RELAZIONE DI SILVIA LADDOMADA
All’inizio
del 1900, la crisi della fiducia nella scienza, grazie alla quale ci
sarebbe stato un progresso e un benessere infinito, portò alla
nascita di nuove correnti filosofiche irrazionalistiche e di nuovi
movimenti letterari ed artistici, accomunati da un atteggiamento
rivoluzionario, provocatorio, aggressivo, nei confronti della società
borghese.
Ricordiamo
il Cubismo, il Dadaismo, l’Espressionismo, il Futurismo, il
Surrealismo, che privilegiava l’esplorazione delle zone oscure
dell’inconscio, seguendo la psicoanalisi di Freud. Essi esprimevano
il disagio interiore dell’uomo moderno, quell’angoscia
esistenziale che gli animi più sensibili provavano al crollo delle
certezze positivistiche, con la prospettiva di una catastrofe
imminente, che si concretizzò nel primo conflitto mondiale. Anzi, fu
proprio il desiderio di sfuggire all’angoscia a spingere molti
intellettuali e uomini di cultura a vedere, nella grande Guerra, una
paradossale occasione di riscatto esistenziale.
Nei
toni enfatici dei giovani interventisti, nell’entusiasmo con cui
un’intera generazione scelse l’arruolamento volontario, si può
scorgere il miraggio di un’occasione storica per riaffermare, in
linea con le filosofie irrazionalistiche di inizio secolo, la propria
capacità di incidere sugli eventi, di ridare vigore alla propria
individualità repressa, attraverso l’azione concreta, anche
violenta.
Mossi
da questa illusione di gloria e di riscatto individuale, molti
intellettuali inneggiarono alla guerra e molti vi parteciparono in
prima persona (Ungaretti, D’Annunzio, Marinetti, Papini).
La
realtà fu drammaticamente diversa dai velleitari sogni di gloria.
Nella partecipazione al conflitto molti esponenti della nuova
generazione ritrovarono le medesime condizioni di massificazione e
anonimato della società da cui tentavano di fuggire.
Come
la poesia, anche la narrativa, a livello europeo, nei primi
trent’anni del 1900, riflette l’angoscia esistenziale dell’uomo
moderno. Cambiano i contenuti e cambiano le forme di scrittura.
Se
il romanzo tradizionale seguiva la vicenda di uno o più personaggi
secondo uno svolgimento logico e cronologico lineare, nel nuovo
romanzo domina il tema del ricordo, della memoria, della malattia,
del disagio psichico. Non c’è una trama; nella mente confusa del
personaggio, il presente si mescola con la memoria del passato; gli
stessi personaggi sono delle figure modeste, piene di contraddizioni,
di turbamenti, di crisi nevrotiche. E’ evidente l’influsso della
psicoanalisi e la scoperta dell’inconscio.
Questo
disagio viene espresso con nuove tecniche, il soliloquio: il
protagonista parla ad alta voce a un immaginario interlocutore; il
monologo interiore: il protagonista pensa ad alta voce, seguendo un
legame logico; il flusso di coscienza: l’autore riporta il fluire
dei pensieri dei personaggi così come si succedono nel suo
inconscio, quindi in assoluta libertà, in forma volutamente
disorganizzata, senza legami logici, ma solo per associazione di
idee.
James
Joyce può essere considerato uno dei padri fondatori del romanzo
novecentesco,(già prima di lui Flaubert aveva incentrato il suo noto
romanzo, Madame Bovary, sui moti di coscienza), grazie soprattutto
alla scelta delle nuove tematiche e alla predilezione per queste
tecniche espressive sperimentali.
“Gente
di Dublino” è stata la prima opera narrativa di Joyce; è una
raccolta di quindici racconti pubblicati nel 1914, in cui l’autore
esprime una critica impietosa nei confronti dei suoi concittadini, la
cui vita, gretta e meschina, diviene il simbolo di una condizione
esistenziale di esclusione dalla vita e di colpevole apatia.
Nello
scenario grigio e triste di Dublino, si svolgono le vicende
quotidiane di gente qualunque. Gli abitanti di questa città vivono
nello squallore, prigionieri di una vita priva di sentimenti
autentici, prigionieri dei loro dubbi, delle loro incertezze.
Personaggi
immobili, incapaci di costruirsi e decidere della propria vita,
personaggi tormentati; tutto quello che esiste oltre il cerchio
chiuso della propria soffocante quotidianità diviene oggetto delle
loro aspirazioni disperate, dei loro sogni. Sogni destinati a
rimanere irrealizzabili, desideri a cui non si riesce a dare
compimento.
