grido è una reazione istintiva, primordiale, profonda. Si grida per la paura e per il dolore. L’essere umano raffigurato nel quadro è terrorizzato e scosso dalla sofferenza.
Qual è la causa del suo dolore? Qual è la causa della sua paura? La paura, il dolore, sono dentro di lui. Non c’è un agente esterno. a dircelo è quel primo piano agghiacciante. Smarrimento, solitudine, incomunicabilità, i temi su cui indagano le grandi menti dell’epoca, da Schopenhauer a Kierkegaard, da Ibsen a Kafka, fino a Freud.
Che si tratti di uno spettro interno
è il quadro a dirlo, o meglio a non dirlo. Nessun riferimento
figurativo ci indica un’altra possibile causa e le due persone sullo
sfondo non vedono, non sentono, non accorrono.
Realismo e irrealismo della natura circostanteCosa succede alla natura? Tutto è sconvolto, i colori sono esagerati, esasperati, il contrasto cromatico
è talmente forte da colpire lo spettatore con la stessa intensità di un
pugno nello stomaco. Linee ondulate pervadono terra, cielo e mare,
sembrano preludere a uno stato di cataclisma. Nemmeno questo però turba le sagome scure che incedono sul fondo.
Tutti gli elementi sono allo stesso tempo reali e irreali. Reali perché partono da dati plausibili della realtà:
l’essere umano, il ponte, le figure che camminano, la natura selvaggia e
impervia dei fiordi norvegesi, le striature rossastre del tramonto.
Irreali perché amplificati, esagerati, sconvolti, portati all’eccesso. È l’interiorità che parla, che detta le regole della visione. La realtà è filtrata da uno stato emotivo. È puro espressionismo pittorico.
Il movimento generato dal gridoOltre al dato cromatico un altro contrasto si presenta fortissimo all’interno de L'urlo di Munch. Linee ondulate che pervadono la persona, la terra, il cielo, il mare a cui si oppone con forza la prospettiva tagliente e rettilinea del ponte. Gli elementi della natura si muovono, sono scossi da quel grido, ne vengono attraversati come da onde sonore.
Di più, accolgono quel grido, ne risuonano, lo amplificano, lo
restituiscono con tale forza che il protagonista è costretto a
difendersi portando le mani alle orecchie.
Il ponte è fermo, impassibile, immobile.
La natura come specchio della sofferenza umanaLa natura ascolta e parla, ma la sua voce non è consolatoria. L’elemento artificiale è muto e sordo.
La natura ha una bellezza magnetica e struggente ma l’uomo vi trova lo specchio della sua sofferenza.
L’artificio, le sovrastrutture, la società sono indifferenti. Che
possibilità ha dunque l’essere umano se non quella di gridare tutto il
suo dolore?
La nascita dell'idea del dipintoPiù volte nei suoi diari Edvard Munch racconta di come sia nata in lui l’idea dell’Urlo. «Camminavo
lungo la strada con due amici, quando il sole tramontò. I cieli
diventarono improvvisamente rosso sangue e percepii un brivido di
tristezza. Un dolore lancinante al petto. Mi fermai, mi
appoggiai al parapetto, in preda a una stanchezza mortale. Lingue di
fiamma come fiamme coprivano il fiordo neroblu e la città. I miei amici
continuarono a camminare e io fui lasciato tremante di paura. E sentii
un immenso urlo infinito attraversare la natura».
Lo stato psichico descritto dal dipintoLo stato psichico che Munch descrive, tratteggia le caratteristiche di un attacco di panico, una condizione di paura e sofferenza paralizzanti, che rendono l’idea della morte immediata e ineluttabile. Si parte quindi da una esperienza privata e personale per giungere a un’immagine universale, «l’immagine di ogni essere umano, senza sesso, senza razza, senza età».
Una domanda inevitabileNello spettatore contemporaneo, così come in quello di fine ‘800, L'urlo di Edvard Munch suscita al contempo attrazione e repulsione. Innumerevoli sono le persone che ogni anno si spingono al Munch Museet per poterlo vedere dal vivo, per farsi investire a pieno da quell’onda di emozioni.
Allo stesso tempo quasi nessuno sarebbe disposto ad appenderlo nel
proprio salotto. Non c’è insegnante né critico d’arte che almeno una
volta non si sia sentito rivolgere questa domanda: «L’urlo di Munch è bello o brutto?».
