Dotta relazione
del prof. Giovanni Pergolese
Introduzione
È
abbastanza agevole concordare sul fatto che la famiglia appartenga al
patrimonio originario dell’umanità.
Infatti,
il primo ambiente vitale che, in generale, l’uomo incontra venendo
al mondo è la famiglia. Pertanto, la sua minaccia di estinzione
riguarda l’uomo stesso.
Oggi,
influenze culturali, sociali ed economiche contrastano con la
famiglia al punto da ostacolarne la formazione. È
possibile restituirle il valore che le è proprio?
Alla
luce di questa situazione si pone la questione circa il
tramonto o l’eclissi del “valore” famiglia.
Una domanda su tutte: nella
società attuale è ancora essenziale il servizio reso dalla
famiglia? Ne vengono riconosciuti dallo Stato i diritti originari e
connaturali: dalla procreazione responsabile all’educazione della
prole?
Ritratto di Pietro Stanislao Parisi con la famiglia (Giuseppe Tominz - 1849) |
Ripensare
l’intera area della sessualità, del rapporto di coppia, del dono
della vita, del rapporto famiglia-società, facendo fino in fondo i
conti con le acquisizioni della modernità; come pure il superare la
crisi, spirituale e morale avviata dalla seconda guerra mondiale,
drammatica smentita dei miti del progresso e dell’autosufficienza
dell’uomo, portò i padri costituenti a rivedere l’istituto della
famiglia nell’ordinamento giuridico italiano. Ne scaturì una
questione antropologica: la famiglia ritornava ad essere considerata
importante per il futuro dell’umanità, passaggio obbligato sulla
via di un’autentica umanizzazione del mondo.
Un
nuovo umanesimo, dunque, in cui recuperare le radici profonde del
rapporto uomo-donna e dell’esperienza della paternità-maternità:
la
famiglia come luogo della produzione e della trasmissione dell’umano.
Fonti
della presente ricerca: il diritto romano, la legislazione scaturita
dalla rivoluzione francese e la Costituzione Italiana.
-
Premessa storico-giuridica
Nel
mondo romano la parola famiglia deriva dal latino familia.
Indica
un complesso di persone legate tra loro da un rapporto di matrimonio,
di parentela, di affinità. Quella semplice (detta talvolta
elementare o biologica) costituita da un padre, da una madre e dai
loro figli, è l’unità base di ogni gruppo sociale, sia essa
patrilinea o matrilinea1.
La
natura e la storia della familia
romana si possono comprendere distinguendo gli istituti familiari che
si riferiscono alla familia,
o familia
iure proprio,
che è la famiglia schiettamente romana, da quelli che riguardano
invece i rapporti di sangue e cioè la famiglia domestica (per la
quale il linguaggio giuridico romano non ha un termine preciso).
L’evoluzione
storica si compie per grandi linee, nel senso di un lento progressivo
dissolversi dei primi istituti giuridici in favore dei secondi: ma
non è possibile segnarne con esattezza le tappe, come è
estremamente difficile risalire alle origini. La struttura primitiva
della familia
ha costituito per storici e giuristi un problema: fu concepita come
società patriarcale, sull’esempio della famiglia dell’antichità
biblica (H.I.Summer Maine, Th.Mommsen); si diede il massimo risalto
al suo carattere sacro, considerandola come una comunanza di culto e
di sacra
(N.D.
Fustel de Coulanges); fu veduta come organismo sociale formatosi
dalla scissione di gruppi maggiori (E. Meyer), e prevalentemente come
organismo economico ( V. Arangio – Ruiz). Ma la maggior luce su
queste origini è venuta dalla teoria di P. Bonfante, che ha visto
nella familia
romana un gruppo preesistente alla civitas,
nato per ragioni di ordine e difesa come vero e proprio organismo
politico che ha i caratteri essenziali dello stato e ne adempie le
funzioni. Questa ipotesi spiega i poteri del paterfamilias,
in tutto simili a quelli del capo di un gruppo politico. L’evoluzione
si compie nel senso di un rafforzamento dei poteri della civitas,
mentre la familia
sopravvive come società domestica intesa a mantenere l’ordine
etico nelle relazioni tra i due sessi, e aventi per scopo la
procreazione e l’educazione dei figli. La familia
è sottoposta al paterfamilias
che statuisce sopra di essa.
