Relazione di Silvia Laddomada
Oggi è l’ultimo giorno di carnevale, martedì grasso. Domani le Ceneri, giornata di purificazione, di astinenza e digiuno per la Chiesa Cattolica: ci si prepara alla Quaresima, i quaranta giorni che precedono la Pasqua (escluse le domeniche).
Carnevale è cominciato il 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate e, secondo la tradizione, si dice: “a sant’Antun, masc’chr e sun” (a Sant’Antonio maschere e suoni).
Perchè a febbraio festeggiamo il Carnevale? E perché l’ultimo giorno è chiamato grasso?
Questi festeggiamenti popolari affondano le radici nella notte dei tempi. Già gli Egiziani, al tempo dei Faraoni (2000 anni a.C.) svolgevano dei riti sacrificali al dio Nilo (fiume). Si mascheravano, facevano sfilare i buoi e li accompagnavano cantando. Oppure celebravano dei riti per la dea Iside, si cantava, si ballava, si beveva, per festeggiare il ritorno della primavera, e quindi la ripresa della navigazione.
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Auguri di compleanno a Maria Pia Santoro e a Giacomo Salvemini | | | | | |
Notevole è, però, l’eredità delle tradizioni greche e romane arcaiche. Il nome Febbraio deriva dal verbo latino februere, che significa purificare. In questo mese gli antichi romani celebravano il rito di passaggio, di purificazione, dalla morte alla vita, della natura; festeggiavano il ritorno alla fertilità della terra dopo il torpore invernale. Una settimana di festa, i Saturnalia, dicevano i romani. Si rievocava l’età dell’oro del dio Saturno (Cronos per i greci), capo degli dei, che aveva garantito agli uomini il benessere, e si auspicava un raccolto abbondante per l’anno che cominciava. In questi giorni la gente si abbandonava ad una vita sregolata, il re dei Saturnali, un popolano che metteva in caricatura i nobili, assumeva i poteri e organizzava la festa, sfilando per le vie seguito dai carri festosi tirati da animali bardati in modo bizzarro. Le persone si vestivano in modo buffo, si coprivano il volto con maschere orribili, si rincorrevano, si colpivano. Facevano questo per allontanare gli spiriti maligni e fare baldoria con le divinità infernali che, si pensava, vagassero sulla terra in inverno. I riti, i sacrifici, servivano a farli ritornare nell’aldilà, e favorire il raccolto. I travestimenti rendevano tutti uguali, padroni e servi, ricchi e poveri, i ruoli si invertivano. E nell’ultimo giorno organizzavano grandi tavolate, dove tutti si abbuffavano, tra balli, canti, battute oscene, comportamenti dissoluti.
Il giorno dopo, le gerarchie sociali si ricomponevano, ma almeno, in quell’ultimo giorno, tutti si erano divertiti, tutto era stato permesso, in nome del Caos, del Disordine. Si era vissuta la festa dei pazzi. Era finito il Carnevale, che forse all’origine significava: “carrum navalis”, cioè carro navale, con riferimento al carro allegorico, a forma di barca, con cui i Romani inauguravano i Saturnali.
Questi Saturnali romani si rifacevano, a loro volta, alle Dionisie, feste pagane greche, organizzate in onore di Dionisio, dio del vino (Bacco per i romani, che organizzavano anche le Baccanali, in onore di Bacco), durante le quali era consentito abbandonarsi ad ogni forma di ebrezza.
Un’altra festa romana, antenata del Carnevale, era quella dei Lupercali: a metà febbraio, un gruppo di celebranti (Luperci- lupacchiotti) si recavano in un bosco, e presso una grotta ai piedi del Palatino, dove si riteneva fossero stati allattati da una lupa i gemelli Romolo e Remo, uccidevano delle capre e ungevano col sangue la fronte di due bellissimi e giovani nobili. Questi ridevano e cominciava la festa. I lupacchiotti si mascheravano indossando pelli di lupo, tagliavano a strisce le pelli delle capre, le arrotolavano e poi correndo le srotolavano.
Nel Medio Evo (476 d.C. - 1492) la Chiesa pose un freno a questi giochi goliardici, i riti persero il carattere magico, divenendo forme di divertimento popolare, ma nonostante i veti, le censure, il Carnevale continuò a sopravvivere. A volte proprio in chiesa, si assisteva agli “scherzi da prete”: dall’altare si lanciavano dolci fritti e salsicce, per rallegrare i fedeli prima della Quaresima e predisporli all’ascolto degli insegnamenti religiosi.