Il concetto di bellezza nella tradizioneComplicato dare una risposta coerente e fondata senza scomodare venticinque secoli di teorie estetiche.
Cercando di essere sintetici e comprensibili possiamo dire che le
categorie di bello e di brutto sono state formulate nell’antichità e
appartengono al mondo classico. Nell’arte greca del V secolo a. C. bello è ciò che riflette equilibrio e armonia, ciò che deriva dall’osservazione della natura ma che allo stesso tempo corrisponde a un canone ideale che ne fissa i rapporti proporzionali
(ad esempio: la figura umana perfetta prevede che la dimensione della
testa sia pari a otto volte la lunghezza totale del corpo, ecc).
Se
dunque abbiamo la presunzione di valutare un’opera moderna secondo
quegli antichi criteri siamo costretti ad ammettere che il dipinto è
brutto, bruttissimo, un abbozzo, un mostro.
I canoni moderni di cui tiene conto MunchMa certo non sono questi i canoni di cui ha tenuto conto Munch, di cui hanno tenuto conto tutti i pittori da Van Gogh in poi. L’arte moderna rivendica il diritto di non offrire allo spettatore un godimento estetico, di indagare nei recessi più nascosti dell’animo umano, di presentare tutti gli aspetti dell’esistenza,
anche i più tormentati, i più angoscianti. Rivendica il diritto di
porre domande anziché di fornire risposte, di non celebrare l’eroe ma di
mostrare l’uomo nella sua debolezza.
Vuole Munch
rappresentare un aspetto della vita umana sereno, rassicurante,
armonico, in una parola “bello”? Certamente no, non è il suo scopo.
Vuole invece condividere, esternare, mostrare senza pudore quanto di più profondo e tragico c’è nell’esistenza. Ci riesce? Certamente si.
In questo senso è lecito dire che il quadro funziona, che raggiunge pienamente il suo scopo.
Che, esattamente come nelle intenzioni del pittore, colpisce, scuote,
spaventa. Se quindi alla parola “bello” dobbiamo attribuire un altro
significato, se dobbiamo intendere che il dipinto è in grado di suscitare un’emozione sconvolgente, allora dobbiamo ammettere che si tratta di un capolavoro straordinario.
Il viandante sul mare di nebbia, dipinto olio su
tela del pittore romantico Caspar David Friedrich (1818) —
Fonte: ansa
Una visione opposta a quella dell'Urlo di MunchSe nella storia della pittura è possibile individuare un dipinto che rappresenti una visione opposta a quella dell’Urlo di Munch, questo è senz’altro il Viandante in un mare di nebbia del tedesco Caspar David Friedrich.
Opera del 1818, conservata ad Amburgo, essa incarna pienamente l’ideale del Romanticismo.
In primo piano è ancora l’uomo, è solo anch’esso, ma si presenta di spalle. Da solo ha sfidato la natura, si è spinto su una vetta da dove domina un paesaggio sublime.
Lo spazio è immenso davanti a lui, le rocce, le cime suggeriscono forze
arcane e potenti. Può essere risucchiato, schiacciato in qualsiasi
momento ma non ha paura, non teme il confronto, la sua
figura resiste al vento e contro il vento e la natura sta lì, nel mare
di nebbia, ad ammirare l’infinito ad ascoltare il silenzio.
L'ESPRESSIONISMO A VIENNA
di Nadia BUMBI
IL DISAGIO DEGLI ARTISTI EGON SCHIELE
Non facile parlare di Egon Schiele, giovane esponente di spicco dell’Espressionismo viennese negli anni antecedenti la prima guerra mondiale. Il tema dell’incontro era “Il disagio degli artisti”. Quel disagio, di fronte alla catastrofe incombente, ai nuvoloni all’orizzonte forieri di tempesta, che solo alcuni artisti, non tutti, riuscivano a percepire dietro la facciata luccicante elegante compassata e ricca della buona società borghese del tempo. Un disagio interiore nn necessariamente accompagnato da un particolare impegno civile; piuttosto un’insofferenza nei confronti dei legacci dell’insegnamento accademico che impedivano all’artista di esprimere, sulla tela nel nostro caso, la verità di una realtà così come veniva percepita dalla sua sensibilità e non come essa appariva (o era gradita dal pubblico o dall’eventuale committente…). Talmente poco facile (pure la scelta delle opere da mostrare ha creato qualche problema) che non ho voluto nemmeno provarci. Molto semplicemente ho preferito che fossero le opere stesse a parlare, che suscitassero emozioni, domande; che comunicassero, forse, lo stesso disagio. Abbiamo cominciato con la visione di un quadro tra le prime opere di un contemporaneo, ispiratore e protettore di Schiele, Gustav Klimt, capostipite della cosiddetta Secessione viennese.