Il
quadro della famiglia naturale vivente all’interno della familia
romana è il seguente. I rapporti giuridici non dipendenti dalla
patria
potestas
fra genitori e figli sono regolati dai vincoli di sangue: i figli non
possono agire in giudizio contro i genitori senza l’autorizzazione
del magistrato, né possono intentare azioni infamanti contro di
loro; i genitori godono di fronte ai figli del beneficium
competentiae,
e gli uni e gli altri sono esenti dall’obbligo della testimonianza.
I genitori sono obbligati ad educare la prole e hanno diritto a
tenerla presso di sé. Sotto l’impero sorge il diritto reciproco
agli alimenti. Ma il capolavoro di questo ordinamento domestico è il
matrimonio, basato sulla volontà continua ed effettiva di essere
marito e moglie, e sulla convivenza, intesa non soltanto in senso
materiale, ma come esistenza di quel complesso di relazioni che i
Romani designano col nome di honor
matrimonii.
Con
l’avvento
del cristianesimo,
e soprattutto a partire dall’altomedioevo, l’istituto della
famiglia fu profondamente influenzato dalla legislazione
ecclesiastica, che ne affermò la sacramentalità e, contro talune
tesi, codificò l’indissolubilità del matrimonio, nonché il
principio monogamico. Si cominciò a considerare il “consenso”
nel momento in cui veniva dichiarato, con coscienza e volontà, e non
più come consenso continuato, suscettibile di venir meno per volontà
delle parti. Dove invece l’opera della Chiesa non riuscì, fu
nell’eliminazione della differenza tra maschi e femmine, portata
dal diritto feudale. La
disparità di trattamento tra i figli nella successione
sarà superata solo dalla Rivoluzione francese, che segnò anche
l’avvento della concezione laica della famiglia col prevalere del
movimento filosofico razionalista. Questa affermazione
della laicità della famiglia,
pur toccando l’idea sacramentale del matrimonio, non incise sul
contenuto sociale dell’istituto familiare nelle linee fondamentali
che il Cristianesimo aveva elaborato, e anzi con l’avocarne allo
stato l’integrale disciplina, ne assunse il concetto informatore.
Il codice napoleonico ne fu la tipica espressione, dettando al mondo
le linee maestre di un’organizzazione
familiare intesa come nucleo elementare ed essenziale
dell’organizzazione dello stato,
tutt’oggi pressoché intatte2.
L’ordinamento
giuridico italiano considera la famiglia sotto due diversi profili:
da un lato come istituzione sociale, dall’altro come vincolo
reciproco che corre tra due o più persone anche indipendentemente
dalla convivenza, e che è produttivo di determinati doveri
giuridici.
La
nostra Costituzione dedica alla famiglia (istituzione sociale) una
serie di disposizioni3,
dalle quali si evincono la sua natura e la sua rilevanza giuridica,
nonché altre forme di convivenza4.
Va
evidenziata la scelta compiuta dai nostri costituenti di inserire la
famiglia nella Costituzione. Non si trattava di una scelta scontata,
anzi essa andava contro tutta la nostra tradizione costituzionale e
legislativa.
Lo
Statuto
Albertino
(1848), che per oltre un secolo aveva rappresentato la Costituzione
del Regno d’Italia, aveva sempre ignorato la famiglia.
Lo
Stato
liberale,
pur tutelando la famiglia l’aveva relegata nel codice civile
(1865), ossia tra gli istituti e i rapporti di diritto privato,
valorizzando di essa soprattutto gli aspetti patrimoniali derivanti
dal matrimonio, che caratterizzarono la famiglia borghese individuata
dal Codice napoleonico del 1804, al quale si ispirarono le successive
codificazioni europee dell’Ottocento.
Il
regime
fascista
aveva invece considerato la famiglia a servizio dello Stato col
prevedere il dovere dei genitori di educare e istruire la prole,
oltre che in base ai “principi della morale”, in conformità al
“sentimento nazionale fascista” (art. 147 cod. civile del 1942
nel testo originario).
