Due anni fa veniva a mancare il prete di San Simone, che amava il suo paese
Anna Sorn
Alle
ore 08.20 di Martedì 17 Dicembre 2013 è morto don Romano Carrieri.
Un
sacerdote che i parrocchiani della Sacra Famiglia di Taranto, di S.
Domenico di Martina, di S. Michele di San Simone (Crispiano), di
Crispiano stessa, sua terra natale, non hanno mai dimenticato e del
quale hanno continuato a cercare il conforto sempre e che lui,
nonostante le tante prove fisiche che in alcune occasioni lo hanno
costretto ad allontanarsi fisicamente dai suoi figli spirituali, ha
avuto presenti in ogni istante della sua vita.
Era
amato e amava come un padre amorevole, ma giustamente severo.
A
me, che gli chiedevo cosa avesse rappresentato per lui il sacerdozio
e se mai avesse avuto qualche minimo dubbio sulla sua vocazione, col
solito sorriso che gli illuminava lo sguardo, non esitava a dirmi:
“Mai!
Nemmeno per un attimo! Sento di vivere gioiosamente l’affermazione
di San Massimiliano Kolbe, poeta polacco ucciso, nel 1941, dai
Tedeschi nel campo di Auschwitz: “Se potessi nascere cento volte
ancora, cento volte ancora mi farei prete”.
Più
arduo era l’incarico, più lo appassionava.
Particolarmente tale fu quello che lo vide, in prima linea, alla
Salinella, dove per circa 30 anni perseguì con entusiasmo e
generosità l’intento certamente di svolgere il suo ufficio
sacerdotale, ma dove cercò anche di trasformare la Parrocchia in una
grande famiglia, come affermava Mons. Motolese ogni volta che
capitava da lui, per una ragione o per un’altra: “Don Romano mio,
la tua non è una parrocchia, ma una grande famiglia”.Chiamava
la sua esperienza sacerdotale “un lavoro stupendo”.
E
infatti diceva: “Come famiglia ho trattato sempre quella gente che
sentivo mia, in maniera cara, al mio spirito sempre, nella prosperità
di alcune famiglie e nelle ristrettezze di molte altre, correndo
dov’era la gioia per moltiplicarla e, con la stessa sollecitudine,
la dov’era una sofferenza da lenire, per alleggerirla
condividendola”.
Egli
“viveva insieme” con i suoi parrocchiani, nel rispetto, nella
comprensione, nell’amore reciproco.
Fin
dagli anni del Seminario, aveva sperimentato lo studio serio e
sistematico della Musica e, fino all’ultimo giorno della sua vita,
aveva continuato a studiarla e ad incantarsene.
“La
musica – diceva – ha in sé una formidabile capacità formativa e
rappresenta una grande scuola di umiltà perché, più studi la
musica, più ti accorgi che quella che resta ancora da studiare è la
parte maggiore”.
Don
Romano, nel 1960, aveva conseguito un “diplomino” al
Conservatorio musicale di Bari col Maestro Nino Rota e, durante gli
anni al Pontificio Seminario Regionale di Molfetta, aveva seguito i
programmi del Conservatorio “Niccolò Piccinni” di Bari, sotto la
guida del Maestro Giuseppe Binetti.
Durante
la sua permanenza a Massa, era stato organista del Duomo e della
Corale Comunale, diretta dal Maestro Bertilorenzi.
Il
Coro “Alleluia”, che riuscì a riunire 42 elementi tutti della
Salinella e che raggiunse livelli veramente lusinghieri, sia nelle
animazioni liturgiche che nell’attività concertistica, è solo un
esempio di quale efficace strumento educativo considerasse don Romano
la musica, “ancella” del ministero sacerdotale.
Amava
il suo paese come pochi. E amava la storia dei padri.
“E’
la nostra storia – era solito dire a me che gli chiedevo quanto
fosse importante per lui conservarne la memoria, preservarla
dall’oblio - Non ci sarebbe la storia attuale se non come
continuazione e sviluppo della passata. E se sogni di costruire
qualcosa in avvenire o che lo facciano altri, devi fare i conti col
presente, che poggia sul passato, altrimenti i tuoi sogni resteranno
tali”.
Altrettanto
aveva a cuore il destino dei giovani.
Fu
pensando a loro e al suo paese che, durante una forzata
convalescenza, nel 1978, “stese un lavoretto di storia locale…senza
pretese” intitolato: “Ragazzi, ecco Crispiano”. “Scrivere di
storia locale – diceva – non è altro, da parte mia, che un
continuo atto di amore alle nostre radici”.
…da
allora, al primo, si sono aggiunti altri 9 titoli, ricchi di ricordi,
di modi di dire, di soprannomi, di tradizioni, di piccole-grandi
storie della gente della sua terra, e su un’altra storia stava
lavorando durante il suo riposo da “pensionato”…senza smettere
però di celebrare Messa ogni giorno e recarsi ogni mercoledì al
Seminario Interdiocesano di Poggio Galeso, per intrattenersi con i
giovani Seminaristi e per le confessioni.
In
occasione del suo cinquantesimo di sacerdozio, alla domanda se avesse
un particolare messaggio per i giovani, rispose:
“Ai
giovani mi limiterei di ricordare soltanto ciò che va dicendo loro
Papa Francesco: “Giovani avanti!”. Aggiungerei: “Cari giovani,
se i vostri occhi sono rivolti in avanti, significa che l’avvenire
è tutto da costruire e vi aspetta come protagonisti. Ricordate il
“Non abbiate paura!” di Giovanni Paolo II? Costruite già da oggi
le basi del vostro domani. Da voi stessi. Non siate mobili come il
girasole, o portaborse, di nessuno di quelli di moda, che vengono e
passano da un vuoto all’altro, secondo il soffiare del vento del
momento e, che, allo sciogliersi della neve, si rivelano…quel che
sono. Sognate, ma mangiate midollo di leoni”.
Chi
lo ha conosciuto, in qualunque luogo si trovi, che sia crispianese o
meno, godrà di una grande eredità: quella di essere stato in
qualche modo “suo figlio”.
Sapevo
che aveva lasciato dei rimpianti nei suoi parrocchiani. Lo avevo
ripetutamente notato durante le affollate presentazioni dei suoi
libri, dove tanti volti noti si confondevano a molti altri
sconosciuti, o durante le mie visite nella casa dove ha trascorso i
suoi ultimi tempi, dove c’era sempre qualcuno a conversare con lui
o che lo chiamava al telefono, così, in un’occasione, gli chiesi
perché tanto affetto in tanta gente.
Lui
mi rispose:
“Se
i figli sono pezzi di cuore, per una paternità affettuosa, di sudore
e, non poche volte, di sangue e una figliolanza pura e sentita, forse
il mio è la…in quei pezzi di cuore…”.