Non è tra i quadri più conosciuti dal grande pubblico: Klimt è “Il Bacio” o comunque l’oro, lo sfarzo, le donne sensuali e fatali. Quest’opera del 1903 è ambigua e provocatoria sia per il soggetto che per il significato, qualunque esso sia. Quella donna in avanzato stato di gravidanza – non un nudo “canonico” quindi – la coroncina falsamente ingenua sulla chioma fiammeggiante, lo sguardo diretto e disinibito in faccia all’osservatore… basta così, non era Klimt l’artista che c’interessava. Di quel quadro era particolare lo sfondo o meglio i tre personaggi dietro questa donna incinta (di chi? di che cosa?...) e ancora più precisamente quello a sinistra. Un volto stranamente deformato, inquietante… Lo stesso che, più tardi, Egon Schiele esibirà nei suoi autoritratti, assolutamente singolari e tormentati.
Leopold Museum
Volti e corpi scarnificati, dai tratti quasi scolpiti con l’accetta. Espressioni dure. Colori lividi, sgradevoli: un velo squarciato sulla corruzione e sulla degradazione di una buona società ricca e perbenista. La stessa élite borghese che mostra di scandalizzarsi davanti ai suoi nudi spudorati ma che consuma, con pudica discrezione, i suoi inconfessabili vizi negli innumerevoli bordelli della capitale imperiale (per non parlare delle laidezze dell’altra Vienna, quella sepolta nelle cloache, che sopravvive volutamente ignorata da autorità e buoni cittadini).
Poteva avere vita facile il sensibile Schiele che “vedeva” la verità nella realtà occultata dall’ipocrisia di quella buona società che di lì a poco avrebbe precipitato l’Europa nell’ “Inutile strage”? Certo che no. Già la sua adolescenza era stata dolorosamente segnata dalla malattia e dalla morte del padre che lo costringerà ad abbandonare la casa natale di Tulln an der Donau per trasferirsi nella capitale dallo zio, suo tutore. Dovrà lottare per riuscire a convincere famiglia ed esaminatori del suo talento ed entrare nell’Accademia delle Arti di Vienna. Sarà il più giovane allievo ad essere ammesso nell’Istituto. Però non regge nemmeno lì. Gli stanno stretti i dettati accademici. Studia da solo ma non si accontenta certo di acquarelli o paesaggi convenzionali, aderirà a quel movimento sorto in Germania col nome di Die Brücke conosciuto come Espressionismo. La spinta ad andare avanti sarà l’incontro con Klimt al Café Museum di Vienna. Ne è affascinato e anche l’artista più affermato mostra di condividere e apprezzare la sua insofferenza per l’accademismo imperante, e lo prende sotto la sua protezione. Come Klimt, Schiele ha una vera predilezione per il corpo umano, anche se lo stile è decisamente diverso – ha fatto esperienza da ragazzino con la sua prima modella, la sorella Gertie, quasi filmando lo sbocciare della sua femminilità – e continuerà con le modelle future, sempre molto giovani, con le quali vivrà intensi rapporti. La sua predilezione per il corpo acerbo delle sue giovani amiche e, soprattutto, il modo poco ortodosso con il quale amava ritrarlo, gli causarono una denuncia di stupro nei confronti di una ragazzina di tredici anni, figlia di un ufficiale di marina. Finisce in prigione, per un breve periodo, e alla fine del processo verrà assolto ma ritenuto colpevole di pornografia per aver”esibito” le sue opere.