Leggeremo
il racconto che ha come protagonista una giovane appena ventenne,
Eveline. Un ottimo esempio di analisi psicologica
dell’insoddisfazione del presente e dell’incapacità di accettare
la sfida in futuro.
Il racconto è una continua oscillazione della
mente tra memoria e riflessione, l’autore con le sue tecniche del
monologo interiore e del discorso indiretto libero, che serve a
riferire in modo vivace e immediato i pensieri della protagonista, ci
presenta Eveline che vuole fuggire dal quartiere in cui vive, ma
finirà poi per rimanervi, senza più speranza. La sconfitta, alla
fine, le sembra migliore dell’avventura.
Pur
essendo innamorata del marinaio Frank, partire é per lei l’unica
via d’uscita dalla noiosa quotidianità, ella vive un sentimento
spento. Ciò che la seduce non sembra l’uomo, ma la possibilità
di cominciare una vita diversa (una nuova casa). Quando si ricorderà
della promessa fatta alla madre di tenere unita la famiglia, Eveline
sembrerà quasi risollevata: ha il pretesto per evitare di scegliere,
per adagiarsi nel suo presente, vivrà solo di illusioni; l’illusione
di aver obbedito al desiderio materno, l’illusione che il padre non
sia – contro ogni evidenza- quell’individuo brutale e violento
che in realtà è.
Nella
prima parte Joyce usa il monologo interiore, il pensiero scorre
liberamente sui ricordi: il padre violento, i fratelli, la mamma
scomparsa, la difficile vita di casa. Un ambiente domestico che la
protagonista sembra scoprire per la prima volta, benché oggetti e
arredi siano tanto polverosi. Il passato si sovrappone al presente e
alla tentazione di allontanarsi per sempre dalla triste realtà,
divisa tra il lavoro ai Magazzini e le incombenze domestiche.
La
parte finale è più rapida. I cancelli, oltre cui Frank si
allontana, raffigurano la chiusura esistenziale di Eveline,
prigioniera di se stessa, più che degli altri o di una situazione
esterna.
Il
sogno di fuga fallisce nel momento in cui sta per diventare realtà.
Eveline
James
Joyce, Gente di Dublino
Sedeva
alla finestra osservando la sera invadere il viale. Teneva la testa
appoggiata alle tende e nelle narici aveva l'odore della cretonne
polverosa. Era stanca.Passava
poca gente. L'uomo dell'ultima casa passò diretto ad essa; ne udì i
passi risonare secchi sul marciapiede di calcestruzzo e dopo
scricchiolare sul sentiero di scorie davanti alle nuove case rosse.
Un tempo lì c'era stato un campo dove giocavano tutte le sere con i
figli dell'altra gente. Poi uno di Belfast aveva comprato il campo e
vi aveva costruito case, non come le loro piccole e scure, ma case
chiare di mattoni con tetti lucenti. I bambini del viale
giocavano insieme in quel campo: i Devines, i Waters, i Dunns, il
piccolo Keogh lo storpio, lei e i suoi fratelli e sorelle. Ernest,
però, non giocava mai: era troppo grande. Suo padre spesso andava a
stanarli fuori del campo con il bastone di rovo; ma di solito il
piccolo Keogh faceva la guardia e gridava quando vedeva suo padre
venire. Pure sembravano essere stati abbastanza felici allora.
Suo padre non era così malridotto; e per di più sua madre era viva.
Era tanto tempo fa; lei e i suoi fratelli e sorelle erano tutti
cresciuti, sua madre era morta. Anche Tizzie Dunn era morta e i
Waters erano tornati in Inghilterra. Tutto cambia. Adesso stava per
andare via come gli altri, per lasciare la sua casa. Casa!
Guardò in giro per la stanza, passando in rivista tutti gli oggetti
familiari che aveva spolverato una volta alla settimana per tanti
anni, domandandosi da dove mai venisse tutta quella polvere. Forse
non avrebbe mai rivisto gli oggetti familiari dai quali non aveva mai
immaginato di venire separata. Eppure durante tutti quegli anni
non aveva mai scoperto il nome del prete la cui fotografia ingiallita
era appesa al muro, sopra l'armonium rotto, accanto alla stampa
colorata delle promesse fatte alla beata Margaret Mary Alacoque.
Era stato un amico di scuola di suo padre. Ogni volta che mostrava la
fotografia a un ospite suo
padre vi
accennava di sfuggita con le parole:
« È a Melbourne adesso».