Il divertimento durava due settimane; ripetendo i Saturnali, il popolo si mascherava, uomini e donne si travestivano, sovvertivano le regole sociali e morali, correvano, si battevano con bastoni e pietre. I nobili duellavano elegantemente nelle sale dei castelli. “Semel in anno licet insanire”, si ripeteva, “ almeno una volta all’anno è lecito essere folli”. A conclusione si organizzava un abbondante banchetto, all’insegna del gioco libertino e del travestimento, il nostro martedì grasso: bisognava consumare tutte le prelibatezze presenti in casa: carne, pesce, uova, latticini. Il significato del carnevale cambiava: “carnem levare”, eliminare la carne, come penitenza dopo queste scorpacciate. Il culmine della festa si raggiungeva con il rogo del fantoccio, sempre l’ultimo giorno. La burlesca figura del re del Carnevale, che faceva rivivere la figura del re dei Saturnali, veniva sacrificata. Purtroppo inizialmente era impersonato da un uomo, che veniva ucciso per il bene della collettività, poi venne sostituito da un fantoccio di paglia, che la sera del martedì era la vittima designata. Morendo, esso purificava la comunità, era il capo espiatorio dei mali dell’anno precedente.
Il rito era giocoso: c’era il processo, la condanna, la lettura del testamento, la morte, il funerale, il corteo seguito da gente in gramaglie.
Il giorno dopo, le Ceneri, la Chiesa richiamava i Cristiani all’astinenza e digiuno, li richiama ancora oggi alla riflessione e alla riconciliazione con Dio. Il giorno delle Ceneri è un giorno in cui l’uomo deve riflettere che è polvere, deve ritornare a mettere al centro della propria vita Dio, non Bacco.
Nel 1500, età del Rinascimento, i festeggiamenti in occasione del Carnevale assunsero forme più raffinate, legate al teatro, alla musica e alla danza. La gente, a qualsiasi classe sociale appartenesse, partecipava a sfarzosi spettacoli, organizzati per tutti dai Signori delle città. Famose erano le mascherate con carri riccamente addobbati: i Trionfi, circondati da gente in costume che intonava canti scritti per l’occasione: i canti carnascialeschi, a volte un po’ irriverenti. Molto noto è “il Trionfo di Bacco e Arianna”, canto scritto per il carnevale del 1490 da Lorenzo dei Medici
(Lorenzo il Magnifico), signore di Firenze, in cui è ripetuto, come ritornello, l’invito a cogliere l’attimo presente, dimenticando ogni tristezza:“Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol essere lieto sia: di doman non c’è certezza”.
Per rendere più festoso il percorso dei carri si lanciavano i semi del coriandolo glassati con lo zucchero (Il coriandolo è detto anche prezzemolo cinese, appartiene infatti alla famiglia del prezzemolo). Poi si introdusse il lancio di piccole palline di gesso. In modo artigianale si preparavano dolci fritti, che variavano, nel nome, da città a città. Fritti perché era più veloce la cottura, e poi perché le famiglie disponevano di abbondanti quantità di grasso animale, di strutto, derivante dal fatto che a gennaio o febbraio era prevista la macellazione dei suini.
Si delinea così il Carnevale italiano, con le pubbliche parate, le sfilate, la gente mascherata, l’uso di carri allegorici con l’aggiunta di fantocci di cartapesta, sapientemente e tecnologicamente in movimento, ognuno dei quali sviluppa un tema, che spazia dalla satira politica, dalla storia alla religione, dalla denuncia sociale all’attualità.
I simboli ci sono tutti: i coriandoli, che oggi sono piccoli dischetti multicolori di carta leggera, che danno colore e allegria alla festa. Le stelle filanti, che ricordano le strisce srotolate di pelle di capra dei lupercali. I manganelli di plastica, a volte riempiti con sassolini, che ricordano i bastoni e le pietre con cui la gente del Medio Evo colpiva i passanti, per scherzo. Il satirico funerale di Carnevale, responsabile delle inadempienze degli amministratori
A Carnevale ogni scherzo vale, diciamo oggi, quasi a giustificare quella moderata follia che anche a noi è concessa, almeno una volta all’anno. E poi abbiamo ereditato e trasmettiamo alle giovani generazioni, la tradizione dei dolci fritti, ciambelle, frittelle, castagnole, chiacchiere, che abbiamo imparato a fare anche al forno.