Obiettivamente, cos’altro poteva pensare la società borghese della Vienna del primo Novecento? Certamente Klimt era, ed è, più gradevole: appaga gli occhi e suggerisce una sensuale torpidità che non disturba. La vita può essere ancora bellezza per chi se lo può permettere. Ma all’espressionista Schiele non interessa la bellezza edonistica e falsa. Si ostina a mostrare quello che vede sotto il belletto lo sfarzo l’oro senza nessuna maschera, nessuna ipocrisia. I suoi autoritratti sono immagini scarnificate, anche la pelle sembra tolta, quasi a cercare una verità dell’uomo sempre più vera. Lo fa su se stesso così nessuno può risentirsi o accusarlo di qualcosa, può solo ritrarsi infastidito o orripilato, come Dorian Gray che copriva il suo ritratto per non vedere la depravazione dipinta sul viso.
Questo quadro, conservato al Leopold Museum di Vienna, è una sorta di manifesto programmatico. Un altro autoritratto: senza piedi, senza mani, senza bocca – coperta dal braccio -, con occhi privi di pupille ma così infiammati che sembrano riflettere l’inferno che hanno dentro (o che vedono fuori?); immerso, quasi galleggiante, in un totale bianco nulla. Nessuna possibilità di comunicare. Nessuno con cui comunicare. Nudo, la sua parte più vulnerabile esposta allo sguardo di tutti e perciò fragile. Riprovevole e brutto come il povero Giobbe che passava la giornata a grattarsi le croste con un coccio. Il tormento di Egon Schiele era il tormento di un’epoca che correva verso la distruzione a passo di danza. O a passo di marcia. Certamente senza freni, inarrestabile. L’ultimo quadro di Schiele che abbiamo visionato è stato questo, del 1918, “La famiglia”.
Secondo lo stile espressionista, nessuna concessione alla decorazione o al sentimentalismo eppure si può intravedere un tentativo di speranza proiettata nel futuro. Un quadro commovente (anche se ho i miei dubbi che Schiele volesse suscitare commozione o compassione in chi lo guardava…): la modella Edith, sua moglie, incinta di sei mesi, morirà di lì a poco colpita dalla “spagnola”, l’epidemia che falcidiò la popolazione più debole in quel periodo. Un futuro, quindi, che non sarebbe avvenuto mai: quel bambino non è mai nato. Anche Egon Schiele morì della stessa malattia pochi mesi dopo, il 31 ottobre 1918. Aveva 28 anni.
Di qui a cent’anni, diceva Trilussa, qualcuno s’imbatterà in qualcosa che farà ricordare un avvenimento lontano, codificato nei libri di storia, reso oggettivo e purificato da ogni emozione dalle parole asettiche e fredde dello storico: la guerra, quella che poi sarà detta “la grande guerra”, la “strana guerra” combattuta lassù ai confini di un’Italia che cercava di trovare una connotazione territoriale.
Qualcosa che apparirà come un “montarozzo” nella terra scavata dalla zappa del contadino intento nel suo lavoro.
“Fra cent’anni”
Da qui a cent'anni, quanno
ritroveranno ner zappà la terra
li resti de li poveri sordati
morti ammazzati in guerra,
pensate un po' che montarozzo d'ossa,
che fricandò de teschi
scapperà fòra da la terra smossa!
Saranno eroi tedeschi,
francesci, russi, ingresi,
de tutti li paesi.
O gialla o rossa o nera,
ognuno avrà difesa una bandiera;
qualunque sia la patria, o brutta o bella,
sarà morto per quella.
Ma lì sotto, però, diventeranno
tutti compagni, senza
nessuna diferenza.
Nell'occhio vôto e fonno
nun ce sarà né l'odio né l'amore
pe' le cose der monno.
Ne la bocca scarnita
nun resterà che l'urtima risata
a la minchionatura de la vita.
E diranno fra loro: - Solo adesso
ciavemo per lo meno la speranza
de godesse la pace e l'uguajanza
che cianno predicato tanto spesso!
Il poeta romano, disincantato, usa il suo solito linguaggio popolano, per definire i resti ammucchiati di persone morte per una bandiera, una patria. Non “la Bandiera” o “la Patria”, ma una delle tante bandiere e patrie che hanno mandato al macello i figli, generazione persa. Tra le ossa ammucchiate, i teschi sussurreranno tra loro, consapevoli di aver creduto alla “minchionatura” della vita e di essere ora tutti compagni. Forse.
Trilussa aveva ragione.
Ora veramente sono passati cento anni e molte agenzie educative o associazioni pubbliche e private si sono attivate per ricordare la I guerra mondiale. Anzi, la sua fine.