Aveva
acconsentito ad andarsene, a lasciare la sua casa. Era saggio?
Cercò di
ponderare ogni aspetto della questione. A casa aveva comunque
tetto e cibo; aveva intorno quelli che aveva conosciuto tutta la
vita. Naturalmente doveva lavorare sodo, sia a casa sia al negozio.
Cosa avrebbero detto di lei ai grandi magazzini scoprendo che era
scappata con uno? Che era una stupida, forse; e avrebbero rioccupato
il suo posto con un'inserzione. La signorina Gavan sarebbe stata
contenta. Ce l'aveva sempre avuta con lei, soprattutto ogni volta che
c'era gente che ascoltava.
«Signorina Hill, non vede
che le signore aspettano?»
«Un po' di vita, signorina
Hill, per favore.»
Non
avrebbe versato molte lacrime nel lasciare i grandi magazzini.
Ma
nella sua nuova casa, in un lontano paese ignoto, non sarebbe stato
così. Allora sarebbe sposata: lei, Eveline. La gente l'avrebbe
trattata con rispetto. Non come era stata trattata sua madre.
Persino ora, sebbene avesse diciannove anni passati, talvolta si
sentiva esposta al pericolo della violenza paterna. Sapeva che era
questo che le aveva dato le palpitazioni. Quando crescevano non le si
era mai lanciato contro, come faceva con Harry ed Ernest, perché
era una ragazza; ma ultimamente aveva cominciato a minacciarla e
a dirle cosa non le avrebbe fatto, non fosse stato per riguardo a sua
madre morta. E ora non aveva nessuno che la proteggesse, Ernest era
morto e Harry, che lavorava come decoratore di chiese, era quasi
sempre in qualche posto in campagna. Inoltre, l'invariabile
battibecco per i soldi le sere del sabato aveva cominciato a
stancarla indicibilmente. Dava sempre tutto il suo stipendio (sette
scellini) e Harry mandava sempre quello che poteva, ma il guaio era
riuscire a farsi dare qualche soldo dal padre. Diceva che lei
sperperava il denaro, che non aveva testa, che non le avrebbe dato i
soldi faticosamente guadagnati da spendere e spandere per strada, e
molto di più, perché di solito il sabato sera era piuttosto
malridotto. Alla fine le dava i soldi chiedendole se era nelle sue
intenzioni fare la spesa per il pranzo domenicale. Allora doveva
precipitarsi fuori il più rapidamente possibile per andare al
mercato, tenendo stretto in mano il borsellino di cuoio nero mentre
si faceva strada a gomitate fra la folla, tornando a casa tardi
carica di provviste. Era una bella fatica mandare avanti la casa e
fare in modo che i due bambini che le erano rimasti affidati,
andassero a scuola regolarmente e prendessero regolarmente i pasti.
Era un duro lavoro, una vita dura, ma ora che stava per lasciarla non
la trovava una vita del tutto indesiderabile.
Con Frank stava per esplorare
un'altra vita. Frank era molto buono, virile, aperto. Doveva partire
con lui sul battello della notte per diventare sua moglie e
vivere con lui a Buenos Aires, dove aveva una casa che l'aspettava.
Come ricordava bene la prima volta che l'aveva visto; alloggiava in
una casa sulla strada principale dove lei andava in visita. Parevano
poche settimane fa. Stava in piedi al cancello, con il berretto a
visiera spinto indietro sulla testa e i capelli che gli ricadevano in
avanti su un viso di bronzo. Poi si erano conosciuti. L'attendeva
tutte le sere fuori dei grandi magazzini e l'accompagnava a casa.
L'aveva portata a vedere La
Zingarellae
lei era
esultante mentre sedeva con lui in una parte del teatro insolita. Gli
piaceva terribilmente la musica e cantava un poco. La gente
sapeva che le faceva la corte e, quando lui cantava della
ragazza che ama un marinaio, si sentiva sempre piacevolmente
confusa. La chiamava Poppens per scherzo. Dapprima avere un ragazzo
l'aveva eccitata e poi aveva cominciato a trovarlo simpatico.
Raccontava di paesi lontani. Aveva cominciato come mozzo a una
sterlina al mese su una nave della linea Allan che salpava per
il Canada. Le aveva enumerato i nomi delle navi su cui era stato e i
nomi dei diversi servizi. Aveva attraversato lo stretto di Magellano
e le raccontava storie dei terribili patagoni. A Buenos Aires
era stato fortunato, disse, ed era venuto nella vecchia patria solo
per una vacanza. Naturalmente, suo padre aveva scoperto la relazione
e le aveva proibito di avere a che fare con lui.