Ma l’aspetto più caratteristico del Carnevale è il mascheramento, il travestimento. Oggi ogni regione ha le sue maschere, e ogni maschera ha un costume e un carattere che la distingue.
L’uso della maschera è antichissimo. Nella preistoria essa veniva usata nei riti magico-religiosi, per nascondere le fattezze umane e allontanare gli spiriti maligni, poi nelle feste popolari, nel Carnevale, abbiamo detto. Ci si maschera per uscire dal quotidiano, per disfarsi del proprio ruolo sociale, per sentirsi un altro.
La parola deriva dall’arabo mascharat, che significa burla, buffonata. Nel teatro greco e latino le maschere venivano usate dagli attori per sottolineare la personalità o il carattere del personaggio messo in scena, visto che spesso un solo attore interpretava più ruoli.
Le maschere per eccellenza sono nate con la Commedia dell’Arte, nel 1600. Si tratta di spettacoli teatrali improvvisati, destinati a un pubblico che si divertiva in modo sguaiato, per i contenuti sconci e il linguaggio scurrile degli attori.
La Chiesa non condivideva questa forma di spettacolo, le autorità ecclesiastiche e, a volte, anche quelle civili, censuravano gli spettacoli e, idealmente, ogni attore aveva sulla fronte una bolla d’infamia; alcuni erano più concilianti, San Carlo Borromeo, ad esempio, ammirava la commedia,
ma esigeva dagli attori molta moderazione. Il motto latino che la satira “castiga ridendo mores”, non sempre era appropriata alla scurrilità dei contenuti.
Erano spettacoli che si tenevano all’aperto, con una scenografia essenziale, le compagnie erano formate da 10 attori, 8 uomini e 2 donne; la presenza delle donne sul palcoscenico era un elemento dirompente, rivoluzionario. Gli attori non imparavano a memoria il copione, ma improvvisavano i dialoghi, basandosi su un canovaccio. L’autore indicava i punti essenziali, la successione delle scene, gli imbrogli, gli intrecci della vicenda, i colpi di scena, la sequenza delle entrate e uscite dei personaggi e l’obbligatorio lieto fine.
Ogni attore possedeva un repertorio di scene comiche (lazzi), di battute ad effetto (frizzi), per suscitare l’ilarità del pubblico. Egli rappresentava sempre lo stesso personaggio, così nel tempo questo personaggio diventava sempre più preciso, più fisso, più persona, fino al punto che il nome dell’attore finiva per confondersi con quello della maschera, del tipo “fisso”, che egli portava sul palcoscenico. Personaggi tipici erano il servo sciocco o imbroglione, la cameriera pettegola, il soldato fanfarone, il dottore e l’avvocato inconcludente, il mercante avaro e brontolone, gli innamorati di buona famiglia.
Il carattere del personaggio era perfettamente riconoscibile già dalla sua entrata in scena.
Gli attori comici erano buffoni, ma erano artisti, erano teatranti di mestiere, tenevano conto del pubblico che avevano di fronte e sapevano farlo divertire, calibrando il loro linguaggio, la mimica, la battuta. Si addestravano anche in contorsioni, piroette, salto mortale; si specializzavano nel canto e nella danza, nel canto onomatopeico, per imitare gli strumenti musicali, rifare i versi degli animali. Per rendersi irriconoscibili si impiastricciavano il viso col mosto, poi furono introdotte le maschere di cuoio, che a volte gli attori toglievano, soprattutto se la parte da interpretare richiedeva una forte mimica facciale o quando era necessario facilitare la respirazione o la dizione, nell’interpretare azioni violente.
Con la Commedia dell’arte, i personaggi ereditavano dal Carnevale antico il gusto dello scherzo, la battuta, il travestimento e, a loro volta, offrivano al Carnevale i loro costumi tipici.
Nascevano così figure come Arlecchino e Pulcinella, per citare le più popolari.
Arlecchino servo furbo, a volte sciocco e bugiardo, in perenne litigio col suo padrone.
Pulcinella, con la gobba e il naso adunco, misteriosa maschera napoletana, servo buffo e chiacchierone, amante del dolce far niente, spesso oggetto di bastonate spassose.
Poi il repertorio delle maschere si è ampliato, ogni regione ha le sue, nelle quali si rispecchia l’indole degli abitanti. Ne ricordiamo alcune:
Pantalone, vecchio mercante veneziano, avaro e lussurioso, che insidia cortigiane e servette.
Pierrot, servo intelligente, che esegue gli ordini volutamente al contrario, eternamente innamorato, dolce e malinconico.