Noi oggi la ricordiamo attraverso gli occhi e il linguaggio di un poeta che sa unire il disincanto alla pietà, rifuggendo da ogni considerazione politica, dalla tracotanza del patriottismo. Lui non vede l’Italiano, o il Francese, o il Tedesco. O l’ “Ingrese”.
Lui vede solo l’Uomo. Un uomo sprecato nel fango, nel sangue, nel gas; e sì che sarebbe potuto diventare un lavoratore, un intellettuale, un padre, un nonno…
Trilussa usa un liLa speculazzione delle parole”nguaggio che potremmo definire romanesco medio, comprensibile, il dialetto (non quello greve del Belli, per esempio) della borghesia piccola piccola che fatica, ma desidera tanto, emanciparsi.
Il “dialetto italianizzato” di Trilussa ha aiutato i romani a conoscere la lingua che poteva unificare la giovane nazione ancora in fieri. Non dovremmo fargliene una colpa: il poeta voleva comunicare. Per intenderci, tra Belli e lui, c’è la differenza che corre tra l’umanità romana di Anna Magnani e quella di Alberto Sordi o Carlo Verdone. La prima è stata sempre uguale a se stessa, i suoi personaggi rappresentano una condizione sociale e solo quella. Gli altri riflettono la “tipizzazione” di un’umanità nella quale tutti possono riconoscersi.
Il romanesco italianizzato di Trilussa gli ha permesso di farsi comprendere da tutti i suoi lettori.
L’utilizzo del regno animale, poi, è stato il mezzo che gli ha consentito di parlare liberamente del “bestiario” umano e, soprattutto, di farsi accettare senza problemi anche da coloro che con ironia garbata mette alla berlina.
Per parlare del pontefice Benedetto XV che aveva cercato in tutti i modi
di evitare l’ “inutile strage”, Trilussa usa l’immagine del ragno che
pazientemente tesse la tela e scrive:
“Er ragno bianco”
Un Ragno Bianco fece un bastimento:
piantò du zeppi in croce
drento una mezza noce,
filò la tela, che servì da vela,
entrò ner mare e se n’annò cór vento.
Un’Ostrica, che vidde la partenza,
je disse: — Dove vai, povero Ragno?
Io te vedo e te piagno! Che imprudenza!
Nun vedi er celo? Pare
che manni a foco er mare:
in ogni nuvoletta
c’è pronta una saetta,
c’è un furmine che casca
framezzo a la burrasca.
Come cammini, senza direzzione,
tu ch’hai perso la bussola e nun ciai
nemmanco la risorsa der timone?
— Eppuro — disse er Ragno sottovoce —
un’unica speranza che me resta
è de potè sarvà da la tempesta
er tesoro che tengo ne la noce.
Io nun so dove vado e quanno arivo,
ma porto, per incarico speciale,
er seme de quell’arbero d’Ulivo
che ce darà la Pace Universale.
Il poeta non evita argomenti scabrosi che possono metterlo in difficoltà, ma la sua ironia elegante lo fa passare indenne, forse, anche dal solo sospetto di critica.
“La madre panza”
Vedete quel’ometto sur cantone
che se guarda la panza e se l’alliscia
con una specie de venerazzione?
Quello è un droghiere ch’ha mischiato spesso
er zucchero còr gesso
e s’è fatta una bella posizzione.
Se chiama Checco e è un omo che je piace
d’esse lasciato in pace.
Qualunque cosa che succede ar monno
poco je preme: in fonno
nun vive che per quella
panzetta abbottatella.
E la panza j’ha preso er sopravvento
sur core e sur cervellom tant’è vero
che, quanno cerca d’esternà un pensiero
o deve espone quarche sentimento,
tiè d’occhio la trippetta e piano piano
l’attasta co’ la mano
perché l’ajuti ner raggionamento.
Quanno scoppiò la guerra l’incontrai.
Dico: - Ce semo… - Eh, - fece lui – me pare
che l’affare se mette male assai.
Mò stamo a la finestra, ma se poi
toccasse pure a noi?
Sarebbe un guajo! In tutte le maniere,
come italiano e come cittadino
io credo d’avè fatto er mi’ dovere.
Prova ne sia ch’ho proveduto a tutto:
ho preso l’ojo, er vino,
la pasta, li facioli, er pecorino,
er baccalà, lo strutto…. –
E con un’aria seria e pensierosa
aggricciò l’occhi come pe’ rivede
se nun s’era scordato quarche cosa.