I
nostri costituenti vollero superare queste posizioni e riconoscere
la famiglia come realtà originaria e primigenia rispetto allo Stato,
ma al tempo stesso, trattandone nell’ambito dei “Rapporti
etico-sociali” (Titolo II, Prima parte) insieme alla scuola5,
ne riconobbero le funzioni tipiche per la promozione e lo sviluppo
della persona umana. Il problema venne sollevato all’inizio del
dibattito in Assemblea quando V.E. Orlando presentò nella seduta del
23 aprile 1947 un ordine del giorno in cui proponeva la cancellazione
degli articoli dedicati alla famiglia e il loro eventuale inserimento
in un Preambolo della Carta. I costituenti cattolici e le sinistre
respinsero l’o.d.g. di V. E. Orlando. Cosi facendo l’Assemblea
manifestò chiaramente la sua volontà di inserire
la famiglia tra le istituzioni cardine del nuovo assetto
costituzionale anche nella prospettiva della difficile ricostruzione
del tessuto economico e sociale del paese, sottolineandone la
specifica rilevanza sociale e valoriale.
Nella
Costituzione,
quindi, la famiglia
rileva
non come fondamento dei rapporti economici della società, bensì
come
comunità naturale costituita dall’unione tra un uomo e una donna,
con assunzione di reciproci diritti e doveri mediante il matrimonio,
ove si sviluppa la persona umana in un contesto di reciproca
solidarietà tra più generazioni.
2.
La nozione di famiglia
Il
nucleo centrale della definizione della famiglia è dato dall’art.
29 della Costituzione, che recita: “La
Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale
fondata sul matrimonio”. L’uso
del verbo “riconoscere”
rimanda alla visione dell’anteriorità sociale della famiglia
rispetto allo Stato. Si tratta di un’espressione che ricorre anche
nell’art.
2,
ove si afferma che la
Repubblica “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo,
sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità”,
e nell’art.
5,
ove si dice che essa
“riconosce e promuove le autonomie locali”.
In
questi casi la Costituzione ha inteso rimarcare l’esistenza
di situazioni che precedono la Repubblica e che favoriscono la
crescita della persona nella famiglia, luogo di affetti e di
relazioni solidali, e in comunità locali per maturare la sua
partecipazione alla vita politica e sociale del paese.
La
definizione della famiglia come “società naturale fondata sul
matrimonio”, richiamando il concetto di natura, rifletteva un’idea
religiosa e razionale di famiglia (l’unione
tra un uomo e una donna per la procreazione dei figli).
Affermava inoltre il principio di eguaglianza tra i coniugi: “il
matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei
coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità
familiare”.
Il
codice civile (1942) assegnava nel matrimonio un indiscutibile
primato al marito sia nei rapporti coniugali sia nella potestà sui
figli. Solo con la riforma del diritto
di famiglia (1975)
il principio dell’uguaglianza tra i coniugi fu introdotto nella
disciplina civilistica e fu attuato anche sul piano dei rapporti
patrimoniali, con l’introduzione del regime di comunione
legale dei beni.
Nel suo complesso, quindi, l’art. 29 Cost. individua la famiglia
come una comunità “naturale”, ossia dotata di una propria
fisionomia e di una propria autonomia che vanno oltre il diritto. Nel
contempo il richiamo all’istituto matrimoniale e al principio di
eguaglianza morale e giuridica dei coniugi apriva uno spazio
legislativo per la tutela dei diritti individuali con riferimento
all’evoluzione sociale e culturale del paese.
3.
Il tema della filiazione
Alla
filiazione è dedicato l’art. 30 della Costituzione, secondo il
quale “è
dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli,
anche se nati fuori dal matrimonio”.
La disposizione, nella sua apparente semplicità, afferma una serie
di principi.
In
primo luogo, tenuto conto della anteriorità della famiglia rispetto
allo Stato, riconosce il
diritto,
non più solo il dovere (come nel testo originario del codice civile
del 1942), dei
genitori di svolgere la loro funzione educativa nei confronti dei
figli.
Si individua nella cura della prole la ragione fondamentale, anche se
non esclusiva, di quel favor
familiae
cui è ispirato il testo costituzionale. Pertanto, nel successivo
art. 31 Cost. le forme di aiuto e sostegno alla famiglia sono
specificamente finalizzate alla sua “formazione”
e all’“adempimento
dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie
numerose”.