Meneghino, servo spiritoso e impegnato, ma dignitoso e saggio, amante della libertà, emblema del popolo milanese.
Gianduia, allegro galantuomo torinese, amante del buon vino e della buona tavola.
Brighella, amico di Arlecchino, protagonista di tanti intrighi, furbo e bugiardo, agile nell’escogitare trappole in cui far cadere gli altri.
Colombina, famosa servetta veneziana, eterna fidanzata di Arlecchino, vanitosa, civettuola, arguta e maliziosa.
Rosaura, raffinata figlia di Pantalone, che si affida alla cameriera Colombina per comunicare col suo amico Florindo.
Rugantino, maschera romanesca, litigioso e inconcludente gendarme, che affina col tempo il cipiglio militaresco per incarnare la bonarietà e sensibilità della Roma popolare.
Balanzone, dotto e sapiente bolognese, ma dottore e giurista brontolone e inconcludente.
Sandrone, contadino modenese, grossolano e ignorante, che cerca di apparire più istruito di quanto non lo sia, i sforzandosi di parlare in italiano pasticciato e senza senso.
Poi ci sono i vari capitani (Fracassa, Spaventa, Zerbino) che modificano il costume variando il tempo e il luogo, ma conservano atteggiamenti fanfaroni e militareschi.
Sono diventate 50 le maschere italiane ufficiali sparse nelle regioni. Incarnano vizi e virtù del popolo, impersonano aspetti eterni e immutabili dell’animo umano.
Oggi la tradizione continua,con gruppi mascherati, con cari allegorici e grotteschi che sfilano per le vie delle città e dei paesi (famosi Viareggio, Venezia, Acireale, Cento, Ivrea, Putignano..)
E noi , come dice Pirandello, non ricorriamo spesso alle maschere? Quante volte incontriamo o siamo, nella vita quotidiana, un Pulcinella, un Arlecchino, una Colombina, un Pantalone? La vita è una recitazione, è un eterno Carnevale! Senza irriverenza per i veri valori!
La maschera
Vent'anni fa m'ammascherai pur'io!
Letta da Nadia BUMBI
E ancora tengo er grugno de cartone
che servì p'annisconne quello mio.
Sta da vent'anni sopra un credenzone
quela Maschera buffa, ch'è restata
sempre co' la medesima espressione,
sempre co' la medesima risata.
Una vorta je chiesi: - E come fai
a conservà lo stesso bon umore
puro ne li momenti der dolore,
puro quanno me trovo fra li guai?
Felice te, che nun te cambi mai!
Felice te, che vivi senza core! -
La Maschera rispose: - E tu che piagni
che ce guadagni? Gennte! Ce guadagni
che la genti dirà: Povero diavolo,
te compatisco... me dispiace assai...
Ma, in fonno, credi, nun j'importa un cavolo!
Fa' invece come me, ch'ho sempre riso:
e se te pija la malinconia
coprete er viso co' la faccia mia
così la gente nun se scoccerà... -
D'allora in poi nascónno li dolori
de dietro a un'allegia de cartapista
e passo per un celebre egoista
che se ne frega de l'umanità!
(Trilussa)
tratta da "Tavole Moderne"
CLAIR DE LUNE da Fetes galantes - 1 ( 1869 )
Paul Verlaine - Poeta simbolista ( 1844 - 1896 )
Votre âme est un paysage choisi
Que vont charmant masques et bergamasques,
Jouant du luth et dansant et quasi
Tristes sous leurs déguisements fantasques.
Tout en chantant sur le mode mineur
L’amour vainqueur et la vie opportune,
Ils n’ont pas l’air de croire à leur bonheur
Et leur chanson se mêle au clair de lune,
Au calme clair de lune triste et beau, LETTA DA:
Qui fait rêver les oiseaux dans les arbres
Et sangloter d’extase les jets d’eau,
Les grands jets d’eau sveltes parmi les marbres. Anna PRESCIUTTI
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e
Chiaro di Luna Pietro SPEZIALE
L'anima vostra è uno squisito paesaggio
che maschere e bergamaschi incantano
suonando il liuto e danzando, quasi
tristi nei fantastici travestimenti!
Cantando in tono minore
l'amore vittorioso e la fortuna
non han l'aria di credere alla felicità
e il loro canto si fonde col chiaro di luna,
col calmo chiaro di luna triste e bello
che fa sognare tra i rami gli uccelli
e singhiozzare estasiati gli zampilli,
gli alti zampilli, slanciati fra i marmi.