Perché, Checco, è così: vô la sostanza,
e unisce sempre ne la stessa fede
la Madre Patria co’ la Madre Panza.
“La speculazzione delle parole”
Una Gallina disse a un Gatto nero:
— So' tre giorni che cerco mi' marito...
Chissà com'è finito!
Pe' di' la verità ce sto in pensiero... —
Er Gatto corse subbito in cucina,
e, ner sentì ch'er pollo era già stato
bello che cucinato,
ritornò addietro e disse a la Gallina:
— Vostro marito passerà a la Storia:
perché fece una morte propio bella,
arabbiato in padella,
framezzo ar pomidoro de la gloria!
J'hanno tirato er collo, questo è vero,
ma lui rimane sempre tale e quale
un martire der Libbero Pensiero
che se sacrificò per l'Ideale...
Anzi, lo stesso coco
che l'ha tenuto ar foco, m'ha ridetto
che, fra l'antre onoranze, tra un par d'ore
sarà commemorato in un banchetto
con un discorso de l'Ambasciatore...
Io stesso, come Gatto, penserò
a sistemaje l'ossa... —
La vedova, commossa, ringrazziò...
Trilussa, famoso già agli inizi della guerra, non abbandonò le frequentazioni delle sue osterie e questo gli permise di tastare il polso della popolazione che, pur non vivendo il dramma di combattimenti e bombardamenti, tuttavia soffriva per la lontananza dei propri cari al fronte e per il timore della loro sorte.
E’ del 1914 la poesia “Ninna nanna”: l’Italia ancora non è entrata in guerra, ma la lucidità del poeta lo porta a riconoscere una sofferenza uguale a tutti gli uomini e l’ipocrisia celata dietro i toni trionfalistici
"Ninna
nanna de la guerra"
Ninna
nanna, nanna ninna,
er
pupetto vò la zinna,
dormi
dormi, cocco bello,
se
no chiamo Farfarello,
Farfarello
e Gujermone
che
se mette a pecorone
Gujermone
e Cecco Peppe
che
s'aregge co' le zeppe:
co'
le zeppe de un impero
mezzo
giallo e mezzo nero;
ninna
nanna, pija sonno,
che
se dormi nun vedrai
tante
infamie e tanti guai
che
succedeno ner monno,
fra
le spade e li fucili
de
li popoli civili.
Ninna
nanna, tu nun senti
li
sospiri e li lamenti
de
la gente che se scanna
per
un matto che comanna,
che
se scanna e che s'ammazza
a
vantaggio de la razza,
o
a vantaggio de una fede,
per
un Dio che nun se vede,
ma
che serve da riparo
ar
sovrano macellaro;
che
quer covo d'assassini
che
c'insanguina la tera
sa
benone che la guera
è
un gran giro de quatrini
che
prepara le risorse
pe
li ladri de le borse.
Fa
la ninna, cocco bello,
finché
dura 'sto macello,
fa
la ninna, che domani
rivedremo
li sovrani
che
se scambieno la stima,
boni
amichi come prima;
so'
cuggini, e fra parenti
nun
se fanno complimenti!
Torneranno
più cordiali
li
rapporti personali
e,
riuniti infra de loro,
senza
l'ombra de un rimorso,
ce
faranno un ber discorso
su
la pace e sur lavoro
pe'
quer popolo cojone
risparmiato
dar cannone.
Del 1916 è “Natale de guerra”. Qui sono più evidenti l’amarezza e la consapevolezza che il mondo è tragicamente cambiato. E le certezze del Bambinello vengono spente dalle desolate risposte della Madre.
"Natale de guerra"
Ammalappena che s'è fatto giorno
la prima luce è entrata ne la stalla
e er Bambinello s'è guardato intorno.
- Che freddo, mamma mia! Chi m'aripara?
Che freddo, mamma mia! Chi m'ariscalla?
- Fijo, la legna è diventata rara
e costa troppo cara pè compralla...
- E l'asinello mio dov'è finito?
- Trasporta la mitraja
sur campo de battaja: è requisito.
- Er bove? - Pure quello...
fu mannato ar macello.
- Ma li Re Maggi arriveno? - È impossibbile
perché nun c'è la stella che li guida;
la stella nun vò uscì: poco se fida
pè paura de quarche diriggibbile... -
Er Bambinello ha chiesto: - Indove stanno
tutti li campagnoli che l'antr'anno
portaveno la robba ne la grotta?