«Li conosco questi marinai»
aveva detto.
Un
giorno aveva bisticciato con Frank, e dopo questo lei doveva
incontrarsi con l'amante di nascosto.La
sera si incupì nel viale. Il bianco di due lettere in grembo divenne
indistinto.
Una era per Harry; l'altra per suo padre. Ernest era
stato il suo preferito, ma voleva bene anche a Harry. Suo padre era
andato invecchiando ultimamente, osservò; gli sarebbe mancata.
Qualche volta poteva essere molto carino. Non molto tempo prima,
quando per un giorno era stata male, le aveva letto ad alta voce una
storia di spiriti e ahbrustolito il pane sul fuoco. Un altro giorno,
quando sua madre era viva, erano tutti andati a fare un picnic sul
colle di Howth. Lo ricordò che si metteva il cappello di sua madre
per fare ridere i bambini.
Le rimaneva
ben poco tempo, ma continuava a sedere accanto alla finestra,
appoggiando la testa alla tenda, aspirando l'odore di cretonne
polverosa. Lontano nel viale udiva un organetto suonare. Conosceva il
motivo. Strano che
dovesse venire proprio quella sera a rammentarle la promessa a sua
madre, la promessa di mandare avanti la casa il più a lungo
possibile. Ricordò l'ultima notte della malattia di sua madre; era
di nuovo nella buia stanza soffocante dall'altro lato dell'ingresso e
fuori udiva un malinconico motivo italiano. Al suonatore
d'organetto era stato ordinato di andarsene dandogli un sixpence.
Ricordò suo padre tornare con sussiego nella camera della malata
dicendo:
«Maledetti
italiani! Venire qua! ».
Mentre
fantasticava, la visione pietosa della vita di sua madre gettò il
suo maleficio fino nel profondo del suo essere: quella vita di
sacrifici banali conclusasi con la pazzia. Tremò mentre riudiva la
voce materna dire continuamente con assurda insistenza:
«Derevaun
Seraun! Derevaun Seraun!».
Si
alzò con un improvviso moto di terrore. Fuggire! Doveva fuggire!
Frank l'avrebbe salvata. Le avrebbe dato la vita, forse anche
l'amore. Ma lei voleva vivere. Aveva diritto alla felicità. Frank
l'avrebbe presa fra le sue braccia, stretta fra le sue braccia.
L'avrebbe salvata.
Stava
in mezzo alla folla ondeggiante nella stazione al North Wall. Lui le
teneva la mano e lei sapeva che le stava parlando, che ripeteva
qualcosa sulla traversata più e più volte. La stazione era piena di
soldati con bagagli scuri. Attraverso le ampie porte dei
capannoni intravedeva la massa nera della nave, ormeggiata
accanto al muro del molo, con gli oblò illuminati. Non rispose
nulla. Si sentiva le guance pallide e fredde e, da un labirinto di
angoscia, pregò Dio di guidarla, di indicarle quale era il suo
dovere. La nave mandò un lungo fischio lugubre nella bruma. Se
andava, domani sarebbe stata sul mare con Frank, diretta a tutto
vapore verso Buenos Aires. I biglietti per la traversata erano stati
presi. Poteva ancora tirarsi indietro dopo tutto quello che lui aveva
fatto per lei? L'angoscia le fece venire la nausea mentre
continuava a muovere le labbra in silenziosa fervente preghiera.
Una
campana le squillò sul cuore. Lo sentì afferrarle la mano:
«Vieni!».
Tutti
i mari del mondo le si rovesciarono intorno al cuore. La stava
attirando dentro di essi: l'avrebbe affogata. Si aggrappò con
entrambe le mani alla ringhiera di ferro.
«Vieni!
»
No!
No! No! Era impossibile. Le mani strinsero convulse e frenetiche
il ferro. Lanciò in mezzo ai mari un grido di tormento. «Eveline!
Evvy! »
Lui
si precipitò oltre la barriera e le gridò di seguirlo. Gli urlarono
di andare avanti, ma la chiamava ancora. Fissò su di lui il viso
bianco, passivo, da animale indifeso. I suoi occhi non gli dettero
nessun segno di amore o di addio o di riconoscimento.
Auguri Donato per i tuoi ottant'anni! Che tutti insieme festeggiamo con l'auspicio di rivederci ancora per lunghi anni...
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"Lo scrittore giornalista Goffredo Palmerini"