In
secondo luogo
la disposizione afferma tale diritto e dovere dei genitori anche nei
confronti dei figli “nati fuori dal matrimonio”, prevedendo
altresì che la legge assicuri ad essi “ogni tutela giuridica e
sociale, compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia
legittima”.
Si tratta del
principio dell’equiparazione della tutela giuridica dei figli
naturali a quelli legittimi. Viene
così recepito un criterio di civiltà giuridica, consistente nel non
far ricadere sui figli le colpe dei genitori. Questa tendenziale
equiparazione incontra ancora una serie di limiti nell’ordinamento
italiano vigente, primo fra tutti quello del mancato riconoscimento
del figlio naturale da parte di parenti del padre e/o della madre, in
quanto
il riconoscimento del figlio naturale produce effetti solo nei
confronti del singolo genitore che l’ha effettuato.
Questa minore tutela rispetto ai figli legittimi comporta che al
figlio naturale riconosciuto sia precluso non solo di succedere a
fratelli, zii, nonni, etc., ma anche che venga adottato da parte di
altri parenti, per esempio i nonni.
Infine,
anche i genitori dei figli nati fuori del matrimonio hanno il
diritto, non solo il dovere, nei confronti dello Stato, di mantenerli
istruirli ed educarli.
4.
Altre forme di convivenza
Un
tema sensibile è quello della rilevanza giuridica di altre forme di
convivenza diverse dal matrimonio. In realtà, da molti anni anche
nel nostro paese l’argomento forma oggetto di approfondimento. Si è
arrivati ad estendere taluni benefici previsti per il coniuge anche
al convivente more
uxorio.
L’aspetto
nuovo
è
ricomprendere nel concetto di coppie di fatto anche forme di
convivenza tra persone dello stesso sesso,
ponendo questioni che vanno ben oltre il dato del matrimonio, e che
si ricollegano piuttosto alle posizioni più radicali della
c.d. ideologia di genere (gender), nel cui ambito l’esclusione
delle coppie dello stesso sesso (omosessuali) dal matrimonio o da
altre forme di riconoscimento pubblico viene presentata come un atto
di discriminazione dell’individuo derivante dal proprio
orientamento sessuale.
Da
qui la tendenza recente da parte del legislatore di affrontare il
tema delle convivenze sulla base dell’indifferenza
del sesso dei conviventi,
assegnando alla legge il compito non più soltanto di contrastare
ogni forma di discriminazione dell’individuo per il suo
orientamento sessuale ma anche di promuovere l’omosessualità sul
piano etico e sociale, mediante il riconoscimento alle convivenze tra
due persone dello stesso sesso di sussidi e benefici pubblici.
Occorre porre attenzione al fatto che, paradossalmente, non finiscano
per essere discriminate le famiglie delle coppie eterosessuali, che
non vengono difese da quei gruppi di potere, la cui influenza nei
mezzi di comunicazione sociale (cinema, televisione e stampa) è
ormai un dato palese.
Posta
in questi termini, la questione della rilevanza giuridica di forme di
convivenza diverse dal matrimonio introduce elementi di forte
discontinuità rispetto alle convivenze more
uxorio.
È infatti evidente la differente rilevanza che assumono sul piano
costituzionale le convivenze eterosessuali rispetto a quelle
omosessuali, e ciò non per una valutazione di ordine morale quanto
per l’oggettiva diversità delle due situazioni.
Per
le convivenze eterosessuali vale, in presenza di figli, la rilevanza
giuridica che deriva dagli artt. 30 e 31 Cost. a tutela
dell’interesse dei minori, anche quelli nati al di fuori del
matrimonio. Il che consente di ribadire che il
primato riconosciuto alla famiglia
fondata sul matrimonio non è da intendersi come una sorta di
privilegio, ma deriva
da dati e valutazioni etico-giuridiche, che tendono a “premiare”
una ben precisa formazione sociale per i benefici che essa arreca
alla collettività
(bene comune).
Per
le coppie dello stesso sesso
manca invece il riferimento alle disposizioni costituzionali in
materia di matrimonio e famiglia (artt. 29-31), mentre per esse è
ricorrente il richiamo all’art. 2 Cost.,
nel quale si afferma che “la
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo,
sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità (…)”.