Nun c'è neppuro un sacco de polenta,
nemmanco una frocella de ricotta...
- Fijo, li campagnoli stanno in guerra,
tutti ar campo e combatteno. La mano
che seminava er grano
e che serviva pè vangà la terra
adesso viè addoprata unicamente per ammazzà la gente...
Guarda, laggiù, li lampi
de li bombardamenti!
Li senti, Dio ce scampi,
li quattrocentoventi
che spaccheno li campi? -
Ner dì così la Madre der Signore
s'è stretta er Fijo ar core
e s'è asciugata l'occhi cò le fasce.
Una lagrima amara pè chi nasce,
una lagrima dòrce pè chi more.
Si palesa ormai la tragedia dei reduci. Di coloro che ritornano, scampati alla morte, ma segnati profondamente nel corpo nello spirito nella mente.
"L’Omo nudo"
Appena scoppiò l'obbice, un sordato,
nun se sa come, se trovò in un fosso
senza camicia addosso,
nudo com'era nato.
Provò a sentì, s'accorse d'esse sordo,
provò a parlà, s'accorse d'esse muto.
— Perché sto qui? — pensò — ce so' venuto
o me cianno mannato? Nun ricordo...
Chi so'? che fo? co' chi me so' sbattuto?
Quale sarà la cara Patria mia
ch'ha trovato giustissima la guerra?
È l'Italia, la Francia o l'Inghirterra?
la Russia, la Germania o la Turchia?
Perché la fanno? pe' riavé una terra
o pe' li prezzi de la mercanzia?...
Oggi che l'odio è quasi obbrigatorio
io nun odio nessuno!
Se ce fosse quarcuno
che me ne dasse un antro provisorio
forse risentirei tutto l'amore
che ciavevo ner core... —
Pensò, cercò, ma visto ch'era inutile
pijò una corda e s'impiccò a un cipresso.
E fece bene: l'omo senza Patria
diventa l'assassino de se stesso
Abbiamo conosciuto un Trilussa inedito; sicuramente è più noto per le sue fulminanti poesie brevi, le sue Favole, i suoi sonetti. Anche se qualcuno lo ha accusato di non prendere mai posizione - Trilussa è passato indenne anche dal fascismo e dalla Seconda Guerra mondiale, pur non avendo mai preso né la “tessera” di fascista né quella di antifascista -, ha affidato le sue considerazioni amare e disincantate alle sue poesie, quelle che gli valsero il 1 dicembre 1950, a venti giorni dalla morte, la carica di Senatore a vita per meriti artistici e letterari.
"Bonsenso pratico"
Quanno, de notte, sparsero la voce
che un Fantasma girava sur castello,
tutta la folla corse e, ner vedello,
cascò in ginocchio co' le braccia in croce.
Ma un vecchio restò in piedi, e francamente
voleva dije che nun c'era gnente.
Poi ripensò: "Sarebbe una pazzia.
Io, senza dubbio, vede ch'è un lenzolo:
ma, più che di' la verità da solo,
preferisco sbajamme in compagnia.
Dunque è un Fantasma, senza discussione".
E pure lui se mise a pecorone.
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Prima di ricordare insieme i tristi anni del 1° conflitto mondiale, abbiamo pensato di alleggerire l'angoscia di questo racconto a puntate, che stiamo sviluppando, ricorrendo a un famoso ed elegante poeta del primo Novecento, il romano Trilussa, il cui vero nome era Carlo Alberto Salustri.
Nato nel 1871, Trilussa era un poeta affermato quando scoppiò la guerra: un evento che lo colpì profondamente. Molto note sono le "favole", scritte in dialetto romano, esse hanno come protagonisti gli animali, ognuno dei quali incarna un tipo umano. L'uso del dialetto, come tutte le espressioni popolari, consente di percepire con immediatezza quello che si vuole comunicare.
Nelle sue favole, relative alla guerra, il poeta non esalta né condanna la guerra; con il suo stile scanzonato e malinconico, con il suo ironico scetticismo, Trilussa ci riporta in quel tempo drammatico, cogliendo con lungimiranza le situazioni politiche, le emozioni umane, ma soprattutto la follia di una religione della patria, fondata sul sacrificio eroico dei soldati.