Sulla base di questa norma costituzionale diventa possibile
riconoscere alle coppie dello stesso sesso gli stessi diritti delle
coppie eterosessuali, che convivono more
uxorio.
Ogni formazione sociale che pretenda determinati benefici o forme di
sostegno da parte della comunità non può sottrarsi ad una previa
verifica di congruità con il
bene comune, che si concretizza nell’utilità sociale.
Alla
luce di queste considerazioni, possiamo affermare che la famiglia, in
tutte le sue forme, valutate con riferimento al bene comune, è un
valore dell’umanità a prescindere dalle diverse tendenze
ideologiche.
Il
suo tramonto, nonostante i più svariati tentativi posti in essere da
modelli culturali che negano la persona, è ancora molto lontano dal
verificarsi.
Appendice
Al
termine della relazione si sono avuti degli interventi meritevoli di
considerazione circa le coppie di fatto, il ruolo della copia
etero-sessuale nell’equilibrio psicologico e nell’educazione dei
figli, l’età nell’adozione e la deriva della famiglia
nell’attuale società.
Senza
dubbio le coppie di fatto eterosessuali sono presenti nella
Costituzione sin dall’inizio. Il loro ruolo risulta equiparato a
quello della famiglia fondata sul matrimonio con gli stessi diritti e
doveri in relazione all’educazione dei figli. Spesso dalle coppie
di fatto si ricava una esemplarità notevole in relazione alla
fedeltà che porta la loro unione a durare tutta la vita. Il rispetto
della libertà di scelta è senza dubbio un valore.
Circa
il ruolo dei genitori nell’equilibrio psicologico dello sviluppo,
della formazione e dell’educazione dei figli non ci sono dubbi sul
privilegio accordato dai padri costituenti al modello della famiglia
di coppia eterosessuale fondata sul matrimonio. Gli studi psicologici
nella loro totalità, salvo rare eccezioni, per lo sviluppo psichico
dei minori ritengono fondamentale il ruolo del papà e della mamma.
Per
quanto concerne il fattore età nell’adozione occorre sottolineare
il fatto che la legge attualmente vigente considera l’età come un
termine perentorio. A mio avviso, la tutela dell’interesse del
minore sancita nel nostro ordinamento potrebbe dare una soluzione al
problema soprattutto in presenza dei nonni.
Circa
la deriva della famiglia oggi, che sarebbe sotto gli occhi di tutti,
bisognerebbe avere il coraggio di continuare a dare fiducia ai
giovani, tenuto conto che il valore originario e primigenio della
famiglia si trasmette di generazione in generazione al di là della
legge e in ragione dell’amore reciproco dei coniugi e della cura
prestata nell’educazione dei figli.
Bibliografia
Busnelli
F.D.,
«La famiglia e l'arcipelago familiare», in Riv. dir. civ. 2002, p.
509-ss.
Cavana
P., Lezioni
di diritto Costituzionale sul ruolo della famiglia
https://www.docsity.com/it/lezione-cavana/601906/
(10.03.2017)
D’Agostino
F.,
«Le coppie omosessuali, problema per i giuristi», in Iustitia,
1994, p. 77-ss.;
Ferrando
G.,
«Le unioni di fatto tra disciplina per legge e autonomia privata»,
in Quad. dir. pol. eccl. 2002/1, p. 197-ss.;
Frezza
G.
(a cura di), «Trenta anni dalla riforma del diritto di famiglia»,
Milano 2005;
Grossi
P. F.,
«Lineamenti di una disciplina della famiglia nella giurisprudenza
costituzionale italiana», in Dir. fam. pers. 2015, II, p. 587-ss.;
Marano
V.,
Le
unioni di fatto. Esperienza giuridica secolare e insegnamento della
Chiesa,
Milano 2015;
1
Cfr. G. Treccani,
Dizionario Enciclopedico Italiano, Istituto Poligrafico dello
Stato, Roma 1970.
2
Cfr. G. Treccani, op.cit., v. IV, voce famiglia.
3
Cfr. Costituzione Italiana,
artt. 29-31, 37.
4
Ibidem, art. 2.
5
Ibidem, artt. 33-34.
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